Il danzatore Gregorio Samsa tra Paul Virilio ed Eugenio Barba
Due spettacoli di Lorenzo Gleijeses a Bassano Operaestate
Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa nasce da un lungo processo creativo, coerente e paziente. Lo testimoniano con precisione e passione i materiali depositati nella gestazione della drammaturgia d’attore. Nel corso dell’elaborazione, Lorenzo Gleijeses ha incontrato Julia Varley ed Eugenio Barba. Regia e drammaturgia portano la firma di tutti e tre, e lo spettacolo, visto a Bassano Operaestate, è già per questo sorprendente. Ma il progetto nasce da molto più lontano. Da una fascinazione di Lorenzo Gleijeses per il concetto di dromoscopia (pensiamo allo spaesamento che proviamo quando, seduti in un treno parallelo a un altro, per qualche momento non riusciamo a capire quale dei due convogli si stia muovendo) sviluppato da Paul Virilio e da una pratica esplorativa delle sue implicazioni sceniche. Il metodo di lavoro è affatto inusuale per tempi, modi e intenti. E originale nei risultati.
Dal 2015 Gleijeses ha coinvolto nel progetto 58° Parallelo Nord alcuni artisti (Eugenio Barba, Julia Varley, Michele Di Stefano, Biagio Caravano, Luigi De Angelis, Chiara Lagani, Roberto Crea) in un percorso di creazione collettiva che ha messo in crisi «il ruolo monocratico dell’artista demiurgo». È stato un procedere per tappe, ripensamenti, scambi. Una pratica dell’incontro e dell’ascolto che sul parallelo in questione – quello che passa per Holstebro, storica sede dell’Odin Teatret – è di casa da sempre. Ma con una giocosità serissima che ricorda il cadavre exquis dei surrealisti. Solo Lorenzo Gleijeses e il compositore Mirto Baliani sono stati presenti in tutte le fasi del progetto, dal quale sono originate due produzioni autonome. Da un lato la performance Corcovado, diretta da Michele Di Stefano e Luigi De Angelis (che ha debuttato al Festival Fog del Teatro dell’Arte-Triennale di Milano nel maggio 2020); dall’altro lo spettacolo Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, diretto da Eugenio Barba insieme a Julia Varley e allo stesso Gleijeses, e prodotto da NordiskTeaterlaboratorium, Gitiesse Artisti Riuniti e Fondazione TPE (ha debuttato all’Astra di Torino a gennaio 2019).
Il movimento comanda l’evento: Gleijeses prende alla lettera l’assioma di Virilio e ambienta Corcovado nella sala di consegna bagagli di un aeroporto, non-luogo sospeso in cui, scomparsi ormai la partenza e perfino il viaggio stesso, non resta che l’arrivo. La distanza-spazio, spiegava il filosofo francese, ha lasciato il posto alla distanza-tempo, sempre più contratta verso l’istantaneità (la velocità con la quale messaggi e immagini arrivano sui nostri smartphone rende oggi più chiaramente l’idea della scomparsa della partenza, del percorso, dell’attesa, dell’incontro).
Eccoci dunque davanti a un nastro trasportatore. Un addetto (Manolo Muoio) la sta accuratamente pulendo mentre il pubblico ancora entra in sala, lava perfino il pavimento. Poi aziona il nastro premendo il pulsante rosso e cominciano a uscire delle valigie che cadono ai piedi degli spettatori. L’inserviente le prende e le accatasta di lato. Ma intanto escono anche degli oggetti e, tra questi, un’asta per microfono, e a seguire il performer. Portato avanti e indietro dal nastro, si esibisce in torsioni, gesti reiterati che diventano tic, assume posture atletiche, indossa un accappatoio, poi un abito, lo toglie. Le cose più disparate continuano a uscire e ad ammassarsi alla fine del nastro: biglie, scarpe, ananas, bocce da biliardo, un paio di sci… Oggetti differenti per peso, dimensioni, colori, che cadono e risuonano in modi diversi. Sono tracce memoriali, proiezioni di desideri altrui esposti a una impassibile “macchina dello sguardo”. E il corpo, con le sue evoluzioni, i suoi scatti, i suoi gesti, è un oggetto fra gli altri.
La bocca del nastro diventa la buca di un bowling e l’inserviente lancia una boccia contro i birilli. Senza una parola, il performer ripete con millimetrica precisione (non può sbagliare: il gioco è anche pericoloso) i geroglifici di una partitura corporea che diventa ossessiva. Nasce dal «desiderio spudorato di abbandono al farsi “cosa” tra le “cose”, alla vertigine centrifuga e alla distopia dell’instabilità dello sguardo mutevole», scrive lo stesso artista. Per l’ultima apparizione indosserà una corona di piume d’uccello (richiamo forse a una destinazione esotica che rimane nella sua mente, nella nostra mente?) e impugnando un piumino da spolvero, prima di lasciarsi definitivamente inghiottire dalla macchina. Vengono in mente le parole di Virilio: «Nella rapidità dello spostamento il viaggiatore-voyer si trova in una situazione opposta a quella del frequentatore delle sale cinematografiche. È lui a essere proiettato: attore e spettatore del dramma della proiezione, recita nell’attimo del tragitto la sua stessa fine» (L’horizon négatif, Éditions Galilée, Paris 1984).
In Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa ritroviamo, dilatate ed elaborate fino alla maniacalità, le medesime partiture corporee di Corcovado. È una lucidissima riflessione sull’arte e la follia, sul modo ossessivo di intendere il lavoro dell’attore. Incistato nel suo compito artistico, il protagonista prova e riprova fino allo sfinimento le sequenze coreografiche di uno spettacolo che non andrà mai in scena. Ha quarant’anni, da venticinque ricerca e ricerca, e non ha ancora trovato. È sempre sotto debutto: prova e riprova, insegue la perfezione. Ora la voce del Maestro lo blocca, si dice insoddisfatto: «Daccapo», e poi, scoraggiandolo: «Per oggi basta». Ma Gregorio è abitato dalle figure che animano il suo corpo e anche in casa riproduce la cinetica della sala prove. La domotica gli consente di comandare danzando le luci, il microonde, il rubinetto, di continuare i suoi esercizi anche facendo la doccia, lavandosi i denti. Un aspirapolvere-robot si muove intersecando le sue geometrie domestiche. Tutto è allontanato in una estraneità che gli permette di evitare i rapporti: la fidanzata, il padre, la psicanalista comunicano con lui solo attraverso la segreteria telefonica. Ha un incubo ricorrente: è il giorno del debutto e lui si addormenta così profondamente da non sentire la sveglia. Continua a lavorare sui dettagli, che diventano i tic di una nevrosi che affonda le sue radici probabilmente nel rapporto con il padre. La prima volta che lo ha visto in scena lo ha paragonato a un enorme insetto. Ecco allora Kafka, la Lettera al padre che diventa uno struggente messaggio vocale per il genitore. Suona la sveglia nell’incubo e Gregorio si trova trasformato in un insetto, come nella Metamorfosi: non potrà andare in scena così. Ormai i confini fra reale e immaginario sono saltati. Gregorio sperimenta nelle sue partiture anche il divenire animale, è un ragno che tesse la propria tela e ne rimane prigioniero. Il Padre bussa alla sua stanza, il Maestro chiede informazioni. Ma lui trova la forza di mettere finalmente in atto la sua fuga: una corsa disperata verso il sole proiettato sul fondale, fino ad andare oltre lo schermo, fino a che resta il solo respiro affannato nel buio. Avrà trovato sé stesso?
Se l’interpretazione di Lorenzo Gleijeses è di una precisione così assoluta da poter mettere in discussione sé stessa, come richiede l’intenzione drammaturgica, notevoli sono anche le partiture luminose e le musiche di Mirto Baliani che a volte giocano con motivi stranianti, echi western e napoletani. Importanti le scene di Roberto Crea, che ha realizzato uno spazio essenziale e tecnologico profilato con quattro corde zavorrate. Nelle concitate fasi finali, oscillano creando ostacoli al training autistico del protagonista e dialogando con il suo materiale performativo.
Tutto torna in questo spettacolo insolito e coraggioso. Compresa la scelta delle voci fuori campo: il Maestro è Eugenio Barba, il Padre è Geppy Gleijeses: il vero maestro, il vero padre. Ha dichiarato Eugenio Barba che questa sua regia, la prima al di fuori dell’Odin Teatret, nasce da un tradimento che è «un ritorno a casa». Perché in Lorenzo Gleijeses ha riconosciuto un modo di intendere e di praticare il teatro. Ciò che colpisce di più, nella pratica e nel pensiero del teatro di Gleijeses, è tuttavia l’autonomia, la differenza. L’originalità degli esiti nonostante (o dovremmo forse dire grazie a) il fatto di essere figlio d’arte e di aver cercato proprio quei maestri. Che ha ripagato bene, si direbbe parafrasando Nietzsche: evitando di diventare discepolo e andando per la sua strada.
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