BP2011 MATERIALI Tra ricostruzione e Restaurazione
L'Aquila e i suoi teatri due anni dopo il terremoto
Teatri d’emergenza: lo Stabile e le altre realtà aquilane
Una delle caratteristiche delle emergenze è che, al di là delle modalità che si scelgono per affrontarle, l’individuazione dei bisogni è estremamente facile. Questo, un po’ paradossalmente, rende sicuri, fa veri voglia di muoversi, di fare. Ci si sente come se, pur dovendo affrontare un mostro gigantesco, non si avesse alcuna soggezione nel guardarlo fisso negli occhi.
Tutto questo non è né giusto né sbagliato: semplicemente, siamo fatti così. Fino a quando questo atteggiamento non viene strumentalizzato.
Parlare oggi, a quasi due anni dal terremoto, della situazione dell’Aquila vuol dire affrontare un groviglio di problemi estremamente vasto e complesso, una melassa terribile che, passata l’emergenza, invoglia all’immobilità.
Per chi vive lontano dalla città, non è facile capire una situazione che, per i suoi abitanti, è diventata normale, ma che forse tanti ignorano.
La cosiddetta «ricostruzione pesante», quella che dovrebbe riguardare la totalità del centro storico, la maggior parte del patrimonio monumentale e la totalità delle abitazioni private che hanno riportato danni gravi alle strutture, praticamente non è ancora iniziata. Questa «ricostruzione pesante» riguarda all’incirca il 70% della città. Insomma, a parte qualche isolata eccezione, la maggior parte degli edifici.
In particolare, per quanto riguarda i teatri, che come è facile immaginare non sono in cima alla lista delle priorità, gli interventi fin qui effettuati si sono limitati al semplice puntellamento. I tempi previsti per la riapertura sono un mistero per tutti, in primis le istituzioni che li gestivano.
Per un semplice cittadino, anche se armato di buona volontà e impegno, inoltrarsi a cercare le cause di questo stallo è impossibile. Però è certo che i tempi per l’inizio di alcuni lavori si stanno allungando in maniera incomprensibile e non certo per la cattiva volontà degli aquilani.
Per quanto riguarda le attività teatrali, il Teatro Stabile d’Abruzzo ha ripreso la stagione, in maniera poco più che simbolica, in un piccolo auditorium di 150 posti; la stagione di teatro ragazzi dello Stabile d’innovazione dell’Uovo sta per riprendere in uno spazio parrocchiale di fortuna. Sono iniziative che potrebbero apparire lodevoli nonostante le ristrettezze, se non venisse seriamente il dubbio che, dietro le apparenze, le istituzioni si siano abituate in fretta allo status di terremotate, gestendo accuratamente le deroghe concesse dal ministero.
Le piccole realtà cercano faticosamente di riprendere l’attività, arrangiandosi come facevano prima del terremoto, ma in un panorama ancora più complicato e desolante. Unico piccolo segnale di sostegno, ancora tutto da verificare, un bando regionale uscito il 19 gennaio 2011 «a sostegno della coesione sociale nell’area del cratere».
Ci sono piccoli tentativi, confusi e maldestri, di rappresentazioni nelle scuole da parte di tutti, stile far-west. La qualità dell’offerta è a dir poco discutibile, ma per giustificare le carenze il sisma può essere un alibi straordinario, quasi inattaccabile.
La programmazione estiva della cultura meriterebbe un approfondimento a sé. Già prima del sisma, contava purtroppo su una consolidata tradizione di improvvisazione, pasticci, estemporaneità e in alcuni casi di avvisi di garanzia con rinvio a giudizio e condanna da parte della Corte dei Conti, per una gestione «allegra» degli eventi nella giunta comunale precedente a quella attuale (a cominciare dallo scandalo della grande festa aquilana, quella della Perdonanza).
Uniche eccezioni, alcuni eventi in campo musicale: un’iniziativa delegata, dopo il terremoto, soprattutto alla generosità dei singoli artisti, come Fiorella Mannoia e Roberto Vecchioni, che l’estate scorsa hanno donato spontaneamente e in forma gratuita i loro concerti alla popolazione colpita dal sisma, dimostrando una sensibilità che non è passata inosservata ai cittadini.
Naturalmente tra l’estemporaneità della programmazione e la malagestione che porta all’intervento della magistratura bisogna fare le dovute distinzioni: ma non si può fare a meno di notare che il terremoto, per quanto riguarda la prima, ha consolidato la tradizione. Aumentano dunque i dubbi: all’Aquila, nel settore dello spettacolo, è davvero opportuno ripartire da ciò che già c’era?
E’ cambiato tutto, ma non cambierà nulla…
La situazione è oggettivamente difficile. Oggi vivere e lavorare a L’Aquila è molto più triste e complicato che in altri parti del paese, che già non se la passano bene. Però l’emergenza rischia di diventare un alibi per strumentalizzare la situazione a vantaggio di chi preferisce gestire la decadenza della città piuttosto che affrontare davvero i problemi. E da operatore culturale, fa male vedere tutte le occasioni che si sono perse.
Il sisma c’è stato, punto. C’era un’opportunità: utilizzare la ricostruzione per ripensare ciò che non funzionava e ricostruirlo meglio, anche se tra mille difficoltà. Tutto questo non sta avvenendo e non avverrà. Per quanto riguarda il teatro, questa scelta porta a conclusioni folli.
L’Aquila era, prima del sisma, una città di 70.000 abitanti con ben tre istituzioni teatrali di rilievo nazionale: Teatro Stabile d’Abruzzo, ATAM, Teatro dell’Uovo. Intorno a loro, una galassia di compagnie teatrali professioniste piccole e piccolissime. Dati alla mano, c’era una vistosa sproporzione tra numero di abitanti e offerta culturale. Sovrabbondanza? Magari!
Solo la possibilità di moltiplicare consigli d’amministrazione e falsi posti di lavoro in segreterie, magazzini, eccetera. La maggior parte dei fondi erogati per quelle istituzioni non servivano alla produzione culturale.
In realtà, nessuna di queste realtà se la passava bene. Nessuna istituzione aveva i bilanci a posto, nessuna riusciva a produrre opere capaci di incidere a livello nazionale, se non tramite operazioni di pura facciata: vedi la produzione della compagnia di Gassman, che poi all’Aquila non ha avuto nemmeno la decenza di concedere il debutto nazionale del suo spettacolo. Su Alessandro Gassman e sulla sua rocambolesca fuga dalla direzione del TSA per approdare a quella dello Stabile del Veneto, qualche settimana dopo la sua partecipazione a una puntata di Porta a Porta durante la quale aveva giurato che sarebbe stato in prima linea nella ricostruzione della città, è meglio sollevare un velo di pietoso silenzio: infatti l’hanno steso tutti, per evitare l’imbarazzo di giustificare la scelta di un direttore venuto da lontano, che non ha mai avuto davvero a cuore il territorio, che davanti alle difficoltà ha capito in fretta che aveva «Un grande avvenire… altrove!» e che ha utilizzato i fondi dell’ente per produzioni che al territorio hanno lasciato poco o niente: poco più del quadretto appeso in una presidenza che recita: «Biglietto d’oro AGIS».
Oggi chi è il direttore del TSA? Possibile che, dopo un anno e mezzo, ancora non ci sia un nome? E se c’è, visto che certi programmi ministeriali devono portare la sua firma, perché non viene presentato ufficialmente?
Nel frattempo, tanti lavoratori dello spettacolo della città facevano (e fanno) la fame. Fin qui, comunque, un copione già visto e sperimentato anche altrove.
Ma è davvero possibile pensare di dover ricostruire tutto questo? Un sistema che faceva acqua da tutte le parti e che da trent’anni era ad esclusivo uso e consumo di piccole lobby di potere locali?
Il più grande fallimento della ricostruzione aquilana sta nel fatto che tutti si sono affrettati a rispondere di sì.
I politici, si sa, ragionano da politici: e, almeno qui, non se n’ è mai visto uno che avesse la voglia e le capacità per mettere ordine in una situazione vischiosa come quella teatrale.
Nell’unica riunione di operatori culturali della città convocata dall’assessore del comune e non riservata alle suddette lobby, la parola d’ordine fatta circolare è stata: prima di tutto, rimettiamo in piedi tutto ciò che c’era prima e com’era prima. Questo significa concedere, ancora prima che i finanziamenti, la capacità decisionale a persone che hanno almeno sessantacinque anni, che hanno in alcuni casi storie discutibili alle spalle e che non hanno né la voglia, né le energie, né (ormai) le capacità, per sforzarsi di capire come riorganizzare un settore che già prima del terremoto era allo sbando. Vuol dire scegliere la Restaurazione e non la ricostruzione. Vuol dire sforzarsi di ricostruire il fallimento.
Qualcuno potrebbe obiettare che riorganizzare il settore non toccherebbe agli enti locali, ma a istituzioni più grandi, ministero e parlamento per primi. Giustissimo.
In questo senso infatti, era stato fatto qualche timido tentativo , ma è subito naufragato. Salvo Nastasi e Sandro Bondi avevano proposto e fortemente auspicato una fusione tra TSA e Uovo: ma il progetto si è arenato soprattutto per l’opposizione degli operatori locali, spalleggiati dai politici. Era una proposta sbagliata? Partiva da logiche semplicistiche e non avrebbe risolto nulla? Può darsi, fatto sta che non è stata rifiutata per mettere in campo un’alternativa migliore, ma solo per tornare al vecchio, per non intaccare gli interessi di alcuni privilegiati.
A questo punto viene da domandarsi: la situazione dell’Aquila è poi tanto diversa da quella del resto del paese? Per quanto riguarda il sisma certamente sì, e tuttavia una situazione così drammatica renderebbe ancora più urgente la ricerca di soluzioni necessarie al sistema teatrale in generale.
Anche su scala nazionale, L’Aquila avrebbe potuto offrire una straordinaria occasione per sperimentare formule nuove. Si è deciso di perderla.
Ciao, Nando!
Un altro capitolo riguarda l’università. Al di là dei problemi che riguardano l’istituzione nel suo insieme, che è uno dei capitoli più ampi e complessi della ricostruzione, è utile concentrarsi sulla cattedra di Storia del Teatro della facoltà di Lettere. Il corso di Storia del Teatro ha sempre avuto, nel corso degli ultimi quindici anni, un numero di studenti enorme rispetto alla dimensione della facoltà e all’importanza che quell’insegnamento avrebbe dovuto avere al suo interno, almeno in teoria. A tenere la cattedra, per tutti questi anni, è stato Ferdinando Taviani: una personalità nota e stimata ben oltre i confini della città, uno degli esponenti della generazione di intellettuali che ha ampliato in maniera significativa lo studio delle discipline teatrali in Italia.
Non è facile raccontare il rapporto tra Taviani e la città dell’Aquila, perché fondamentalmente unico. A generarlo sono stati vari fattori. Certamente ha contribuito il fatto che L’Aquila fosse una piccola città: in questo contesto, il carisma di Taviani e il sorprendente numero di studenti che lo seguivano hanno trasformato per anni la cattedra in una sorta di istituzione aggiuntiva della vita culturale, un vero polo di attrazione, soprattutto per le nuove generazioni, che trovavano lì il luogo in cui entrare in contatto con un’ampia gamma di sperimentazioni. Infatti, oltre alla normale didattica, la cattedra ha promosso un numero enorme di iniziative (spesso organizzate e realizzate in collaborazione con Mirella Schino), dalla pubblicazione di libri scritti a più mani da professori e studenti, a laboratori pratici di recitazione, regia e drammaturgia, dall’ospitalità di spettacoli di altissimo livello e di particolare fattura, difficilissimi da vedere solitamente in provincia, agli incontri con artisti e operatori teatrali impegnati nei più svariati percorsi di ricerca. Insomma, per circa quindici anni, la cattedra tenuta da Taviani ha dato alla città dell’Aquila un lievito che spesso nella provincia italiana viene invocato come la pioggia nel deserto. E tutto questo, in una città così piccola, aveva ripercussioni molto più forti che altrove. Il fermento culturale che nasceva dentro l’università riusciva a coinvolgere spesso una parte significativa della città, che partecipava alle iniziative ampliandone la risonanza.
Ora Taviani è prossimo alla pensione. Le istituzioni culturali dovrebbero avere tra le loro caratteristiche la capacità di sopravvivere alle persone che le dirigono. Quando le istituzioni sono rappresentate dalle persone, invece…
L’allontanamento di Taviani, che vive a Roma, lascerà un vuoto significativo nella città: un vuoto che in un periodo come questo potrebbe passare inosservato ma che rappresenta un impoverimento reale della vita teatrale cittadina.
Nel salutare Taviani e nel ringraziarlo per tutto ciò che ha dato all’Aquila nel corso degli anni, dimostrando una generosità che va ben oltre i compiti istituzionali di un professore universitario, una città più attenta e riconoscente potrebbe soffermarsi solo a chiedere, con una certa amarezza, il perché dopo tanti semi gettati non si sia prodigato anche per mettere al suo posto qualcuno in grado di raccoglierne l’eredità.
Post scriptum: A Bocca Aperta
La prima versione di questo articolo finiva qui. Purtroppo Mimma Gallina ha insistito, solleticando il mio ego, perché scrivessi qualcosa su una piccolissima e trascurabile compagnia teatrale aquilana, che si chiama A Bocca Aperta, che ho il piacere di dirigere e che ha fatto e sta facendo scelte molto particolari, lontane dalla sensibilità comune e magari sbagliate.
Come ho avuto modo di illustrare durante l’edizione 2008 delle Buone Pratiche, per una serie di eventi casuali dal 2007 la compagnia si è ritrovata a lavorare in quello strano e misteriso mondo che va genericamente sotto il nome di “teatro/azienda”. Un ambiente in realtà, sempre difficile da gestire per alcune sue caratteristiche specifiche e nel quale si trovano esperienze anche molto distanti l’una dall’altra, a volte poco condivisibili. E tuttavia di questo ambiente ci ha sorpreso positivamente il fatto che al suo interno esista ciò che nel teatro pubblico esiste solo in maniera fittizia: un mercato nel quale è possibile competere.
Il mercato, per definizione, è luogo complesso, spietato con chi non riesce a reggerlo, ma anche in grado di offrire possibilità al di sopra delle aspettative. Per usare una metafora, il mercato è la giungla.
Secondo il nostro modesto e forse sbagliato parere, questa giungla rappresenta l’alternativa a un ambiente che, per una serie di esperienze molto negative, abbiamo iniziato a sopportare ancora più a fatica, il paludoso stagno del teatro pubblico.
La caratteristica che balza immediatamente agli occhi e che in un mondo perfetto bisognerebbe sanare, è la contrapposizione così forte tra un ambiente e l’altro, la giungla o lo stagno. Nessuno dei due rappresenta l’ambiente ideale per vivere e lavorare. Ognuno dei due rischia di trasformare profondamente e in negativo chi vi opera. L’ambiente del teatro/azienda, però, ci pare oggi più aperto a recepire progetti nuovi e appartenenti ad illustri sconosciuti. Sembra paradossale. Ma questo paradosso fotografa bene il caos e l’ingiustizia che regnano nel settore dei finanziamenti pubblici alla cultura.
E forse gli operatori culturali italiani dovrebbero riflettere sui finanziamenti pubblici in maniera meno astratta. Non è il caso di discutere se, in generale, sia giusto o sbagliato che le istituzioni pubbliche finanzino la cultura: bisognerebbe domandarsi piuttosto se nel sistema italiano, che è ormai più chiuso, corporativo, e impenetrabile di un sistema privato, ci sia ancora qualcosa che valga la pena salvare.
La nostra risposta è no. E non si tratta della provocazione di chi è stato escluso, ma la proposta di chi un’alternativa reale l’ha già trovata, di una piccola compagnia che ha subito il terremoto dell’Aquila, che ha una sede ancora gravemente inagibile, per la quale ci impediscono di avviare i lavori di ristrutturazione e che ciononostante riesce a proseguire le sue attività, progettare nuovi spettacoli, pagare stipendi e contributi, eccetera… Se siamo ancora qui, malgrado tutte le difficoltà straordinarie che la nostra realtà è riuscita a superare senza finanziamenti pubblici, probabilmente lo shock sarebbe sopportabile per molte altre realtà più grandi, prestigiose e stimate di noi.
Quando nel 2008 presentammo la nostra Buona Pratica, non lo facemmo per conquistarci un fugace attimo di notorietà. Presentammo il lavoro di una compagnia teatrale giovane e inesperta che, solo ed esclusivamente con le sue forze e con il capitale privato, era riuscita a raggiungere un giro d’affari simile a un medio teatro italiano.
Allora pensavamo che una notizia del genere avrebbe dovuto interessare soprattutto i teatri medio-grandi, primi fra tutti ovviamente quelli del nostro territorio, e poi in seconda battuta, anche quelli più “illuminati” e orientati alla ricerca e alla sperimentazione. Quella che per noi era stata un’esperienza anche un po’ casuale, se affrontata da una struttura con capacità di manovra decisamente superiori, avrebbe potuto portare alla nascita di qualcosa di più grande, magari un modello nuovo e importante. Partecipammo alle BP sperando che la nostra esperienza potesse destare l’interesse di qualche istituzione.
Probabilmente eravamo ancora troppo giovani e illusi: La nostra proposta non destò nessun interesse reale. Ora, se questo disinteresse fosse giunto in un momento in cui le istituzioni culturali non hanno nessun problema di finanziamento, non avremmo nulla da dire: si tratterebbe solo di una scelta di politica culturale. Nel momento in cui tutto il sistema è al collasso, però, il disinteresse nei confronti di un progetto come il nostro ci sembra assurdo e un po’ colpevole.
In questo momento avremmo alcune nuove proposte nate dall’esperienza concreta per conciliare la giungla e lo stagno: Mimma ci ha invitato a presentarle, ma ci manca il contesto, manca l’ascolto reale e mancano gli interlocutori.
Oggi le realtà che godono del finanziamento pubblico sono assolutamente disinteressate alla ricerca di una soluzione in questa direzione, perché implicherebbe un cambiamento culturale, pieno di incognite e di rischi, ma anche di opportunità, come tutti i cambiamenti. Così la rifiutano “a prescindere”. Questo è, secondo noi, il cuore del problema e il cuore della attuale crisi del teatro.
Così la nostra piccola e trascurabile realtà ha deciso di proseguire da sola e di continuare a esplorare questa giungla che, nonostante le insidie sempre in agguato, già da alcuni anni frequentiamo con diverse soddisfazioni. Per esempio, possiamo dire con un certo orgoglio che il teatro che facciamo noi non è in crisi. Ce lo siamo guadagnato.
Per tutti questi motivi, quest’anno nonostante l’invito a partecipare alle Buone Pratiche da parte di Mimma ci abbia fatto enormemente piacere, non parteciperemo.
Sempre con un certo orgoglio, tutto abruzzese, in questo momento ci sentiamo un po’ fuori, non dal teatro, ma da un certo ambiente teatrale che oltre la protesta, troviamo incapace di confrontarsi con l’attualità.
Saremmo lieti di partecipare solo a un’edizione 2.0 delle BP; quella in cui qualcuno – molto più potente di noi – decidesse di passare dalla presentazione e all’attuazione di alcuni progetti. Ma questa possibilità, al momento, ci appare lontana. Anche se ci sentiamo un po’ come il leggendario personaggio di Ecce Bombo «Mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in un angolo senza dire nulla?»
Daniele_Milani
2011-04-02T00:00:00
Tag: L'aquila (7)
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