Le recensioni di “ateatro”: I canti del caos dal romanzo di Antonio Moresco

Regia di Renzo Martinelli per Teatro Aperto

Pubblicato il 08/08/2003 / di / ateatro n. 056

In queste stagioni Teatro Aperto è impegnato nella teatralizzazione dei Canti del caos, il torrenziale romanzo di Antonio Moresco di cui Feltrinelli ha pubblicato la prima parte, mentre la seconda è in corso di pubblicazione presso Rizzoli.
A Santarcangelo (o meglio al Teatro Petrella di Longiano) è approdata alle scene una nuova tappa del lavoro. Nell’autunno del 2002 era stato presentato a Milano uno studio che riprendeva la struttura narrativa del romanzo, che ruota intorno al problema della creazione: da un lato la creazione artistica, incarnata da uno scrittore che lavoro a un capolavoro irrealizzabile e lotta con il suo editore e con il mondo intero per difendere la sua opera; ma anche la creazione come gesto vitale, generativo, e dunque come atto sessuale e anche come perversione. Da questo punto di vista, la perversione permette di sovrapporre due tipi di creazione, quella «naturale» e quella «umana», intellettuale o culturale; coerentemente, una delle scene chiave del romanzo (e degli studi di Teatro Aperto) è proprio la scena dello stupro di una donna incinta. Ma sotto a questa trama esile si agita, nel travolgente flusso della scrittura di Moresco, una autentica cosmogonia, o meglio una sorta di caosmogonia, un percorso che dal disordine magmatico del mondo porta verso una più alta comprensione della realtà.
E’ impossibile ridurre un romanzo di centinaia e centinaia di pagine nello spazio di uno spettacolo teatrale senza rinunciare a molti dei suoi elementi; ma una operazione drammaturgica di questo genere è anche una operazione critica, che mette in luce alcuni snodi e toni dell’opera su cui si esercita.
La versione presentata a Milano manteneva in primo piano la struttura simbolica e narrativa del romanzo. In primissimo piano, nuda su uno sgabello, campeggiava una donna incinta. E il personaggio dello scrittore entrava prepotentemente in scena, offrendo un filtro ironico (e autoironico) ai canti veri e propri, affidati a un coro sullo sfondo. Era una lettura che privilegiava l’aspetto grottesco della scrittura di Moresco e del suo rapporto con il pubblico, teatralizzando in qualche modo la forza delle sue provocazioni, mettendole tra virgolette.

Nella versione presentata invece a Longiano, questi filtri sono scomparsi (e vengono giustamente evitate le illustrazioni letterali degli eventi del testo). Restano solo il coro e i canti del caos, che assumono la forma di un rituale, di oratorio laico. La scena è disseminata di mattoni, i cantanti-attori sono infagottati sotto coperte chiare, come una tribù di profughi o come i monaci di un nuovo culto. Il loro è prima di tutto un tappeto di note tenuto all’infinito, sopra il quale s’intarsia il testo vero e proprio. Il rituale rivela ben presto il proprio percorso: il punto di partenza è il caos, l’indifferenziato, un gigantesco grumo di magma e merda, dal quale si staccano i due principi, il maschile e il femminile – cazzi e fiche, simboleggiati da una pila di copertoni e da una gigantesca camera d’aria. Questi due principi innescano a loro volta un meccanismo di generazione, di nascita e di crescita. Parallelamente, sulla scena, si assiste al passaggio dal caos all’ordine: i mattoni sparpagliati e disseminati casualmente vengono allineati come le pagliazze di ferro quando si avvicina la calamita, quello che era oscura e indecifrabile pulsione vitale diventa conflitto – ma ricondotta in una forma, e dunque decifrabile e dunque inscrivibile all’interno dei rapporti sociali. Fino all’immagine finale, quando di fronte a un fondale che s’illumina come un cielo stellato, diventa possibile addirittura immaginare una trascendenza, un oltre – o un altrove, o magari una utopia.
In sé, questa versione dei Canti del caos presenta ancora diversi aspetti irrisolti: aspetti tecnici, come il rapporto non ancora del tutto risolto tra azione scenica e canto, e una eccessiva staticità nell’impianto dello spettacolo. Ma soprattutto il rituale portato in scena dai nove attori-cantanti resta sostanzialmente, seppur costruito con grande cura formale, un percorso intellettuale, che non riesce a farsi davvero carne e mito. Ristretta nella forma chiusa di uno spettacolo di due ore, scandito per «canti», rispetto alla «non-forma» del romanzo, al suo continuo strabordare oltre i suoi limiti e confini verso un’opera potenzialmente infinita, al suo costante sorprendersi, il rischio è quello di irrigidire la materia del testo in un percorso ideologico, e dunque per certi aspetti prevedibile. Ma questa è solo una fase di un lungo processo, che nelle prossime tappe avrà il compito di recuperare sia la carne sia il turbinoso piacere dell’eccesso.

I canti del caos
dal romanzo di Antonio Moresco
Regia di Renzo Martinelli
Longiano, Teatro Petrella

Oliviero_Ponte_di_Pino

2003-08-08T00:00:00




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