PostModerno (bonus track annisettanta)

da “il Patalogo 5/6”, Ubulibri, Milano, 1983, pp. 166-169

Pubblicato il 17/11/2007 / di / ateatro n. 113

E’ in corso alla Triennale di Milano la mostra annisettanta. La sezione Nel labirinto del teatro è curata da Oliviero Ponte di Pino, che ha creato anche una versione online con il minisito I labirinti del teatro@annisettanta.
Per i lettori di ateatro, abbiamo recuperato un testo vintage che richiama l’atmosfera dell’allestimento in Triennale.

Il PostModerno come negazione dell’idea stessa di avanguardia o, paradossalmente, ennesima variazione sul tema? E la performance, espressione per eccellenza del PostModerno nell’ambito della rappresentazione, è effettivamente PostModerno? E insomma, il PostModerno, a teatro e fuori, è veramente PostModerno?

“Cretesi, eterni bugiardi, cattive bestie, e ventri voraci”. (S. Paolo, Tito, 1, 12)

Sbarcato a Creta dopo un’avventurosa navigazione, seppi dal mio ospite Epimenide che l’isola era abitata da due tribù rivali, quella dei Moderni, seguaci dei grandi sistemi filosofici ottocenteschi, che si dicevano in grado di ridurre la molteplicità del mondo all’unità del pensiero, e quella dei Post Moderni, che tale prospettiva negavano o ritenevano superata.
Il buon Epimenide, al termine di un ricco banchetto, aggiunse che mi sarebbe stato utile sapere distinguere gli uni dagli altri, ma che non sarebbe stato facile. Ritiratomi nella stanza che il mio ospite aveva preparato, non riuscii a prendere sonno. Non bastava, pensavo, chiedere all’isolano a quale tribù appartenesse. Infatti una teorizzazione dei PostModerno (qualunque sia la definizione che otteniamo), ottiene come risultato solo un altro di quei sistemi “Moderni”, superati o rifiutati dal PostModerno. Quindi il seguace del PostModerno non potrà che cercare indizi di PostModerno nel Moderno o, al contrario cercare indizi di Moderno nel sedicente PostModerno. Mi sembrava dunque di aver trovato un sistema per smascherare i finti PostModerni, e per di più, pur non essendo un indigeno, mi ero scoperto PostModerno mio malgrado. Doppiamente rassicurato mi addormentai.

Scritto l’apologo, sono rimasto un attimo a riflettere. Non è difficile scoprire quanto post-moderno involontario ci sia nel moderno, e neppure compiere l’operazione inversa: e infatti molti già lo fanno. Ho dunque cercato di fare un passo in un’altra direzione: ho cercato cioè di guardare il post-moderno con gli occhi di un moderno che osserva il pre-moderno. In altre parole, ho preso in considerazione un certo tipo di operazione artistica, che possiamo definire “performance post-moderna” – è un termine ovviamente di comodo, molti degli interessati rifiuterebbero a ragione quest’etichetta, e ancor meno accetterebbero i loro compagni di cordata – e ho cercato di analizzarla con gli occhi di un antropologo impegnato nello studio di una delle cosiddette società “primitive”, “selvagge”. Ho utilizzato come traccia i primi tre capitoli del Pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss (l). Al quarto mi sono fermato, un po’ perché il gioco iniziava a mostrare la corda; e poi l’inizio del capitolo (Lo scambio delle donne e lo scambio dei cibi… ) mi avrebbe imposto di avventurarmi su un terreno eccessivamente personale, nel privato dei gruppi, e ho preferito astenermi.

Nel primo capitolo del Pensiero selvaggio, Lévi-Strauss mette in rapporto il bricolage – detto in Italia più volgarmente “fai da te” – e il metodo con il quale i primitivi organizzano i loro miti, la loro concezione del mondo, il loro linguaggio, la loro società, e in definitiva il loro pensiero e le sue regole.

Per bricoleur si intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando strumenti diversi rispetto a quelli usati dall’uomo del mestiere.

Anche il performer predilige strumenti molto diversi da quelli utilizzati in genere dall’uomo del mestiere, che in questo caso potrebbe essere il regista teatrale (o, se si vuole seguire un’altra linea genealogica, il pittore o lo scultore). Il repertorio strumentale utilizzato in genere negli spettacoli teatrali tradizionali comprende degli attori, delle scene (magari con quinte e fondali) e soprattutto un testo intorno al quale si coagulano voce e gesto. Questi stessi elementi li possiamo ritrovare anche all’interno delle performance, dove però l’universo strumentale colpisce innanzitutto per la maggior ampiezza, per l’uso di tutta una gamma di “attrezzi” molto più ampia. Si tratta di un vero e proprio arsenale, un armamentario di supporti tecnici che col teatro tradizionale hanno poco a che fare, o che in teatro sono stati utilizzati in maniera episodica e in ruoli marginali – cioè come ulteriore supporto all’ allestimento di un testo drammatico all’interno di una forma-spettacolo già codificata. Qui hanno invece un ruolo di primo piano, anzi sono spesso i veri protagonisti dello spettacolo. Il performer, oltretutto, utilizza questi supporti tecnici con il sistema tipico del bricoleur.

I materiali del bricoleur sono elementi che si possono definire in base a un duplice criterio: sono serviti, quali termini di un discorso che la riflessione mitica smonta come il bricoleur smonta una vecchia sveglia; e possono ancora servire per il medesimo uso, o per un uso differente se appena si modifica il loro primitivo funzionamento.

Si tratta, a seconda dei casi, di proiettare spezzoni di filmati o video in un spettacolo teatrale – e quindi utilizzarli in un contesto diverso, ma mantenendone la funzione originale; oppure di utilizzare diapositive e film come elemento scenografico o come fonte di illuminazione. Ma ci si trova spesso di fronte a proiezioni di immagini rotanti, sovrapposte, sparate di sghembo su una parete in modo da vanificare le leggi della prospettiva, sviate insomma dal loro uso originale. Anche i suoni subiscono lo stesso “trattamento”, un processo che ne altera la natura: un brano musicale o di parlato, dopo essere passato attraverso uno o più filtri acustici (sintetizzatori, echi, riverberi, ritardi e distorsioni) può essere riutilizzato in maniera diversa da quanto originariamente previsto: per esempio un brano parlato si trasforma in sottofondo “musicale”.

Si potrebbe essere tentati di dire che l’ingegnere interroga l’universo, mentre il bricoleur si rivolge a una raccolta di residui di opere umane, cioè a un insieme culturale di sottordine. (….) Per il bricoleur si tratta, per così dire, di messaggi pre-trasmessi e di cui egli fa collezione.

Appare subito evidente il rapporto tra questo repertorio di supporti tecnici e l’universo dei mass-media (vedi tab. 1): il performer in genere non fa altro che riciclare, ritrasmettere messaggi già circolanti, già “consumati”. Si tratta dunque di messaggi recuperati da un universo chiuso – quello del “già visto” – dal quale scegliere alcuni elementi da riassemblare e riutilizzare in un contesto diverso.

Altra fonte per il performer è la cosiddetta “arte d’avanguardia”, ovvero i prodotti della ricerca e della sperimentazione artistica degli ultimi vent’anni. Non si possono dimenticare incursioni in un passato più lontano, anche se oggi quasi tutte le opere d’arte, passato un sufficiente lasso di tempo, vengono fagocitate e riciclate dai mass-media.
Non sorprende neppure l’accenno di Lévi-Strauss all’insieme culturale di sott’ordine. È infatti frequente il ricorso a forme culturali minori, di basso consumo (e in questo ambito bisognerebbe inserire anche molto cinema, molta tv, eccetera) che riciclano espressioni culturali di più alto livello.

Per quanto infervorato, il suo modo di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne e rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con esso una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte possibili che può offrire al problema che gli viene posto.

Anche la performance, prima ancora di arrivare al problema (ammesso che ne esista uno), ha come necessità quella dell’elenco, dell’inventario. Non è difficile trovare esempi: “un filmato distorto, ruotante per la sala, profili luminosi tracciati da diapositive e proiettori, geroglifici di tubi al neon”, ovvero una performance (Quiescente obliqua di Ferruccio Ascari) costituita in primo luogo da un inventario delle possibili fonti di illuminazione. O ancora, “un excursus suggestivo e frastagliato, dove le sonorità acide e corrosive di Lou Reed, Iggy Pop, Eric Clapton o della Larry Martin Factory ben si amalgamano con il glaciale estetismo dei Dire Straits e dei Lieve Wire e dove i soffici e arabescati stilemi di Peter Gabriel e di John Martin bene si accoppiano con i freddi razionalismi dei Simple Minds e le pesanti strutture degli Stranglers e dei sudisti Lyynyrd Skynyrd” (2), ovvero una colonna sonora costituita da una vera e propria hit parade da cui nulla, se possibile, deve restare escluso (per Linea d’ascolto del Teatro Ipadò).
Del resto si potrebbe formulare l’ipotesi che tutte le performance non siano altro che un elenco di media: teatro, cinema, tv, nastri, ma anche gesti, corpi, telefoni, polaroid eccetera. Questa mania dell’inventario, che riflette la necessità di orientarsi, di ordinare un mondo, è tipica della performance, ma si riflette anche nel modo di procedere dell’antropologo che, prima di tutto, deve compilare liste di nomi, persone, oggetti, ricostruire il lessico dei suoi “selvaggi”. Di qui alla tentazione di costruire un “lessico generale” della performance, il passo è stato breve (vedi tab. 2).

Ho proceduto più che altro a memoria, compilando tabelle delle parole e degli oggetti che ricorrono negli spettacoli, in dichiarazioni, interviste, programmi di sala. Ritroviamo altre indicazioni sul modo di procedere del performer in questo brano, peraltro già citato:

I materiali del bricoleur sono elementi che si possono definire in base a un duplice criterio: sono serviti, quali termini di un discorso che la riflessione mitica smonta come il bricoleur smonta una vecchia sveglia; e possono ancora servire per il medesimo uso, o per un uso differente se appena si modifica il loro primitivo funzionamento; né le immagini del mito, né i materiali del bricoleur provengono dal divenire puro. Quel rigore che sembra mancare loro quando li osserviamo nel momento del loro nuovo impiego, essi l’hanno posseduto di anzi, quando facevano parte di altri insiemi coerenti; e, quel che più conta, continuano a possederlo nella misura in cui non sono materiali bruti, ma prodotti già lavorati.

Da questo punto di vista, il procedimento del performer è affine a quello dell’artista pop: prende un elemento per trasferirlo in un contesto diverso da quello originale. Con questo processo, da una parte l’elemento in questione, pur non perdendo il suo valore (al limite, neppure il suo valore d’uso) ne acquista, in sovrappiù, uno nuovo. E contemporaneamente, il contesto, l’insieme in cui questo elemento viene inserito, proprio con l’aggiunta di questo nuovo elemento, subisce anch’esso una trasformazione. L’insieme dei messaggi trasmessi dai mass-media – il che significa, in altri termini, il nostro universo, la “civiltà dello spettacolo” di cui la performance vuole essere uno specchio, anche se parziale – non costituisce, da un certo punto di vista, un vero e proprio sistema: non è rigidamente gerarchizzato, sembra essere in grado di inglobare qualsiasi elemento estraneo, qualsiasi “novità”… Ma agli occhi del performer proprio per queste sue caratteristiche, appare come un universo chiuso, impenetrabile, dotato di una sua forza, di un suo rigore, di una sua coerenza assolutamente indecifrabili. Si tratta dunque di assimilare parte di questa forza con un rito magico e mimetico, assimilandone alcuni elementi, ricostruendo alcune delle sue caratteristiche e proprietà, insomma, ricreando “in vitro” un campione di questo universo. Anche se poi la costruzione che ne risulta, obbedendo in qualche modo a regole “estetiche”, “architettoniche”, risulta troppo rigorosa, troppo rigidamente strutturata rispetto all’universo che pretende di ricostruire. Obbedendo a un criterio selettivo non può avere il carattere onnivoro e onnicomprensivo del suo vago modello, mentre se giudicata da un punto di vista
puramente “estetico”, la performance sembra al contrario non obbedire a alcuna regola, o a regole troppo elastiche, indefinite. Da questo dipende forse quell’ effetto di eccessiva e contemporaneamente insufficiente coerenza che molti dei suoi critici e spettatori rilevano nella performance.

Il secondo capitolo è incentrato soprattutto, come indica il titolo, sulla

logica delle classificazioni totemiche.

Senza entrare nella discussione, ormai secolare, sul significato del termine totemismo, possiamo crearci una definizione di comodo, considerando il totemismo un sistema di credenze mediante il quale l’individuo si mette in relazione con un’altra entità (spesso si tratta di animali, ma tra i totem vi sono anche oggetti, concetti astratti, malattie, perfino sentimenti … ). Nei confronti di questa entità, che ha il compito di proteggerlo e tutelarlo, l’individuo ha certi obblighi e proibizioni. Abbiamo già accennato al rapporto di simpatia magica tra la performance e l’universo dei messaggi, ma non sfugge a questo punto il significato altrettanto magico che viene assegnato dal performer a diversi oggetti, concetti, idee: spesso sembra quasi che il semplice fatto di utilizzare uno o più di questi totem offra una garanzia a priori della validità del proprio lavoro.
Un performer può usare come totem il cinema, cercando di strutturare la sua esibizione utilizzando un “linguaggio cinematografico”, o più semplicemente utilizzando una singola pellicola come riferimento all’intero mondo del cinema. Ma può anche usare come totem, scegliere quel singolo film, quel singolo regista, mettendolo in contrapposizione con tutti gli altri. O i mass media in generale. Sembra un universo caotico, in cui tutto equivale a una sua parte (da un certo punto di vista, uno spezzone di pellicola equivale all’intero universo dei film), anche se poi una gerarchia si può ricostruire a posteriori: è quanto ho cercato di fare, raggruppando le parole chiave in famiglie, gruppi che evidenziassero le affinità, le caratteristiche comuni dei vari elementi.
A questo punto mi sono trovato di fronte a un sistema piuttosto complesso, caotico, che non rende conto di due fattori: prima di tutto del modo in cui da questo universo si generi la singola performance, e in secondo luogo (e questa è una conseguenza) del tipo di organizzazione da dare allo schema.

Se si tiene conto della ricchezza e della varietà del materiale bruto di cui solo alcuni elementi, tra i tanti possibili, sono usati dal sistema, non c’è dubbio che un considerevole numero di sistemi dello stesso tipo avrebbero offerto una uguale coerenza e che nessuno di essi è predestinato a essere scelto. (…) Il significato dei termini non è mai intrinseco, ma soltanto di posizione, ossia è funzione della storia e del contesto culturale, e, insieme, della struttura del sistema in cui esse compaiono.

Si tratta dunque di vedere come mettere in rapporto tra loro i vari elementi. Ho tracciato prima di tutto (vedi tab. 2) una serie di relazioni che definirei “di affinità” tra i gruppi, o elementi di gruppi diversi, o tra un gruppo e un elemento (mettere in contatto entità di livello differente, come gruppo ed elemento, è una operazione possibile, visto anche quanto dicevo prima sulla mancanza di una gerarchia, cioè sull’equivalenza tra i vari totem). Si tracciano così dei passaggi obbligati, delle linee preferenziali secondo le quali il performer si può muovere: queste linee permettono dato un elemento, di trovarne altri a esso affini.

Le logiche pratico-teoriche che regolano la vita e il pensiero delle cosiddette società primitive sono mosse dall’esigenza di scarti differenziali (. .. ) Il principio logico è di poter sempre opporre dei termini, che un impoverimento preliminare della totalità empirica permette di concepire come distinti.

Il primo passo è dunque l’estrazione di alcuni elementi dalla totalità empirica: e ne risulta una scelta degli elementi della tab. 2. Si crea dunque una prima opposizione tra questo gruppo (e al limite del gruppo comprendente tutti gli elementi della tabella, che traccia la mappa di una possibile “performance delle performance”) e la totalità degli altri elementi, che costituiscono, se si vuole, l’universo della civiltà di massa, dell’informazione diffusa, del consumo. In altri termini si tratta dell’esistente, del mondo nella sua contemporaneità. La scelta che isola alcuni elementi da questa totalità è di tipo “estetico”: si tratta di apprezzare più o meno determinate intensità, determinate sensazioni, di ritrovarsi in un’immagine, in una situazione (sociologica, generazionale, eccetera). Quello del “scelto” all’interno del quale il “nuovo” assume quasi sempre una connotazione positiva – costituisce dunque un insieme privilegiato in rapporto al “non-scelto”. Questo insieme “scelto” viene poi inserito a forza in un altro sistema: entra infatti a far parte di un fatto estetico. E si tratta in genere di elementi esclusi, o per lo meno non ancora accettati, dai “fatti d’arte”. In questo modo, assumono una ulteriore valenza positiva nei confronti di un insieme chiuso e sclerotizzato, nei confronti del quale appaiono come elementi appartenenti al mondo esterno, veri, “reali” .
Contemporaneamente si genera un altro movimento, parallelo e opposto al precedente. Si tratta, nella performance, di ricostruire un mondo di secondo grado, un mondo che riflette (su) un altro mondo, ponendosi come punto di fuga, come opposizione, riflessione critica, messa a nudo dei suoi meccanismi: e 1’elemento artistico-critico assume dunque una valenza positiva nei confronti del “reale”. Da questo punto di vista l’approccio dell’arte “concettuale”, dove ricorre spesso nell’arte concettuale una riflessione sullo statuto stesso del segno, è esemplare. Come esemplari sono tutto un settore di sperimentazione estetica sulla percezione e sul rapporto con i nuovi mezzi di comunicazione (e spesso la performance non è altro che “pratica” della riflessione sui media di Mc Luhan).
In questo secondo aspetto si concentra la tensione ideologica della performance, come momento di riflessione, presa di coscienza. E tra l’accettazione dell1’esistente (e anzi, spesso la sua esaltazione, la promozione al rango di “fatto estetico”) e una sua critica serrata e puntuale si trova eternamente sospesa la performance. Per uscire da questa contraddizione, si può imboccare con decisione una di queste due strade. Oppure, cercare altrove altre, e più fruttuose, contraddizioni.

NOTE

l. Tutte le citazioni in corsivo sono tratte da Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1964, 1979 (7a ed.)

2. Giampaolo Rizzotto (da “L’Arena”, 29 aprile 1981).

Oliviero_Ponte_di_Pino

2007-11-17T00:00:00




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