Quattro maestri si incontrano a Firenze: Anatolij Vasil’ev, Jerzy Stuhr, Jacques Lassalle, Massimo Castri

Il teatro e la città: la seconda giornata di lavori alla Pergola

Pubblicato il 29/01/2008 / di / ateatro n. 115

La seconda giornata fiorentina di riflessone al Teatro della Pergola ha offerto una mattinata di riflessione sul rapporto tra il teatro e la città (era questo del resto il titolo dell’’incontro), mentre il pomeriggio è stato focalizzato sul tema della pedagogia teatrale.

CESARE MOLINARI
Il rapporto della città di Firenze con il teatro è stato a centro dell’’ampia riflessione di Cesare Molinari, che è partito evocando gli studi di Ludovico Zorzi (e il volume che ha dato il titolo al progetto). Ha poi sottolineato il ruolo avuto dal teatro nella formazione della civiltà rinascimentale. Certo, secondo Ortega y Gasset, “il teatro, nel suo significato fondamentale, indicava un edificio”; e anche per gli umanisti l’edificio teatrale, con il tempio e il palazzo del governo, era uno dei simboli della città e uno dei suoi punti di riferimento. Tuttavia storicamente la pratica teatrale precede sempre la definizione architettonica di un edificio, a Firenze e anche a Venezia, dove venne aperto il primo teatro commerciale; e pure a Londra, dove nell’’età elisabettiana nacquero i primi teatri come edifici indipendenti, e dove successivamente nascerà il primo quartiere dei teatri del mondo. Il termine stesso “teatro”, riferito alla drammaturgia e allo spettacolo, si afferma solo alla fine del Cinquecento, quando inizia a prendere il sopravvento su “festa” o “commedia”. Ed è proprio dalla commedia, ha proseguito Molinari, che ha preso vita il teatro moderno: prima a Ferrara, con le traduzioni dei testi latini (a cominciare dalla Cassaria dell’’Ariosto nel 1508 a Ferrara); e poi nel 1513 a Urbino con la prima commedia erudita italiana, La Calandria, che tuttavia si muove ancora su modelli novellistici; dunque per certi aspetti il teatro moderno nasce solo nel 1520 con La Mandragola, che fissa i modelli strutturali della commedia e l’equivalenza tra la struttura della vita e quella della commedia. Tuttavia emerge subito un paradosso. Proprio nel momento in cui Machiavelli fonda la moderna drammaturgia, sta nascendo anche la scenografia prospettica: la scena della commedia è la scena della città – della città ideale; ma nel prologo della Mandragola è lo stesso Machiavelli a teorizzare l’indifferenza dell’apparato scenografico rispetto allo sviluppo della commedia.
Proprio sulla spinta dei commediografi, a Firenze si moltiplicheranno i luoghi di spettacolo: nelle case e nei luoghi pubblici, con compagnie di amatori che si sostituiscono alle antiche confraternite. Ma nel Sei e Settecento il teatro resta soprattutto un piacere domestico, la cui memoria scompare presto (anche se non mancherebbero spettacoli degni di memoria anche per i loro aspetti sperimentali). A essere degno di memoria, per i contemporanei, è invece il teatro della corte medicea, prima a Palazzo Medici-Ricciardi, poi a Palazzo Vecchio e agli Uffizi e infine a Palazzo Pitti; è allora – tra l’altro – che nasce la critica teatrale, con descrizioni fin troppo dettagliate di quegli spettacoli: anche se in effetti le cronache non s’interessano quasi alla commedia vera e propria (un evento troppo borghese, che per loro si esaurisce nel racconto della storia), per soffermarsi invece sulla “maraviglia” degli intermezzi, che costituiscono il vero spettacolo. Da questa macchina spettacolare che trascende l’attore nascerà, alla Camerata dei Bardi, l’opera lirica: per la precisione, il recitarcantando sarà il frutto di una ricerca umanistica sulla voce umana contrapposta alla vocalità contrappuntistica. Di qui un secondo paradosso: perché nello spettacolo musicale la parola perderà importanza, a favore del balletto e del virtuoso che canta.
Per la Corte e per la città il teatro diventa l’elemento centrale di una celebrazione complessiva. La commedia si recita all’interno dei palazzi, ma trova la sua cornice all’esterno: nella processione con l’ingresso del principe la Corte stessa diventa spettacolo per la plebe, e la città (opportunamente modificata) diventa essa stessa una scena per coinvolgere l’intera popolazione nello splendore del potere: è un teatro del coinvolgimento emotivo, come Brecht avrebbe definito le adunate naziste.
Nel XVII secolo (la Pergola viene inaugurata nel 1652 da Cosimo I, restando a lungo essenzialmente un teatro musicale) il vero teatro è dunque l’opera – lo spettacolo meccanico e musicale. A esso non si affianca un teatro dei testi e dell’’interpretazione, quanto la commedia dei puri attori, che instaura un rapporto complesso con la corte, che è al tempo stesso cliente e protettore dei comici (basti pensare al Teatro di Baldracca, con lo spioncino da cui il Duca poteva osservare non visto gli spettacoli). Le due tradizioni non s’incontrano spesso: accade per esempio nel 1589, con le nozze di Ferdinando I, quando i Gelosi allestiscono La pazzia di Isabella (e sarà a lungo l’unica relazione dettagliata su uno spettacolo dell’’arte).
Solo nell’’Ottocento le accademie verranno affiancate e poi sostituite da impresari privati; e nella stessa epoca nasceranno le scuole di recitazione (con la cattedra di declamazione di Antonio Morrocchesi all’Accademia di Belle Arti nel 1820), destinate non tanto alla preparazione degli attori, ma in generale a tutti gli uomini pubblici (e si avverte l’eco della ratio studiorum gesuitica). Da allora a Firenze la pedagogia teatrale ha avuto una ricca tradizione, dalla Regia Scuola di Recitazione di Luigi Rasi nel 1870 fino a Orazio Costa, Giorgio Albertazzi, Eduardo e Filippo De Vittorio Gassman in tempi più recenti.
Cesare Molianari conclude il suo ricco excursus con un richiamo all’’antica “scuola cinese dei nomi”. Ormai il termine “teatro” ha finito per coprire un’area semantica troppo generica ed estesa, sarebbe necessario anche in questo caso raddrizzare la relazione tra i nomi e fatti, senza continuare a usare le stesse parole per mestieri ormai diversi.

SERGIO GIVONE
Per riflettere in termini filosofici sul rapporto tra il teatro e la città, Sergio Givone parte dalla “scena della polis” e dal doppio valore del suo genitivo: quello oggettivo, ovvero la città “politica” che viene messa in scena e arriva sulla scena (il teatro politico in senso stretto); ma anche quello soggettivo, ovvero la città che mette in scena sé stessa, autorappresentandosi: è la teatralizzazione della politica, la spettacolarizzazione di una politica che si mette in scena per coinvolgere le coscienze.
Prendere in considerazione questi due aspetti contemporaneamente conduce a una terza figura: il teatro come incarnazione del dialogo e della parola (al di là del rito), attraverso l’attore che agisce pensieri, emozioni, conflitti. Questa autorappresentazione che la città dà di sé stessa arriva fino alla disgregazione, alla distruzione del senso, per poi trovare in scena la possibilità di una ricostituzione, di una ricomposizione.
Questa potenzialità del teatro trova, nell’intervento di Givone, tre esemplificazioni.
In primo luogo la tragedia greca, nell’interpretazione di Vernant e Vidal-Naquet. In un momento di passaggio, tra il VI e il V secolo a.C., la tragedia costituisce un dispositivo sociale per emanciparsi da un pensiero autoritario e violento, per passare da un regime sociale fondato sulla stirpe e uno fondato sul diritto di cittadinanza. Il teatro fonda così il diritto: il poeta tragico assume il mito e la tradizione per interrogarli e cercare legittimazione. Non a caso per i cittadini ateniesi il teatro è un obbligo morale, civile e politico: si tratta di prendere coscienza di una diversa forma di legittimazione. Prima che questioni politiche, il teatro greco affronta dunque questioni metafisiche, fisiche, fisiologiche.
Un secondo esempio è quello del teatro shakespeariano, che si sviluppa in un’altra fase di passaggio: quella a un ordine sociale necessario e inconsistente, dove i ruoli sociali sono inesistenti e tutto ha un’anima caotica. Ma dove trovare senso, si chiede Shakespeare? Proviamo a riflettere sull’uso di un termine come “nothing” nel suo teatro(solo sette anni dopo a morte di Shakespeare John Donne introdurrà il termine astratto “nothingness”). Il nulla non a caso è al centro di molti giochi linguistici del fool, l’unico personaggio che non a un preciso ruolo sociale; non a caso una delle più celebri occorrenze del termine la dobbiamo a Macbeth, il buffone di sé stesso, quando afferma la vita non è altro che “una storia narrata da un idiota, piena di rumore e di furia, ma che non significa nulla”.
Ultimo esempio, il Wilhelm Meister di Goethe. L’amico Werner gli spiega che, per i borghesi come lui, l’identità personale coincide con l’avere, che a sua volta è frutto del fare; solo i nobili possono far coincidere, “nel gran mondo”, essere e apparire. Ma allora, si chiede Wilhelm, io come posso formare me stesso? Come posso portare valore al mondo? Dove posso formare il mio io nel mondo della vita (e non nel gran mondo dei nobili), per essere libero? Per Wilhelm, l’unica bildung, l’unica posibilita di auto-formazione è possibile solo nel teatro, che permette di muoversi liberamente.
E oggi, quale può essere il rapporto del teatro con la polis? Dopo che Samuel Beckett ha portato in scena il naufragio irrimediabile della polis? Oggi il teatro diventa memoria, e insieme – con Adorno – promessa del possibile

EZIO GODOLI
Per affrontare il nodo del rapporto teatro-città dal punto di vista dell’architettura e dell’urbanistica, Ezio Godoli parte dalla definizione di città come “comunità di spirito e sentimento” che sgorga prima di tutto nei teatri e all’opera. E’ proprio partendo dal teatro che si definiscono i caratteri della città: compattezza, intensità della vita, pubblica, fitta trama di relazioni.
Rispetto a questa prospettiva, i problemi per le città americane nascono dalla desertificazione dei centri urbani negli anni Sessanta. Per gli urbanisti americani, i modelli di riferimento saranno le città europee da un lato, e Manhattan e Broadway dall’altro (una realtà peraltro atipica per gli USA). Per gli urbanisti europei, il problema delle città si pone invece con la distruzione dei centri urbani nella Seconda guerra mondiale, quando molti tentativi di ricostruzione, in Germania e in Olanda, fanno dei centri di molte città altrettanti deserti urbani. In Italia l’emergenza post-bellica è minore, ma il problema si porrà con l’espansione urbana del dopoguerra: anche in questo caso, Guido Canella si troverà a riflettere sul valore del teatro, suggerendo di passare dal monocentrismo (anche dei luoghi di spettacolo) al decentramento per riqualificare le periferie.
Un’ulteriore spunto di riflessione arriva dal catalano José Luis Sert: radio e tv non bastano per creare una città, costituiscono un sistema di informazione nelle mani di pochi. Al contrario, il teatro può riavvicinare l’uomo all’uomo, perché quello di cui abbiamo bisogno sono luoghi di incontro tra persone.
Oggi il problema del cuore delle città europee è che non offrono più terapie, ma sono essi stessi malati. I centri cittadini sono diventati delle Disneyland per il turismo di massa, dove il commercio su modelli globali domina tra punte di degrado.
La chiusura di molti luoghi di spettacolo – a cominciare dai cinema e dalle sale polivalenti, con il loro indotto nel tessuto urbano – ha portato anche in Italia a un depauperamento dei luoghi della democrazia: quante sono state in passato le assemblee che si sono tenute nei teatri prima di riversarsi nello spazio pubblico della piazza?

MARC FUMAROLI
Lo studioso francese non ha ripreso l’intervento che aveva preparato, ma ha preferito approfondire alcuni dei temi affrontati nella mattinata, ripartendo dalla “querelle dea anciens et des modernes” che animò l’’Académie Française alla fine del XVII secolo. I primi temevano l’avvento di una società di solitari, con mezzi di comunicazione che in realtà espongono a spettacoli fantasmatici. Al contrario, in teatro si imparava ad abitare le parole e a dialogare con gli altri: per loro la formazione di personalità libere era possibile solo attraverso il confronto di collettività libere.
Per Aristotele, tutto quello che sappiamo è fondato su una esperienza viva, diretta. Già all’epoca della querelle tra antichi e moderni si vedevano individui astratti, che vivevano in una seconda natura: persone, diremmo oggi, che vedono il cinema, la tv, il computer, ma non foreste o animali vivi. Un mezzo come la tv isola, il suo spettatore è una creatura passiva.
Il teatro è oggi la sopravvivenza di una società dove si dialogava direttamente, ci si conosceva e al limite ci si odiava: ma tutto questo accadeva realmente. Il teatro era un punto di riferimento, una sorgente di civiltà. Oggi viviamo nell’illusione di un villaggio globale che distrugge le comunità locali. E ci accorgiamo di una cosa. L’arcaismo del teatro è la sua modernità.

RENATO NICOLINI E FRANCO CAMARLNGHI
Il confronto tra Renato Nicolini e Franco Camarlinghi riporta agli anni Settanta, quando entrambi erano assessori alla Cultura, il primo a Roma, il secondo a Firenze.
Per Nicolini il fatto che ancora oggi, dopo trent’anni, si continui ancora a parlare dell’Estate Romana dipende dal fatto che quei nove anni non volevano significare nulla (insomma, non avevano alle spalle un progetto ideologico o pedagogico). In precedenza gli assessori alla cultura si dedicavano ad attivit assai noiose come inaugurazioni, premi e convegni: è bastato togliere il tappo di bottiglia e dare spazio alla vitalità di realtà che già esistevano. Di fronte alla “tv Circe”, è basato trovare l’antidoto, ovvero Hermes – l’interazione: trasformare i fantasmi in corpi e in voci.
Per Franco Camarlinghi si è trattato anche di reagire alle trasformazioni degli anni Settanta, con una Firenze che da città per turisti stava già diventando città dei turisti; contemporaneamente, i “beni culturali” iniziavano a trasformarsi in “giacimenti culturali”, in una visione totemica della cultura, dove a contare sono soltanto i numeri: quanti visitatori agli Uffizi e quanti alla Cappella Sistina? Il suo, ha sostenuto Camarlinghi, è stato un tentativo di contrastare il fenomeno, attingendo al fermento di energie disponibili in quel momento nella città. Successivamente, quella degli assessorati alla cultura è diventata un’ideologia, che ha portato a fenomeni di proliferazione e degenerazione, con iniziative che non erano più legate alla città, ma producevano iniziative fini a sé stesse.
Nicolini, architetto e urbanista, è poi tornato alla definizione di Aldo Rossi: “La città è la scena fissa della vita”, un po’ come la scena classica rispetto al teatro. Anche se, ha aggiunto Nicolini, non dobbiamo esagerare con l’immaginario e il simbolico: come politici e amministatori, dobbiamo restare brechtiani, non possiamo fare la morale o pretendere di indicare la strada giusta. Perché la politica non deve dirci come dobbiamo vivere: deve solo creare le condizioni perché si svolga la vita. E dove si svolge oggi la vita pubblica? In spazi chiusi e protetti come musei e ipermercati, non più nelle piazze.
Per Camarlinghi il nodo è l’identità di una città come Firenze, che non dev’essere affrontato retoricamente. In primo luogo è necessario evitare di consegnare la città al sistema della moda. E’ necessario dire no alla politica dell’evento, perché solo la produzione di cultura può servire a costruire un’identità.

Ad aprire nel pomeriggio la sessione dedicata alla pedagogia teatrale sono state alcune esperienze radicate nel territorio: Luciano Falchini, Responsabile FSE Regione Toscana; Stefano Fantoni, Dirigente Formazione Provincia di Firenze; Virgilio Sieni, Direttore Accademia sull’Arte del Gesto; Giovanni Varoli, Presidente MaggioFormazione.

MARCO DE MARINIS
E’ seguita poi una tavola rotonda con alcuni maestri della scena contemporanea, introdotta da una relazione di Marco De Marinis sulla “identità esplosa dell’attore”. A questa esplosione hanno contribuito diversi elementi:
– la moltiplicazione delle poetiche;
– la caduta delle divisioni tra arti e generi, con il superamento tendenziale delle differenti specificazioni delle stesse figure artistiche; in questa direzione si muovono, sin dai tempi delle avanguardie, le esperienze più innovative, attraverso fenomeni di contaminazioni, ibridazioni, osmosi;
– la caduta della distinzione tra professionismo e non professionismo, con la creazione di nuove forme di identità attorale: molti giovani teatranti sono semi-professionisti, che ricavano dagli spettacoli sono una frazione del loro reddito;
– percorsi di formazione fuori e contro le scuole tradizionali, dalla “antipedagogia teatrale” del Novecento all’autopedagogia degli anni Settanta e Ottanta, fino alla scolarizzazione permanente di questo decennio; vanno in ogni caso tenute presenti alcune eccezioni, come la Stoà della Raffaello Sanzio, la Non-Scuola delle Albe, l’Officina della Valdoca e il Workcenter di Grotowski e Richards a Pontedera.
Ancora, bisogna tener conto di due dinamiche interne alla pedagogia e che rientrano in quello che Piergiorgio Giacché definisce “consumo attivo”, ovvero la coincidenza di produttore e consumatore:
– l’ipertrofia del momento formativo, che diventa per molte realtà fonte di sussistenza (magari grazie ai fondi sociali europei);
– un processo di formazione che si autoriproduce: il “formato” diventa a sua volta “formatore”.
Si possono anche identificare alcuni sintomi di questa crisi. Dopo decenni di centralità dell’attore, i risultati teorico-pratici sono assai scarsi. Malgrado l’enfasi sulla formazione e la pedagogia laboratoriale, l’attore di teatro pare una specie in via di estinzione, come lamentavano Cecchi, Leo e Carmelo già nei decenni scorsi.
Meldolesi ha rilanciato la figura dell’attore-artista, che tuttavia non è sufficiente e rischia di apparire consolatoria. Taviani e Schino hanno posto l’accento sull’impossibilità di trasmettere il sapere, parlando di una “regia altra”, di maestri che sono anche anti-padri, che sembrano caposcuola ma sono in realtà lupi solitari.
Se guardiamo alle esperienze più avanzate della nuova scena italiana, vediamo che l’attore come soggetto creatore, come espressiva presenza scenica, appare poco, si nega e appare più da performer, da oggetto passivo,come ha esplicitato lucidamente Romeo Castellucci: l’attore “non è colui che fa, ma colui che riceve”; è dunque piuttosto immagine o figura, in uno spettacolo immagine, figurale, o in uno spettacolo-concerto.

ANATOLIJ VASIL’EV
Per Anatolij Vasil’ev, reduce da un corso triennale di regia a Lione, la regia è una professione che si può e si deve apprendere e insegnare. In Europa il requisito principale per un regista è il talento; dopo il ’68 questa idea si è affermata anche in Francia, portando alla conseguente crisi della regia.
Fondamento del suo metodo sono i libri di Maria Knebel (uno tradotto di recente anche in Francia:L’analyse-action di Anatoli Vassiliev, Maria Knebel, Nicolas Struve e Sergueï Vladimirov) e la propria esperienza pedagogica. Perché va ricordato un principio fondamentale: gli allievi non seguono i corsi solo per imparare qualcosa, ma sono anche allievi di un Maestro.
Il corso di Lione aveva dodici allievi (selezionati attraverso un concorso con cinque prove in tre giorni), più cinque uditori e due stagisti; il corso è stato concluso da sedici persone, che hanno ottenuto il diploma di regia.
Il programma prevedeva ogni giorno 10-12 ore di lavoro per sei giorni alla settimana, articolato in:
– training collettivo;
– lezioni individuali;
– lezioni di storia, filosofia, religione, estetica…;
– lavoro con il maestro.
Gli allievi hanno lavorato su diversi materiali:
– i Dialoghi di Platone;
– classici francesi con strutture analoghe a quelle di Platone;
– trattati di estetica teatrale, da Gordon Craig a Wilde, ma sempre in forma di dialogica.
Tutti gli allievi registi dovevano anche recitare e in un anno sono saliti in scena tra le 70 e le 100 volte.
Nel secondo anno il programma stato centrato sull’Impromptu de Versailles di Molière e su Cechov: dopo aver imparato le strutture ludiche, si è operato il passaggio alla tecnica della reviviscenza e al teatro psicologico.
Nel terzo anno, al centro del lavoro sono stati i testi francesi di avanguardia, e una sorta di dialogo tra i testi di Platone e le immagini di Magritte, per imparare a creare immagini visive e mettere in rapporto parole e immagini.
I saggi finali sono consistiti in uno spettacolo pubblico: tre serate con 19 spettacoli, ciascuno tra una e quattro ore di durata.
Alcune notazioni finali. In primo luogo, una differenza di mentalità tra Russa ed Europa: gli allievi francesi avevano un bagaglio più pesante, erano più lenti a partire, salivano più lentamente ma quando arrivavano in quota ci restavano a lungo. In secondo luogo, la necessità che il Maestro segua individualmente gli allievi. Infine, la consapevolezza che l’obiettivo di uno stage non dev’essere la formazione ma la conoscenza.

JERZY STUHR
Per Jerzy Stuhr, siamo oggi testimoni e partecipi di un cambiamento veloce e profondo. Il teatro d’inizio secolo è molto diverso dal teatro di fine secolo. I punti di cambiamento:

– il teatro non è più un luogo dove si presenta la sorte umana tramite personaggi letterari; davanti all’Amleto di Wajda nel 1981-82, il 90 per cento del pubblico provava lo stesso stato d’animo del personaggio; ora invece si procede per frammenti, collage, improvvisazioni; in altri termini, una volta il personaggio esprimeva l’io dell’attore, ora l’attore usa i personaggi per esprimersi;
– il teatro non è più il luogo dove è possibile esprimere i sentimenti di una generazione, perché semplicemente non esiste più la generazione: resta l’individualismo;
– il teatro non è più il luogo della protesta politico-sociale, né della ribellione;
– il teatro non è più il luogo della ricerca antropologica.

Il vecchio teatro aveva la sua scuola, ed era una scuola centrata sulla parola: dunque si insegnavano l’ipostazione della voce, la dizione, eccetera; quella scuola aveva un metodo: il realismo psicologico stanislavskiano; e aveva anche un’alternativa: il metodo brechtiano. Utilizzava grandi spazi e richiamava un grande pubblico, anche mille e più spettatori a replica.
Oggi il teatro parla in prima persona, non più in nome di una generazione o di altre entità collettive: e lavora sull’intensa ricerca dell’altro. Questo teatro lo si fa sottovoce, quasi in forma di confessione, per esprimere la propria solitudine, la propria debolezza, la propria diversità. E’ un teatro che vuole toccare, accarezzare, e non dialogare. Ha bisogno di piccoli spazi, al massimo cinquanta persone. Non ha ancora la sua scuola.
Stuhr ricorda un episodio emblematico: quando Kristian Lupa si presentò per la prima volta, avvertì: “Guardate, ma non giudicate la voce e la dizione”. Anzi, la bella dizione appare artificiale, mentre una voce sporca diventa garanzia di autenticità dell’espressione.
I ragazzi che oggi arrivano a scuola, forse non hanno letto Cechov, ma sanno moltissime cose sull’immagine, sul colore, sul disegno.
La mentalità del teatro di fine secolo era basata sul principio di causa ed effetto, quella dei giovani è plasmata dal telecomando: cambio e seguo quello che mi viene mostrato.
La nostra sfida consiste allora nel capire come insegnare altre cose:

– l’improvvisazione (ma come si insegna l’improvvisazione?);
– il movimento;
– il ritmo che costruisce lo spazio;
– la ricerca interiore (dunque più preparazione psicologica che osservazione);
– dare maggior coraggio all’immaginazione.

Per concludere, Stuhr ricorda una confidenza di Andrzei Wajda: “Sai perché negli ultimi vent’anni io ho perso e Kieslowski ha vinto, nel rapporto con il pubblico? Io ho deciso di parlare in nome del popolo, lui in nome del singolo essere umano”.

JACQUES LASSALLE
Jacques Lassalle ricorda che nei suoi cinquant’anni di teatro ha vissuto momenti molto diversi, nella forma, nella formazione, nella rappresentazione, nelle illusioni. Ma preferisce concentrarsi anche lui su alcune trasformazioni in atto.
In primo luogo, però, bisogna ricordare che il tempo della creazione e della maturazione artistica è molto diverso dal tempo accelerato dell’attualità, della storia che si fa: dunque come è possibile conciliare questa velocità e questa urgenza con la necessità organica della nostra durata biologica?
Per quanto riguarda Firenze, non può essere vittima della sua opulenza artistica, del suo passato, del dinamismo turistico. Lassalle ricorda i suoi diciotto anni in una piccola città della periferia parigina, dove faceva teatro per quelli che non potevano entrare in sala, sull’onda delle utopie del teatro popolare di Vilar e del teatro epico; anche se poi per portare in platea quel pubblico che era fuori dalla sala, era necessaria una maggiore modestia e umiltà.
Dunque è necessario evitare un pensiero generalista: è necessario pensare anche al piccolo, perché il teatro è un’attività piccola, artigianale, impossibile, scandalosa. Ed è difficile sfuggire alla dittatura del mercato: la “cultura del risultato” è la forma più insidiosa e implacabile di censura.
Lassalle ricorda di aver iniziato a fare teatro ribellandosi all’insegnamento ricevuto. Non si trattava di rispondere a una domanda che non c’era, ma di imporre un’offerta: si trattava di portare a teatro chi non ci andava, per vedere opere che accrescono la nostra intelligenza del mondo e magari ci spingono a cambiarlo.
Per il regista francese, insegnare è già mettere in scena, e mettere in scena è ancora insegnare. Anche perché, prosegue, “non insegnavo quello che sapevo, ma quello che cercavo”. E infatti per lui il miglior maestro è quello che è meno professore, quello che modella e forma di meno, quello che ama chi gli resiste e si costruisce autonomamente. Infatti per Lassalle oggi circolano troppi guru, e il teatro finisce per essere troppo tribale. Invece l’importante è salvare la diversità, far accettare la propria diversità, preparare gli allevi a pratiche diverse, anche contraddittorie.
Ma allora, come è possibile trovare ancora uno spazio d’incontro, dove può esistere un obiettivo comune? Per Lassalle la strada è il ritorno al testo: “Tout est dans le texte”. Dopo Beckett, non ci sono più racconto, personaggio, dialogo; tutto viene messo in discussione di fronte all’opacità all’incertezza del mondo, si rinuncia a ogni lettura coerente. E invece è ancora necessario cercare di capire senza cedere alla tentazione della derisione e dell’’apocalisse, resistendo alla violenza. Certo, è un’utopia: ma può esistere un teatro senza utopia?

MASSIMO CASTRI
Massimo Castri si concentra invece sulle manchevolezze e sul mancato sviluppo del teatro italiano, anche sul versante pedagogico. Del resto, esordisce, in soli 35-40 giorni di prove come è possibile rendere presente un testo, dialettizzarlo nel rapporto con il pubblico?
Castri confessa di non sentirsi un buon maestro, e anzi di averne cercato uno a lungo senza trovarlo, e di essersi dedicato all’insegnamento anche per questo, sia alla Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano sia in scuole di specializzazione: anche il recente Così è (se vi pare) è il frutto di un’esperienza di questo genere, dopo una lunga assenza dall’insegnamento.
Castri sottolinea le manchevolezze della formazione teatrale in Italia, con una premessa: esiste un qualche sapere da trasmettere? Perché si creato storicamente un vuoto, a partire dalla prima metà del Novecento, quando in Italia non è arrivata la rivoluzione di Stanislavskij, e dunque non si sono imposte le tecniche interiori dell’attore: e infatti da noi l’attore fatica a elaborare il complesso del sottotesto. Al ritardo accumulato si è aggiunto dopo la Seconda guerra mondiale il fallimento del teatro pubblico, che non è riuscito ad ammodernare il teatro nei suoi diversi aspetti: le tournée, il radicamento nelle città, i tempi della prove e naturalmente anche la formazione. Il fallimento diventa evidente negli anni Ottanta, ma nel frattempo il vuoto pedagogico aveva già iniziato a essere riempito da un autentico supermercato di tecniche, stili e insegnamenti, dai famosi seminari di venti giorni, in cui ovviamente non si può imparare nulla. La grande regia degli anni Cinquanta ha coperto questo vuoto, imponendo la figura d un mastro che insegna una partitura da recitare.
Oggi la situazione è molo difficile, perché manca un sistema teatrale al cui interno diventa possibile rifondare la formazione, perché non esiste un metodo di riferimento, perché gli insegnanti via via scompaiono. Dunque, conclude Castri, la mia scelta è stata quella di creare momenti di specializzazione per prova e a salvare alcuni talenti.

Redazione_ateatro

2008-01-29T00:00:00




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