Teatro di guerra Cartoline dal Kosovo (prima parte)

Fare teatro in un paese da ricostrure, con un incontro con Jeton Neziraj

Pubblicato il 11/11/2012 / di / ateatro n. 141

Partenza da Verona per Pristina, capitale della neonata Repubblica del Kosovo, il più giovane Stato d’Europa, grande quanto la nostra Basilicata e confinante con Albania, Serbia, Montenegro e Macedonia senza sbocchi al mare.
Nell’aereo da 300 posti siamo in 6. Ci attende uno smistamento di persone provenienti da vari paesi: alla dogana il primo ufficio è quello della porta a vetri per il “reintegro dei rimpatriati”.
Ci attende anche la foto appesa ovunque di Adem Jashari, l’eroe della guerra di liberazione a cui è intitolato l’aeroporto.

Una questione di confini (il contesto)

La guerra in Kossovo inizia nel 1998 e termina nel 1999. Nel 2002 la Nato istituisce per il Kossovo The Office of Missing Persons and Forensics. Nel 2008 il Kosovo si autoproclama Stato indipendente, ma non tutti i paesi lo riconoscono (l’Italia e la Germania si, la Spagna, la Bulgaria e la Russia no; complessivamente è riconosciuto da 93 paesi dell’Onu su 193).

In Kossovo rimane stabile dal 1999 una missione Nato (UNMIK) autorizzata dalla risoluzione n.1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E’ una missione di amministrazione provvisoria per garantire l’autogoverno che si avvale delle KFOR (contingente di sicurezza Kosovo Force) per la sicurezza interna; è presente anche Eulex, organizzazione di polizia e di giustizia internazionale con un quartier generale nel cuore di Pristina e vari distaccamenti ai “border”. La Serbia infatti continua a ritenere il Kosovo parte integrante del proprio territorio e le minoranze serbe, presenti in alcune città e in dverse enclaves, continuano a premere, specie ai confini settentrionali: non riconoscono la giurisdizione del Kosovo e vogliono annettersi alla Serbia.
La situazione politica generale è sintetizzabile nell’ottima definizione di “instabilità controllata”. In termini militari, questa instabilità è legata alle organizzazioni politiche e paramilitari di etnia albanese che spingono nella direzione del progetto generalmente conosciuto con il nome “Grande Albania” e che punta alla riunificazione di tutti gli albanesi per far parte di un unico più grande stato, che annetterebbe molti territori che appartengono al Montenegro, alla Serbia, alla Macedonia o alla Grecia.
Vetevendosje, per esempio, che è il terzo partito politico del Kossovo per importanza (dunque un partito parlamentare, che fa parte dell’arco costituzionale), è per l’autodeterminazione del Kosovo.

Se la capitale Pristina sembra piuttosto tranquilla, al Nord del Kosovo la situazione si fa decisamente più calda; pochi mesi fa serbi kossovari hanno attaccato i gates, distrutto aree a nord di Dimitrovica – il capoluogo dell’omonimo distretto del Kosovo settentrionale a maggioranza serba – e hanno innalzato barricate, dividendo la città in due, nord e sud, con il fiume Ibar a fare da confine. La questione del rapporto serbi-kosovari è ancora lacerante in questi territori, che rappresentano un focolaio ancora acceso nel cuore dell’Europa nonostante la Serbia, con il neo presidente Nicolic, abbia chiesto di far parte dell’Unione Europea.
All’epoca di Tito, il Kosovo era una regione autonoma della Serbia; con Milosevic al governo, l’autonomia venne revocata. Questa perdita dei diritti costituzionali, legata anche al nazionalismo serbo, scatenò la reazione degli albanesi kosovari che si organizzarono prima con forme di resistenza non-violenta capeggiate da Ibrahin Rugova e poi con una struttura di guerriglia chiamata UCK. Grazie ai finanziamenti dei paesi occidentali e degli Stati Uniti l’Uck si trasformò nel Fronte di Liberazione del Kosovo, il KLA.
Il conflitto, sanguinosissimo, subì una terribile escalation, con circa 11.000 morti tra gli albanesi e 5000 serbi e circa 800.000 civili rifugiati in Albania e in Macedonia come profughi per sfuggire alla politica repressiva di Milosevic. Nonostante gli appoggi esterni, il Kosovo non era però ancora in grado di contrastare l’agguerritissima Serbia.
A quel punto Intervenne la Nato (operazione Allied Force) per porre fine alla pulizia etnica di Milosevic: all’epoca del governo D’Alema l’Italia autorizzò l’invio di missili dalle basi italiane. In quella che venne definitiva “guerra umanitaria” e che portò al bombardamento aereo massiccio anche di obiettivi civili e della stessa Belgrado, la Nato costrinse la Serbia a cedere. La decisione finale prevedeva che il KLA si sciogliesse e sotterrasse le armi, e che i serbi si ritirassero dalla linea amministrativa (ABL) e il Kosovo – sempre come provincia serba – passasse sotto l’amministrazione ONU con supporto militare Nato. (Per approfondimenti, vedi testi e siti come l’Osservatorio Balcani e Caucaso.
L’attuale presidente del Kossovo è una donna, Jahjaga Atifete. Trentasette anni, ex language assistant e in seguito vicecapo della polizia, è stata eletta dopo che èstato dichiarato nullo il voto a favore dell’imprenditore e tycoon (oltre che ex marito di Anna Oxa) Behgjet Pacolli. La maggior parte dei guerriglieri dell’UCK, non esattamente anime candide, sono entrati in politica e occupano posti di rilievo in campo economico e nell’amministrazione dello Stato.
A capo del partito di maggioranza (PDK, Partito democratico) nonché primo ministro, è attualmente Ashim Thaci: per alcuni è un eroe della liberazione del Kossovo, ma è ancora sotto inchiesta da parte delle organizzazioni internazionali, per crimini di guerra con accuse molto gravi.

Una difficile convivenza

Se da un lato la presenza internazionale serve a garantire un equilibrio tra le diverse etnie che da sempre convivono in un unico territorio geografico con confini storicamente definiti, appoggiando progetti di integrazione, di fatto non sembra che il nuovo governo apprezzi aperture (anche culturali) verso Belgrado. Anche la popolazione, del resto, non sembra partiolarmente propensa a cancellare il recentissimo passato.
La Serbia è una nazione con propria lingua e religione ortodossa. Il Kosovo è popolato per circa il 90% da albanesi musulmani, poi di serbi che sono cristiani ortodossi e poi minoranze turche, egiziane e “roman” (gipsy). Altra minoranza è quella cattolica: l’unica chiesa cattolica ancora in costruzione a Pristina, vicino ai giardini della città e dedicata a Madre Teresa, è stata finanziata dal Vaticano.

La maggior parte delle chiese ortodosse, per evitare scontri di natura religiosa, sono presidiate dalle forze militari o di polizia: negli ultimi anni un rifiorire della religiosità musulmana sta dando vita a fenomeni estremistici radicali come il Waabismo, il movimento fondamentalista di origine saudita che sta raccogliendo molti adepti.
Ma Pristina non è uno specchio veritiero del Kosovo: è una città moderna (a differenza della storica cittadina di Prizner), con usanze fortemente occidentali, dove è possibile trovare il bar cpn wifi, ristoranti thailandesi e specialità ungheresi, pizzerie italiane, pasta Di Vella e boutique Zara.

Un paese da ricostruire

La corruzione è uno dei più gravi problemi del nuovo Kosovo. In effetti non si capisce quale sia la fonte economica primaria del paese, non essendo uno stato economicamente autosufficiente.
Il Kossovo non ha risorse energetiche, a parte legna e carbone di torba. Le colline per questo motivo sono prive di alberi, quasi totalmente deforestate e presentano segni evidenti di desertificazione e conseguentemente di instabilità idrogeologica. La centrale di Obilic, che brucia torba in periferia di Pristina, inquina pesantemente con fumi non filtrati che si riconoscono e impregnano di un odore acre la città e aree limitrofe. L’Europa ha finanziato un programma di ammodernamento che pare non sia mai stato applicato.
Quella del Kosovo è un’economia fortemente sussidiata dagli aiuti economici europei e dalle rimesse dei lavoratori kosovari emigrati all’estero; di fatto, una cospicua parte dell’economia pare legata agli introiti derivanti da attività criminale direttamente connesse con il traffico di esseri umani (migranti) attraverso vari corridoi, e poi al traffico di droga e armi.
Da quello che avevo letto su Internet, immaginavo di arrivare in un territorio devastato, ma non è così. I segni della guerra a Pristina sono visibili, almeno a prima vista, solo nell’attività ininterrotta di ricostruzione di intere aree cittadine senza alcuna pianificazione o progettazione urbanistica, come si vede nel boulevard Mater Teresa: il Grand Hotel 5 stelle di svariati piani con rivestimento di un improbabile rosa shocking e oro sta a fianco di poverissime palazzine con laterizi e cemento a vista.
La ricostruzione è stata resa possibile dagli aiuti europei e americani ma gli interessi economici in questa area sono per lo più tedeschi, turchi, austriaci e svizzeri. Poche le ditte italiane. Molte le banche tedesche.
Il Kossovo è una regione sismica ma tutte le nuove costruzioni sono realizzate senza alcun criterio antisismico; il caso più clamoroso è quello della collina a Nord Ovest della città: considerata instabile geologicamente, al punto che fino a tutto il periodo di governo serbo c’era divieto di costruzione, adesso è oggetto di sfruttamento edilizio con megapalazzi residenziali e popolari.

Cos’è una cultura nazionale?

Pristina è una città all’apparenza tranquilla: ha 500 mila abitanti, l’Università è in pieno centro così come lo Stadio dall’improbabile architettura da astronave aliena. Nelle strade perennemente ingorgate circolano molti mezzi militari Kfor, Eulex, UNMIK (Onu) e OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa).
Ci sono un Museo Nazionale una Biblioteca Nazionale e un Teatro Nazionale.
L’indipendenza ha prodotto un orgoglio di identità nazionale ben visibile dai cartelli che campeggiano ovunque con la scritta “Republic of Kosovo” e che è ben altra cosa dal “nazionalismo” anche se spesso i due termini si confondono.
Ma cos’è in questa area geografica una “cultura nazionale”? Quella storica albanese o quella kosovaro-albanese neo-nata? E il nazionalismo è il sentimento politico e culturale che evita ogni contaminazione solo con l’elemento serbo o anche con quello macedone? E quali sono i confini di queste culture?
La Repubblica del Kosovo non ha, di fatto, un confine; si discute ancora ai vertici politici perché l’unica linea riconosciuta dagli accordi internazionali (che hanno definito una ABL) è una linea di demarcazione amministrativa con funzioni strategiche militari ma che non rispecchia il confine storico tra la provincia del Kosovo e il resto della Serbia.
La nuova frontiera non è perciò ancora conosciuta.
Se chiedi alle persone dove si trova, ti rispondono: “E’ dove tutti sanno”. Quel “dove tutti sanno” sono ancora i vecchi confini geografici prima del 2008.

Theatre in Place of War: Jeton Neziraj

“Ci sarà un teatro”.
C’è. E’ il Teatro Nazionale, il Teatri Kombetar i Kosoves, in pieno centro, con una sala di 300 posti, senza palchi e con una pianta a ferro di cavallo e un palcoscenico piuttosto profondo. Ha anche una sala per la danza, che ospita il Balletto nazionale del Kosovo. A ottobre è stata inaugurata una mostra con i volti dei massimi interpreti e autori teatrali mondiali: nel foyer Pirandello sta insieme a Stanislavskij.

Il teatro, collocato a una delle estremità del boulevard Mater Teresa, in parte danneggiato dai bombardamenti e con l’area intorno in completo rifacimento, è da giorni completamente al buio. Pare non abbiano soldi per pagare l’elettricità, ma mi assicurano che quando ci saranno le prove, ripristineranno la luce.
Nel teatro c’è pure un drammaturgo giovane e assai attivo, che lo ha diretto fino a pochi mesi fa. Si chiama Jeton Neziraj, ha trentacinque anni, ed è una personalità riconosciuta in Kosovo e in Albania ma anche all’estero, specie nei paesi germanici (Svizzera, Austria e Germania). Dirige la compagnia Qendra Multimedia nata nel 2002 a Pristina.
E’ autore di oltre 15 commedie, tra cui The last Supper (in collaborazione con il regista svizzero Markus Zohner, all’interno del progetto Kosovo.Blood.Theatre.Project), Yue Madeline yue, The Demolition of the Eiffel Tower, The Bridge, War in Time of Love, rappresentate al Volkstheater di Vienna, a Parigi e Londra, oltre che in Kosovo, Albania, Croazia, Serbia, Macedonia.

Patriotic Hypermarket (photo by Y. Jankovic).

Di Patriotic Hypermarket. A post-dramatic dialogue between Belgrade and Priština (2010) è co-autore insieme con Milena Bogvac: lo spettacolo è stato visto anche in Italia al Festival VIE di Modena.
Neziraj non si ritiene un “autore guerrigliero”, ma un “autore in tempo di guerra”. Pubblica in albanese ma è tradotto in inglese, francese e tedesco, ed è seguito da un’agenzia letteraria per la diffusione delle sue opere. Il suo testo più noto e più rappresentato è War in Time of Love.

Ha diretto il Center for Children’s Theatre Development (CCTD), con compiti sociali e educativi per i giovani attraverso workshop e produzioni. E’ animatore di numerose manifestazioni, festival e forum teatrali (In place of war: theatre and nationalism, 2010, in collaborazione con l’Università di Manchester) e letterari (Polip_borders of politics, the beginning of po-ethics), impegnato sul fronte dell’attivismo intellettuale e sul ruolo dell’artista, sulla sua responsabilità e sul suo margine di libertà nei processi socio-politici in atto.
Jeton ha dato vita a molti progetti di cooperazione e di integrazione in parte finanziati anche dalle organizzazioni internazionali che hanno base qua. Il più importante è sicuramente il progetto VOICES in collaborazione con l’Office on Missing Persons della Nato, con cui ha cercato di unire etnia serba e albanese sulle tematiche della memoria, del conflitto, del trauma attraverso testimonianze dirette o registrate delle vittime e con attori da Pristina e Belgrado, mettendosi in condizione di essere fortemente criticato e osteggiato dal Ministero della cultura kosovaro.

I suoi testi, che trattano tematiche politiche anche scottanti come la possibilità di convivenza serbi-albanesi, il problema dei profughi di ritorno, dei rimpatriati forzati, quello del fondamentalismo religioso, del terrorismo e in generale del “chaotic post-war Kosovo”, sono solo in parte assimilabili a quello che qua viene definito il “teatro documentario”; casomai è più vicino a quella corrente in voga anche nell’Europa occidentale, di “dramatizing reality” o piuttosto al tema della “politicality”, per riprendere la definizione dal numero monografico di “TKH-Journal for Performing Arts Theory” n.19:

The politicality of performance is an aspect of this art practice that represents the ways in which it acts and intervenes in the public sphere, related to discussions and conflicts around the following issues: the ideological discourses that shape a common symbolic and sensorial order of society, which affects its material structure and partitions. Politicality as social events that take place in the public sphere.

Sul tema l’autore kosovaro afferma:

Il teatro documentario è stato riscoperto e sviluppato da diversi autori teatrali che lavorano in una zona liminale tra teatro e realtà. I loro lavori hanno a che fare con eventi storici, luoghi e biografie di personaggi o con i più recenti fenomeni sociali. Ma la realtà non solo entra nelle rappresentazioni teatrali; sempre più i teatri scoprono la realtà e vanno alla ricerca di aspetti teatrali nella vita di tutti i giorni. Il classico spazio teatrale è rimpiazzato da strade, case, ristoranti, hotel, negozi. Al posto di attori professionisti, vanno in palcoscenico gli “esperti di tutti i giorni”. Gli eventi recenti dei Balcani sono pieni di storia volatile, memorie vivide, biografie interrotte che hanno ampio impatto sul lavoro teatrale dei registi e drammaturghi contemporanei. Dal 1990 non solo si sono confrontati con i nuovi linguaggi, nuove realtà sociali, nuove nazioni, ma anche da un lato con meccanismi potenti di eliminazione della Storia, dall’altro con il riscrivere narrazioni storiche e miti nazionali. Il palcoscenico diventa un medium per trovare nuovi modi per esprimere e per avere a che fare con questi cambiamenti.

Jeton Neziraj parla delle sue opere come di “tragicomedies of the absurd”: si impongono non personaggi ma stereotipi (il musulmano terrorista, la donna con il burqa). Nel suo teatro l’ironia può essere un’arma fenomenale per distruggere luoghi comuni, pregiudizi religiosi e convinzioni separatiste: la vedova di guerra si innamora dell’addetto all’ufficio Missing person dove era andata a denunciare la scomparsa del marito, l’uomo che fa indossare alla sua donna il burqa non la riconosce più, in mezzo a troppe donne velate, una zingara rimpatriata forzatamente dalla Germania con la famiglia, cade in una buca aperto da una delle tante ditte di costruzioni edilizie e combatte invano, per ottenere giustizia di fronte a burocrati kafkiani.
I suoi testi, dice, non sono direttamente atti di accusa politica, possono essere riferiti a diverse situazioni geografiche.
Ci diamo un appuntamento in un luogo veramente assurdo: davanti alla statua di Bill Clinton. Ci riconosciamo a distanza (potenza di facebook). Mi accompagna nel quartier generale della sua compagnia, Quendra Multimedia. Quendra significa Centro ed è in un “basement” molto popolare che Jeton usa per le prove da quando è stato allontanato dalla direzione del teatro per motivazioni politiche, legate ai suoi progetti di integrazione serbi-albanesi o più probabilmente alle sue critiche al fondamentalismo islamico. Jeton ha ingaggiato un carteggio pubblico con il Ministro della cultura che non ha valutato adeguatamente la sua posizione e molti artisti hanno firmato una petizione a suo favore senza però, ottenere alcun risultato.
Quendra è anche una casa editrice (ha pubblicato una bella raccolta di graphic novel di giovanissimi autori kosovari e vari volumi di saggistica), cortometraggi, produzione di spettacoli ed eventi (come l’International Theatre Meeting: New Plays and Theatre Forms, giugno 2011, con la presenza di Biljana Srbljanovic), ed è un centro per la traduzione in lingue europee delle opere di autori kossovari.
Molto utile il volume che elenca in più lingue i nomi dei più importanti poeti, scrittori e drammaturghi kossovari: Neue Literatur aus dem Kosovo (Nuova letteratura dal Kosovo).
Il titolo del testo che sanno provando è divertente They Flights on Pristina, più o meno Qualcuno volò su Pristina. Jeton mi dice che per il titolo si è ispirato al film Qualcuno volò sul nido del cuculo.
Intravedo la regista e alcuni attori, deve essere una commedia: una di loro mima i gesti di una depilazione con ceretta, un altro è seduto e sta mimando una bevuta eccessiva. Parlano in albanese e mentre Jeton mi è andato a prendere dei libri io faccio delle riprese. Jeton torna con una busta piena e penso che sono già al limite con il peso per l’aereo.
Mi dice che del teatro italiano conosce solo Romeo Castellucci, che apprezza moltissimo. Gli racconto quello che gli è capitato con l’ultimo lavoro rappresentato a Parigi e a Milano, ma era ovviamente bene informato.

Cos’è un teatro nazionale?

Al di là della struttura istituzionale che rappresenta, Jeton Nessiraj riflette, nei suoi saggi, sul ruolo e sul contenuto del programma che un teatro nazionale dovrebbe avere in uno Stato appena nato. Non ha dubbi sulla sua nuova identità:

Deve essere un teatro completamente autonomo nelle sue attività, un teatro che esprime le richieste e i bisogni del pubblico kosovaro, un teatro che riflette criticamente sul passato e sul presente, un teatro che affermi la cultura del Kosovo nel mondo e allo stesso tempo porti in Kosovo la ricca cultura teatrale mondiale. Un teatro che si riconosce con proprie estetiche, con un ruolo emancipato; un teatro aperto e pronto a vedere oltre i “National topics”, un teatro che diventa la voce dei deboli e degli oppressi.

Lungi dall’autoconfinarsi in un’isola (o in un ghetto) di passioni nazionalistiche, con repertori, temi e cliché modellati su un format nazionale di vecchio stampo e al di là di “patriottismi artistici”, la nuova identità del teatro sarà creata

con l’abbondante arsenale fornito dal passato. Il passato è come un magazzino inesauribile che fornisce quella nuova identità. Ma cosa prendere e cosa non prendere dal passato? E in che tipo di nuova confezione il passato sarà avvolto? Queste sono domande, dilemmi, sfide per il nuovo teatro.

Leggi la prima parte del reportage.

Anna_Maria_Monteverdi

2012-11-11T00:00:00




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