Il ritorno dell’eterno ribelle

Il Prometeo di Eschilo a Siracusa

Pubblicato il 28/06/2012 / di / ateatro n. 139

Un uomo chinato sul tornio solleva con le dita pareti d’argilla. Lo sguardo da lontano non sa indovinare la forma precisa di quel modellare. Il tempo è quello degli spettatori che irrompono sulle gradinate, è quello che precede l’uscita degli attori sulla scena. L’attesa diventa racconto e dall’assiduo ruotare della macchina affiorano storie di acqua e di terra.

Da qui comincia l’esperienza prometeica firmata da Claudio Longhi, da prima dell’inizio della tragedia, nel segno di una creazione allusiva di tutti i tasselli del mito (la prima donna formata nella terra dal fabbro divino, l’intera razza umana plasmata nel fango dal titano) ed evocativa di un gesto demiurgico di cui è investito lo stesso regista. Claudio Longhi, tuttavia, non edifica ma smantella, scompone, mette a nudo. Scampato ad ogni tentativo di attualizzazione della sua remota esistenza, il Prometeo di questa edizione siracusana (in scena fino al 30 giugno) esce dall’inferriata dietro cui lo aveva ingabbiato il dio nazista dell’allestimento di Calenda del 1994, così come pure si stacca dal doppio di pietra colossale e prostrato (quasi una concrezione della leggenda kafkiana che vuole il compenetrarsi della rupe e del titano) della versione ronconiana del 2002. Dismessi gli abiti, tutti novecenteschi, del personaggio irrevocabilmente sconfitto, Prometeo si riappropria della sua più autentica vocazione alla ribellione e alla resistenza, offrendosi (corpo imponente, voce roboante di Massimo Popolizio) allo sguardo inestinguibile degli elementi del cosmo (“il cielo… la terra… il disco del sole che tutto vede”) e a quello mai stanco della pratica teatrale (“Guarda la scena, guarda a quali sofferenze sono inchiodato”).
La cifra della regia di Longhi si coglie nella parete disancorata e metallica che tiene avvinto il protagonista, non più rupe solo impalcatura mobile e scarna, atta a esibire ogni parte di quella figura incessantemente martoriata: lui, maestro di ogni arte e signore del tempo, Prometeo il veggente fatto oggetto di visione come in una teca espositiva o una dimostrazione di anatomia (così Longhi legge l’impianto scenografico progettato da Rem Koolhaas per OMA, rifacendosi a un verso di Sanguineti: “Ogni teatro è un teatro anatomico”). E proprio con l’esposizione di un altro corpo offeso progredisce l’intreccio drammatico, quando chiama in scena la fanciulla amata da Zeus e odiata da Era: vessata da un tafano che le strazia la mente di una follia non disgiunta dalla smania erotica (dualità, questa, felicemente impersonata da Gaia Aprea), né vacca, né donna, Io patisce una metamorfosi arrestatasi in corso d’opera e perciò ancor più oltraggiosa. L’erranza geografica cui è condannata (è solo una breve sosta quella che la trattiene presso il supplizio prometeico, di contro a un tragitto che si dilata per ogni anfratto del cosmo) si fa metafora dello smarrimento mentale di chi si ritrova, ovvero si perde, in una identità compromessa. Con il suo incedere malfermo e la voce disarticolata, la “ragazza dalle corna di vacca” incarna un senso di precarietà che la divora e che investe lo stesso titano. Questo senso di provvisorietà (punto di convergenza di prospettive antiche e odierne) interviene a sospendere l’esistenza dei personaggi in bilico tra due catastrofi: una appena conclusasi, nel segno dell’instaurazione dell’ordine imposto da Zeus; un’altra invece tanto insondabile quanto imminente, iscritta nel destino di ognuno, degli dei come degli umani. Il disastro si preannuncia con l’annerirsi inatteso dell’oceano che circonda la scena/kosmos, attraverso le acque che lambiscono e intaccano le vesti delle figlie di Oceano (le danseuses della Martha Graham Dance Company): lo scenario si schiude, svelando un’impalcatura fatta apposta per sorreggere il mondo o, forse, sul punto di disgregarsi, lasciandolo crollare.

Sonia_Macrì

2012-06-28T00:00:00




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