La tragedia del silenzio: La mite secondo César Brie

Pubblicato il 08/07/2014 / di / ateatro n. 150

Tra i lavori più recenti di César Brie è forse il più sorprendente. Dal labirinto psichico dell’inquietante protagonista della Mite di Dostoevskij, il maestro argentino ha saputo ricavare – e proprio addentrandosi nei meandri più notturni e misteriosi del testo – una drammaturgia della prossemica in cui lo sguardo stesso degli spettatori è attirato come in una danza di ipotesi interpretative destinate allo scacco. Nel dare corpo e voce a questa tragedia del silenzio, gli attori di Teatro Presente trasformano lo spazio scenico in un campo di tensioni trattenute, implose, rimosse, delineando una fenomenologia della distanza incolmabile tra due anime, un referto dell’incomunicabilità, della coazione a ripetere, della comunicazione disturbata dalla distanza sociale, anagrafica, esistenziale, intima.
Il lungo monologo originale, sviluppato dallo scrittore russo attraverso una travolgente analessi in cui l’usuraio ripercorre, di fronte al cadavere della giovane moglie suicida, una vicenda coniugale tormentata e oscuramente morbosa, diventa qui un serrato dialogo tra l’uomo e la donna, alla quale viene restituita la parola pur salvandone la dimensione più profonda, ovvero il suo pesare in absentia nella coscienza del marito. Divaricata e doppia è infatti la figura femminile quanto quella maschile: lei è fredda narratrice di sé e insieme punto di focalizzazione interna del racconto; lui è nel tormento del presente e insieme nell’angoscia della memoria. Entrambi sono sul labile confine tra la vita e la morte, tra la ragione e la follia. Lui proietta in avanti l’ombra della disperazione: «Finché lei è qui va ancora tutto bene, posso andare a guardarla ogni istante, ma domani che la porteranno via, come farò a rimanere da solo?» Lei disegna nel passato la sagoma di un’inquietudine che ha già la complessità – e il testo è del 1876 – della questione di genere, tanto più potentemente insidiosa e attuale in quanto ancora priva di sovrastrutture ideologiche. Il dialogo diventa dunque un duello tra due energie fisiche e mentali e nello stesso tempo un serrato confronto intrapsichico per entrambi. Una partita a quattro, con scarti improvvisi e interferenze sempre diverse, con slanci ambigui ed esitazioni moltiplicate dalle ombre sul fondo, dilatate dalle musiche di Pietro Traldi. La distanza tra rappresentazione e affettività è così, alla lettera, messa in scena.

La mite

A far da punto d’incrocio per le diverse tensioni in scena tra i protagonisti e a volte da fulcro delle rispettive schizofrenie è un pupazzo a grandezza naturale che Tiziano Fario ha modellato sulle fattezze di Clelia Cicero, compenetrata interprete della Mite. La bambola è il suo doppio silenzioso, il testimone muto del suo male, la parte remissiva di quest’anima in pena che si ritrae dallo scontro come dalla vita, perché «le persone buone e miti hanno paura di ferire». Ma è anche una altrettanto sofferta proiezione mentale dell’uomo (Daniele Cavone Felicioni), che non si dà pace e scava dentro di sé, cerca di darsi una ragione sulla prematura scomparsa della sposa, si tormenta e capisce, crede di capire, si confonde. Lei lo aiuta a ricostruire, descrive i fatti, aggiunge, conferma, tace. L’orfana ingenua diviene guida spirituale di una redenzione impossibile, di una ascesi nel rimorso. Gli lascia infine tutto il peso della propria assenza.
Come sempre in Brie la ricchezza metaforica dello spettacolo si fonda su un chiaro e coerente dispositivo di segni immediatamente leggibili. Gesti, azioni fisiche, relazioni con gli oggetti, posture che sublimano la partitura verbale e rivelano stratificazioni indicibili della vicenda. Un tavolo rettangolare – spostato, ribaltato, “abitato” dai due attori – diventa, per ingrandimenti successivi, la casa, il banco dei pegni, la stanza da letto, la finestra da cui lei si getta, il cortile su cui il gracile corpo si schianta lasciando solo un pugno di sangue che sboccia dalla bocca in forma di petali di rosa.

Daniele Cavone Felicioni è alle prese con un personaggio impossibile da accettare, disturbato e pernicioso, nei confronti del quale l’attore cerca di esercitare una pietas sempre smentita e sempre di nuovo ricomposta. Clelia Cicero trova nelle ottave più alte una varietà di timbri che va dagli acuti striduli, quasi a dare fisicità nella voce di testa alla dimensione psichica del personaggio, fino a sfumature ruvide e fiatate, con effetti perturbanti, in coerenza con il continuo ritorno del rimosso che anima l’intera storia e in funzione del suo innesco nell’immaginario dello spettatore. Senza mai separarsi l’uno dall’altro, fisicamente in contatto diretto o mediato dagli oggetti e dal pupazzo, gli attori giungono a modulare una sorta di sonata a due. Dai silenzi, vibranti di domande inespresse, s’intona il canto doloroso – e terribilmente attuale – dell’incapacità d’amare, dell’impossibilità di credere.




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