Teatro di guerra Cartoline dal Kosovo (seconda parte)

Il debutto a Pristina di Qualcuno volò sul teatro del Kosovo, la controversa pièce sull'indipendenza di Jeton Neziraj

Pubblicato il 19/12/2012 / di / ateatro n. 142

Leggi la prima parte del reportage.

Fuochi d’artificio e non, in Kosovo

Il mio secondo viaggio in Kosovo non è stato tranquillo come il precedente.

Pristina.

Il 28 novembre era una data importante per i Balcani perché si festeggiavano i cento anni di indipendenza dell’Albania (il “Flag Day”), e anche a Pristina i kosovari di etnia albanese e non solo, erano in festa, con le bandiere rosse con un’aquila nera a due teste al centro innalzate ovunque, fuochi d’artificio e una manifestazione “baffuta” (una sfilata con uomini in baffoni veri e finti, a ricordo degli eroi della guerra del 1912 contro l’Impero Ottomano).

Per una curiosa coincidenza il giorno dell’indipendenza dell’Albania è anche la ricorrenza della data di nascita (28 novembre) di quello che viene considerato un eroe nazionale, la cui iconografia è stampata ovunque. Adem Jashari è uno dei primi volontari del Kosovo Liberation Army, tra i fondatori dell’UCK, ma è anche una figura assai controversa: per alcuni un valoroso comandante per altri un criminale di guerra, e non solo di guerra, ucciso con la famiglia a Prekaz. Hashim Thaci, primo ministro kosovaro, oggi ancora indagato per traffico di organi (vedi la news su balcanicaucaso.org), ha colto l’occasione per riportare l’evento all’urgenza politica del momento, l’annessione all’Unione europea e la piena accettazione della sovranità nazionale da parte della Nato: “Today Kosovo is an indipendent and sovereign state and has its security force. We should all be proud that Albania is a member of NATO. Also Kosovo will join NATO soon. We will be unite in NATO and EU”. Anche il partito nazionalista Vetevendosje coglie l’occasione per ricordare il progetto mai spento di una riunificazione della Grande Albania.

Il giorno dopo, il 29 novembre, esce su tutti i media il verdetto sullo scottante “caso Haradinaj”: il tribunale penale internazionale dell’Aia ha assolto l’ex primo ministro del Kosovo ed ex comandante dell’Uck Ramush Haradinaj e altri due componenti dell’UCK (in prigione all’Aja) dal reato di crimini di guerra, omicidio e trattamento crudele e di tortura inflitto nel 1999 a Jablanica nei confronti di minoranze etniche (serbi, rom, egiziani).
Kosovo: 800 uccisi e nessun colpevole: titola così Riccardo Noury, giornalista e membro di Amnesty International, l’articolo del suo blog sul “Corriere della sera on line”, ricordando anche che erano rimasti solo due testimoni al processo. L’evento della liberazione di Haradinaj è stato salutato con giubilo tra la folla e numerosi sono stati gli spari in aria nella capitale mentre Haradinaj libero, in visita a Tirana veniva insignito di onorificenze. Fuochi d’artificio un po’ speciali, con colpi sparati per strada con gli AK47.
I media parlano di un possibile ritorno politico di Haradinaj come primo ministro, mentre Thachi assumerebbe la carica di presidente del Kosovo.
Qualche giorno dopo, alcuni veterani dell’UCK hanno manifestato contro il quartier generale dell’Eulex bloccandone gli ingressi, per chiedere la liberazione del leader militare dell’Uck Fatmir Limaj (classe 1971), vicino a Hashim Thachi, ex ministro dei Trasporti dal 2008 al 2010. Già processato e assolto dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia nel 2005 per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, per i fatti avvenuti nel campo di prigionia di Lapusnik, Limaj è ora sotto custodia cautelare accusato per i fatti di Klecka (fonte: Agenzianova. Kosovo).

Il cimitero ai caduti dell’UCK.

Nelle zone di confine con la Serbia, nel Nord del Kosovo, la situazione poi, è ancora calda, in particolare nella città di Mitrovica, letteralmente divisa in due, metà serba metà albanese kosovara (parte Nord e parte Sud), dal ponte sul fiume Ibar; al Nord l’etnìa serba, che lì risiede da sempre, non accetta i nuovi confini e l’annessione del loro territorio al Kosovo, poiché vogliono appartenere alla Serbia. Ma questa è una situazione spinosa anche per Belgrado, tenuto conto che a breve si avrà una pre-accoglienza della Serbia nella UE, a patto che dimostri proprio che il dialogo con Pristina stia avanzando. Ance se “dialogo” non significa il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.
Mentre la situazione è apparentemente stabile nelle altre tre comunità serbe kosovare di Kosovska, Zevca, Leposavic e Zubin Potok, da qualche tempo i serbi kosovari del Nord hanno innalzato a Mitrovica una barricata di terra e sassi sul ponte, una sorta di blocco costantemente presidiato da una parte da poliziotti kosovari e Kfor internazionali (a Sud), dall’altra (a Nord) dai serbi kosovari.

Barricata a Mitrovica.

A Mitrovica, aggressioni, attentati e sparatorie vengono registrati quasi quotidianamente. Andarci è una esperienza impressionante: pochissime donne in giro, locali fumosissimi e strade piene di persone prive di attività (in Kosovo la popolazione è per il 45% senza lavoro e il 40% è sotto la soglia di povertà, fattore che incrementa la criminalità).

Il monumento ai caduti a Mitrovica.

In prossimità del ponte, dove la Repubblica del Kosovo esercita effettivamente la giurisdizione, hanno innalzato un monumento all’Albania e ai caduti dell’Uck, mentre al di là del ponte, attraverso lo stretto corridoio per entrare a piedi nella enclave Nord della città, è tutto uno sventolìo di bandiere serbe.
La polizia ci avvisa che a passare il ponte si rischia di essere mirati dagli snipers, i cecchini.

Bandiere serbe a Mitrovica Nord.

La situazione di “instabilità controllata” in Kosovo è ben stigmatizzata dall’ambasciatore italiano a Pristina, Michael Giffoni, esperto dei Balcani (era a Sarajevo nel periodo dell’assedio e della guerra dal 1994-1996 e dopo gli accordi di Dayton, è stato per tre anni consigliere presso l’Ufficio dell’Alto Rappresentante per la Bosnia, inizialmente retto da Carl Blidt), che gentilmente mi riceve in una nevosa giornata di dicembre nella sede dell’ambasciata italiana:

“La situazione è abbastanza stabile ma fragile. Sono passati 4 anni e 9 mesi dalla indipendenza del Kosovo, nel febbraio 2008, e da allora questo processo di consolidamento istituzionale è andato avanti con successo, pur con alcune evidenti lacune. Sul piano interno tutte le comunità, inclusa quella serba a Sud del fiume Ibar, ha accettato questo nuovo contesto istituzionale e il principio del decentramento amministrativo, che concede pari tutela e rappresentanza a tutte le comunità. I serbi del Nord però non accettano questo stato di cose; nel luglio 2011 sono state innalzate barricate che danno un senso di fragilità che contraddice questo processo di consolidamento interno. Il Nord non accetta neanche il dialogo tra Pristina e Belgrado, favorito e facilitato dal’Unione Europea che da ottobre scorso si svolge ad alto livello politico con incontri dei due Primi Ministri a Bruxelles. A livello internazionale il vero problema è che la mancata normalizzazione, anche solo a livello embrionale, dei rapporti tra Belgrado e Pristina ha impedito una piena legittimazione del Kosovo con conseguenze anche per la stabilità e la Prospettiva Europea di tutta la regione dei Balcani occidentali.

Per spiegarmi il sistema istituzionale in fase di transizione, efficace ma graduale, l’Ambasciatore usa l’immagine delle “convergenze parallele”:

“In sostanza, a un primo livello di sovranità interna, evidente e concreta per la stragrande maggioranza della popolazione, si contrappongono livelli di realtà/virtualità che lo contraddistingono in parte: il livello della mancata accettazione piena della comunità serba all’interno, e quello del mancato pieno riconoscimento internazionale con il Consiglio di Sicurezza dell’ONU che, per il veto di Russia e Cina, ancora si muove in un quadro precedente alla proclamazione dell’indipendenza, nonostante la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2010 che l’ha considerata non contraria al diritto internazionale e alla stessa Risoluzione 1244.″

Da questa situazione non si può sperare che le rette (ovvero tutti gli attori protagonisti: Unione Europea, Onu, Serbia, Kosovo, le diverse etnie e le comunità interne) si incontrino e finiscano per coincidere perfettamente, ma, ci ricorda l’Ambasciatore, “almeno si può auspicare e si deve lavorare affinché si avvicinino il più possibile.

L’Italia partecipa e conta molto, è un paese capofila che ha riconosciuto subito il Kosovo e ha cercato di rendere meno traumatico l’impatto dell’indipendenza”.

I serbi in Kosovo non se la passano benissimo, sia per i trascorsi di guerra sia per la questione religiosa: i serbi in generale e i serbi kosovari sono cristiani ortodossi mentre i kosovari albanesi sono musulmani (e sta pericolosamente aumentando anche il fondamentalismo islamico di stampo waabista).

Al confine con la Macedonia.

Con la Serbia che con il suo primo ministro Vucic sta negoziando a Bruxelles l’accesso all’UE, con i primi passi verso un dialogo con Pristina attraverso la gestione integrata dei valichi di confine iniziati il 10 dicembre scorso (con la presenza ai gates di Eulex), la “normalizzazione” e il processo di integrazione europea sembrerebbero apparentemente vicini.
Apparentemente, sia perché di fatto la Serbia afferma che non si tratta di confini, dando al Kosovo lo status di sua “provincia meridionale”, sia perché, allo stato attuale, le proteste – confluite in impedimenti della creazione di infrastrutture (i cosiddetti Co-located Bcp’s sono adesso funzionanti grazie anche al lavoro del responsabile della logistica Eulex, l’ingegner Michele Sabatini) presso i valichi amministrativi del Nord, presso il valico di Jarinje, per esempio – hanno rischiato di far saltare l’attuazione dell’accordo raggiunto a Bruxelles tra Belgrado e Pristina.
Di questo mi parla praticamente in tempo reale mio cugino Giancarlo Monteverdi, team leader della police in Eulex, che dopo la risoluzione degli accordi per la gestione integrata dei valichi è stato incaricato di stare al Gate 3 con funzione di monitoraggio, con un orario di lavoro di dodici ore che quasi gli impedisce il rientro giornaliero a casa nella capitale.
Fuori dalle zone rosse si combatte un’altra battaglia, a suon di milioni di dollari: il Kosovo si appresta infatti a una massiccia presenza americana per l’affare più lucroso del paese, la privatizzatizzazione della PTK (Poste e Telecomunicazioni), l’operatore telefonico nazionale. Qualche giorno l“Herald Tribune” titolava: Back in Kosovo for business: i due personaggi che ritornano in Kosovo per contendersi la PTK sono niente meno che la signora Madeleine Albright (ex segretario di stato Usa) e James Pardew, inviato speciale nei Balcani durante la presidenza Clinton.

Barricate anche a teatro? Jeton e Blerta Neziraj a Pristina

Il teatro non può non essere protagonista assoluto, qua dove la divisione territoriale tra serbi ekosovari in forma di barricate di sassi e terra e la difficile convivenza etnica e religiosa nel dopoguerra kosovaro viene condensato in una espressione shakespeariana: romeo and julietism.
Ma il teatro può essere una piattaforma di dialogo tra i popoli, un ponte tra culture che non si incontrerebbero mai?
A teatro la “normalizzazione” – per dirla nel linguaggio burocratico di Bruxelles – imposta dall’alto, frutto di negoziati bilaterali, piattaforme o attraverso meccanismi di controllo di polizia internazionale, non funziona: si usa con assai migliore efficacia quel genuino senso di ricerca collettiva di valori condivisi legati all’indipendenza, alla ricostruzione morale e civile, oltre separatismi e nazionalismi.

Jeton Neziraj.

Queste riflessioni, questi interrogativi sono alla base del lavoro teatrale di Jeton Neziraj, drammaturgo trentacinquenne già direttore del Teatro Nazionale del Kosovo, poi allontanato dal Ministro della Cultura. I suoi testi, rappresentati in molti paesi europei (recentemente ha avuto successo al Festival di Lipsia Euro-scene con Yue Medlin Yue) e negli Stati Uniti (The Demolition of the Eiffel Tower), lo hanno reso un personaggio da cui è impossibile prescindere occupandosi della scena balcanica.

La locandina dello spettacolo.

Arrivo a Pristina per la seconda volta, invitata ufficialmente dalla compagnia Qendra Multimedia di Jeton Neziraj per il debutto al Teatro Nazionale del suo nuovo testo, Futurimi mbi teatrin e Kosovës, messo in scena dalla giovane e bravissima moglie, Blerta, e dalla compagnia Qendra, con l’apporto di due straordinari musicisti italiani, un fisarmonicista e una violinista, Gabriele Marangoni e Susanna Tognella.
Avevo letto il testo tradotto in inglese: la trama che sembrava davvero intrigante ma anche decisamente scottante, centrata sulle tematiche dell’indipendenza del Kosovo. Mi stupivo che in un paese con un alto tasso di controllo istituzionale non ci fosse stato alcun tentativo di boicottaggio. Mi sbagliavo.
Pochi giorni prima della mia partenza, Jeton mi accenna per mail a un grave tentativo di censura da parte del governo, attraverso il Ministro della cultura, per impedire il debutto al Teatro Nazionale previsto per la serata del 5 dicembre. Forse per non scoraggiarmi, aggiunge che nel caso lo spettacolo l’avrei visto comunque, ma non a Pristina.
“Verrai con noi a Tirana il giorno dopo o a Skopje o a Belgrado. E’ il piano B”.
A Belgrado sapevo già che non lo avrei potuto vedere: il mio stamp di ingresso dall’Italia attraverso il Kosovo mi avrebbe impedito di entrare in Serbia. Ma c’era da capire come la comunità teatrale e culturale – ma anche le istituzioni politiche degli altri paesi presenti qua per business (banche, ditte di ricostruzione, telefonia) – avrebbero reagito: sarebbero intervenute per impedire che un paese che ha chiesto di entrare nell’Unione Europea, facesse cadere la ghigliottina della censura oggi, nel 2012 su un autore affermato a livello internazionale? C’è poco tempo ma la mobilitazione sta già per entrare nel vivo.
Il 5 dicembre a “Pristina la bella” nevica abbondantemente. Il gruppo di critici internazionali e direttori di teatri che sono stati invitati in Kosovo (o meglio, che hanno accettato di venire) tra cui Hans Echnaton Schano (ex attore del Living Theatre), vengono convocati la mattina in teatro; scaglionati a causa dei diversi fusi orari e dei jet lag, ci precipitiamo dentro, chiedendo tutti subito la stessa cosa: “Ci sarà lo spettacolo?”
Jeton ci spiega che la situazione si è sbloccata da poche ore solo grazie all’intervento degli ambasciatori austriaco, tedesco e svizzero.

Con il team Eulex.

Forse a questo punto vale la pena ricordare la trama, per capire le parole liberatorie di Jeton sull’assurda vicenda, degna di un testo beckettiano o di un poliziesco: “It’s like a film!”.
Come spesso accade, la realtà (e la stupidità umana) supera anche la più fervida immaginazione: l’intervento della censura governativa sembra davvero un perfetto “ultimo atto” della commedia di Jeton. Insomma, un “play within a play”.

Prima dello spettacolo.

Aspettando (con Godot) l’indipendenza del Kosovo

Mentre stanno provando la più famosa piéce di Beckett, un regista e la sua compagnia teatrale in residenza al Teatro Nazionale del Kosovo ricevono la visita del segretario del Primo Ministro. Dovranno mettere in scena l’indipendenza (ancora non avvenuta) del Kosovo: un’occasione unica e ghiotta per l’ambizioso regista, che sottosta a tutte le richieste del segretario pur di non perdere la commissione. Così inizia a immaginare uno scenario possibile, un testo, dei personaggi, i dialoghi.
Unica incognita, la data.
“Quando ci sarà la dichiarazione di indipendenza”? chiede.
Nessuno lo sa. Segreto di Stato. Dovrà essere una data che sta bene a tutti, gli Usa e i membri della Ue, ma anche Eulex, Kfor, Unmik… Quindi si iniziano le prove senza sapere esattamente la data della prima. Il segretario richiede di inserire un testo, quello che leggerà il Ministro davanti al popolo in festa. Anche il discorso è ovviamente top secret e verrà consegnato alla comagnia solo pochi minuti prima della messinscena.
Le incognite iniziano a essere troppe. Che dirà il testo? E soprattutto quando verrà portato in teatro?
Ma il regista non si scompone, soprattutto quando sente la cifra messa a bilancio: “Due milioni di euro”. Anche se, dopo vari passaggi, i soldi arriveranno a essere, alla fine, solo ventimila un accenno sarcastico alla corruzione istituzionale imperante in Kosovo.
Si alternano situazioni tragicomiche in cui il segretario, in veste di censore ufficiale, ascolta la trama e corregge passaggi niente affatto “secondari”. Per esempio, quando si racconta delle battaglie in cui i kosovari hanno battuto i nemici serbi, bisognerà dire che in realtà quelli sono amici: è la “ragion di stato”, quella che fa cambiare di segno le ideologie e trasmutare in senso opposto gli ideali a cui si è creduto e per i quali si è combattuto.

Foto Avni Selmani.

Così, mentre aspettano frementi si sapere la data dell’indipendenza, a un tecnico di palco viene in mente di attuare la sua meravigliosa e quasi eroica missione: fare una trasvolata kosovara aggiustando un rottame di aereo della Seconda guerra mondiale, attaccandogli un motore del palcoscenico e lanciando da lassù volantini con scritto “Riconoscete il Kosovo”. Altri hanno problemi personali da risolvere, ben più urgenti dell’indipendenza: l’attore, ormai solo ubriaco di professione, vuole tornare con la moglie che lo ha lasciato. Ma è sull’avvenente attrice, famosa per poche battute in una fiction tv, che il regista conta per avere un “aiutino” sulla data della dichiarazione di indipendenza: la donna cercherà di carpirla dal segretario in persona. Non tornerà a mani vuote: non ha la data, ma una promessa: debutterà… non proprio a Broadway, ma almeno in qualche ambasciata americana.

Il regista impazzisce, ha crisi autorali e incubi notturni e dubbi sulla data del debutto, che a volte sembra vicinissima a volte lontanissima, e sul testo, che proprio come Godot non arriva mai. Intanto l’attore che dovrà fare la parte del protagonista si ubriaca, come al solito: in scena storpierà la dichiarazione ufficiale del Ministro e alla fine la trasformerà in un monologo assurdo e convulso.
La dichiarazione d’indipendenza è il piagnisteo di un ubriacone che implora la moglie perché lo riaccolga a casa. Se l’indipendenza del Kosovo è una festa per tutti, per la compagnia la data si rivela una Waterloo. Anche il volo sarà un disastro: l’aereo, con le parti del velivolo tenute insieme solo dalla buona volontà di un folle, precipiterà sul tetto del teatro e il pilota, incompreso nel suo slancio patriottico, verrà scambiato per un attentatore sovversivo.
Se l’indipendenza del Kosovo è passata per altre strade, quelle del consenso dei paesi che contano lassù a Bruxelles, senza coinvolgere la popolazione che neanche sapeva quando sarebbe avvenuta, quella teatrale è stata messa effettivamente a rischio, sia nella finzione sia nella realtà. Anche in questo caso, come per tutta l’economia kosovara, salvifico è stato un deus ex machina dall’accento germanico.
All the rest is silence. Silenzio beckettiano, ovviamente.

E sul palcoscenico com’era?

La comicità – o meglio, il registro tragicomico – di Jeton Neziraj ha il suo compimento migliore proprio nella scrittura scenica di Blerta Neziraj, che sottilmente e con maestria accentua il ridicolo dei personaggi di potere (con relativi servi) e della situazione generale (un’indipendenza ottenuta con il permesso dell’UE e con il benestare di tutti i paesi ospiti – non sempre così graditi – sul suolo kosovaro) attraverso la soluzione scenica di quattro sedie (che diventano un’ottima appendice attoriale, con cui creare balletti, atti di seduzione, proclami).

La scrittura scenica passa anche dalla scelta dei costumi con i colori della bandiera kosovara (gialla e blu) e la scenografia con una specie di tetto forato con le stelle bianche (che corrispondono alle diverse etnie nella bandiera del Kosovo) e soprattutto dalla presenza della musica dal vivo realizzata da straordinari interpreti ben visibili sul palco: sono due collaboratori di lunga data della compagnia, Gabriele Marangoni e Susanna Tognella, una coppia di italiani che ha creato per l’occasione una partitura ritmata coinvolgente, allegra, scanzonata e folle almeno quanto la scrittura teatrale.
Si passa senza soluzione di continuità dal motivo sognante di Singin’ in the Rain pizzicato al violino a suoni tradizionali balcanici fino a Mission Impossibile, o alla soluzione strepitosa del coro weill-brechtiano fatto solo delle sigle dei contingenti militari e dei paesi UE. Solo questi passaggi varrebbero tutto lo spettacolo: restituiscono il senso di una forte denuncia (non meno attenuata dalla scelta del registro parodico) di un sistema di potere che in Kosovo ha assunto le forme di un protettorato UE.
E’ un vero teatro d’attore, con gag e azioni coreografate da far piegare in due il pubblico dalle risate, con punte di bravura interpretativa che hanno fatto scattare varie volte, in un teatro zeppo all’inverosimile di giovani, applausi a scena aperta agli interpreti: Bajrush Mjaku, Adrian Morina, Anisa Ismaili, Adrian Aziri, Ernest Malazogu.
Come in altri testi di Jeton, la situazione è talmente assurda da poter essere vera o almeno verosimile, i personaggi talmente consumati nei loro cliché da risultare probabili (anche fuori dal Kosovo): funzionari corrotti, registi e attori compiacenti e venduti al politico di turno, un teatro non votato agli ideali dell’arte ma al vile denaro. Ma anche a prescindere dal contesto teatrale, lo sguardo generale non cambia di molto e non rassicura granché.
Standing ovation finale e applausi. Anche da alcuni poliziotti Eulex.

Desidero fare un ringraziamento speciale alle persone che mi hanno accompagnato in questo viaggio, aiutato a capire la situazione politica del Kosovo e a scrivere questi resoconti: dott. Giancarlo Monteverdi; ing. Michele Sabatini (Eulex).
Un ringraziamento all’ambasciatore italiano in Kosovo, dottor Michael Giffoni, con cui abbiamo conversato non solo di politica ma anche di arte, teatro e letteratura.
Un abbraccio fraterno a Jeton e Blerta Neziraj, che hanno creato quel “teatro necessario” e non “mortale” che amiamo. Grazie a Gabriele Marangoni, Sunita Kurti e a tutta la compagnia Qendra Multimedia, che mi ha accolto amichevolmente nei suoi spazi, permettendomi di vedere prove e condividendo conversazioni e molti caffè.

Anna_Maria_Monteverdi

2012-12-19T00:00:00




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