L’isola della pedagogia teatrale
Methodica. Festival internazionale di metodi di training teatrale a Venezia
Solo su unisoletta potremmo sperare di fare, lentamente, qualcosa di necessario per il teatro, per plasmare la coscienza teatrale. Lamara constatazione di Anatolij Vassiliev risuona in una sala gremita di giovani attori e addetti ai lavori in riverente silenzio, si sdoppia nelle voci delle interpreti che in simultanea traducono in inglese e in italiano, ritorna tra le rughe del maestro russo dal volto di jurodivij, uno di quei santi folli cari a Tarkowski e a Grotowski. Sembra una risposta alla provocazione lanciata da Jurij Alschitz pochi minuti prima: chiudere tutte le scuole di teatro, smetterla di alimentare illusioni ed errori, e provare a costruirne una sola, basata sul confronto e sulla trasmissione di tecniche diverse per affrontare le questioni che il fare teatro pone a tutti, ovunque. Ma limmagine evocata da Vassiliev sembra anche suggellare litinerario di questa quarta edizione di Methodika, il Festival internazionale di metodi di training teatrale, svoltasi proprio in unisola la Giudecca a Venezia e molto attenta agli aspetti delletica dellattore e della responsabilità dei processi pedagogici.
Jurij Alschitz.
Il nuovo appuntamento di questa specie di scuola itinerante che si propone, oltre che di diffondere conoscenze tra i professionisti del settore, anche di aprire discussioni nelle realtà di insegnamento e nel teatro stesso, è stato ideato dallEuropean Association for Theatre Culture (che raccoglie una serie di centri teatrali internazionali a Berlino, Stoccolma, Oslo, Milano) e dallAkt-Zent di Berlino, prodotto dalla Fondazione di Venezia con il patrocinio dellInternational Theatre Institut (UNESCO).
Sette giorni (dal 5 all11 novembre scorso) di workshop intensivi, incontri, spettacoli, dimostrazioni di lavoro, con allievi provenienti da sedici paesi e divisi in quattro gruppi paralleli affidati ad altrettanti maestri internazionalmente riconosciuti, quali Maria Horne, Adolf Shapiro, Rimas Tuminas e César Brie.
Quattro modi molto diversi di lavorare con gli attori, di confrontarsi con un testo, di costruire la scena, anche se, almeno per i primi tre, la matrice stanislavskiana è dichiarata e riconoscibile, come per lo stesso direttore Jurij Alschitz, proviene da un percorso che, attraverso Vassiliev e Malkovski, risale direttamente al fondatore del Teatro dArte di Mosca.
Ma Methodika non intende trasmettere un metodo, quanto piuttosto favorire un atteggiamento di ricerca e di apertura al teatro come esperienza, e insieme contribuire alla ricostruzione di un lessico e di una tradizione da condividere e da salvaguardare come prezioso giacimento di quelle conoscenze e competenze che per secoli hanno fatto vivere unarte oggi profondamente in crisi e a rischio di scomparsa o di definitiva omologazione commerciale.
Per questo Alschitz non ha mai invitato due volte lo stesso maestro. Nella prima edizione, che si svolse a Milano nel 1999 sul tema del rapporto tra la personalità dellattore e la dimensione dellensemble, cerano Frantisek Veres, Felix Müller, Virgilio Sieni e Oleg Koudriachov. Nelle due sessioni svoltesi a Stoccolma fu la volta di AnneLise Gabold, Gregory Hlady, Gabriele Vacis e di Vassiliev (2001, Energia e teatro) e poi di Vladimir Klimenko, Claudio de Maglio, Abel Solares, Thanos Vovolis e Giorgos Zamboulakis (2003, Il volto e la maschera dellattore).
Adolf Shapiro.
Nelle giornate veneziane allievi e maestri, artisti e intellettuali si sono invece confrontati sul tema del centauro, esplorando caratteri e tracce della centauristica teatrale. Un tema che, come ha sottolineato Adolf Shapiro nellincontro inaugurale, ci riporta alle questioni fondamentali del teatro, delle sue possibilità, della sua stessa natura: Porsi domande e cercare delle risposte è ciò che sostiene il nostro lavoro. Il teatro è una cosa strana: gli dedichi tutta la vita e insieme ti chiedi: Di cosa mi sto occupando?
Al lavoro con i maestri di Methodika
Accoppiati e incrociati in modo da consentire ai partecipanti di assistere anche ai corsi cui non erano iscritti, i laboratori sono stati condotti dai singoli docenti a partire da unindicazione testuale più o meno precisa: la Horne ha lavorato su Arthur Miller e sulla relazione tra il metodo Strasberg e le moderne neuroscienze, Shapiro su Così è (se vi pare) di Pirandello, Tuminas sul Gabbiano di Cechov, Brie sullOdissea. Sono, evidentemente, autori con i quali i registi invitati si sono già misurati.
Il Pirandello letto attraverso Stanislavskij di Shapiro risuona nelle diverse lingue utilizzate dagli attori, che il maestro incalza con richieste di concentrazione (Tenete questo sentimento quando entrate nel ruolo), di precisione (Per chi lo state facendo?), con esercizi di analisi delle relazioni tra i personaggi. Parla del drammaturgo siciliano come di una vecchia conoscenza, del suo teatro come di un paradosso antirealistico che va analizzato a partire dalla fine. Invita ad applicare la lezione di Stanislavskij: portare in primo piano gli elementi secondari e viceversa. Chiede di cercare in scena il nervo vivo, come il medico che per tentativi e domande individua il punto dolente. Il teatro vivo, spiega, comincia nel momento in cui metto il mio partner in scena nella condizione di dover decidere. Cita ancora Stanislavskij: se alla fine dello spettacolo, dietro le quinte, ti ricordi di come ha risposto il tuo partner, allora hai recitato bene.
Rimas Tuminas.
Tuminas offre una splendida lezione di costruzione della dilatazione cechoviana, ricavando dal capolavoro dello scrittore russo una mezzora di montato già definito negli intenti registici. Gli attori sono posti in una dimensione di partenza che fa il vuoto di riferimenti e sospende il tempo. Vengono invitati a guardare la casa, il giardino, i personaggi come qualcosa di lontano e morto. Su questa frattura che da una parte rinvia a un Gabbiano letto come un addio al Romanticismo, dallaltro sembra richiamare lesperienza autobiografica del regista nella Lituania post-sovietica Tuminas interviene con unopera di ricomposizione che non sana il conflitto (per lui alla base del teatro e della drammaturgia), ma lo piega alla forza tenera del teatro. Agli attori chiede perciò di ricominciare, per esempio proponendo loro di rimettere in piedi quella casa abbandonata, di ridarle vita: torneranno le persone che vi abitavano? Come vivevano? Forse le loro stanze avevano le tende ricamate, il verde vi entrava dal giardino. Comè oggi quella casa?
Se gli esiti del laboratorio di Maria Horne sono apparsi piuttosto deboli ma certo i risultati di un workshop non sono valutabili solo sulla base di una dimostrazione di lavoro il corso condotto da César Brie ha suscitato entusiasmi negli allievi e nello stesso insegnante. Il fondatore del Teatro de los Andes, che dopo lesperienza nel 2000 dellIliade sta allestendo in Bolivia unOdissea (dovremmo vederla in Europa già alla fine di questanno), ha chiesto agli allievi di produrre immagini a partire dal testo omerico per poi lavorare sulle sequenze selezionate e passate, lultimo giorno, attraverso la fase del montaggio. Con tutte le sorprese e i limiti imposti dal tempo limitato, Brie ha mostrato le potenzialità di una tecnica compositiva che muove dalle risposte degli attori e ne rispetta la centralità nello sviluppo creativo, anche a costo di un procedere più lento e incerto. Ma, come aveva detto il regista argentino iniziando il laboratorio, sperimentare è amare lerrore. Quando facciamo ricerca facciamo errori: in questi cinque giorni di lavoro cercheremo qualcosa, ma non è detto che la troveremo.
Per una centauristica teatrale
Un aspetto interessante di Methodica è lapertura interdisciplinare, la ricerca di dialogo con le altre arti, la poesia, le scienze. Tra gli ospiti delle serate alla Giudecca vanno ricordati Michele Abbondanza e Antonella Bertoni (in scena con lassolo Try); il duo jazz di Roberta Rigotto e Enrico Merlin; Vasilev e alcuni direttori di scuole e organismi internazionali che sono intervenuti sulle prospettive della pedagogia teatrale; Mariangela Gualtieri, Cesare Ronconi e Francesco Bonami che, insieme a chi scrive, hanno affrontato più specificamente il tema dellattore come centauro.
Centauristica, come ha spiegato Alschitz, è una parola che nemmeno esiste nel vocabolario. Il centauro è il volto del mondo contemporaneo: la nostra vita è già una vita da centauri, in cui si uniscono diverse nazionalità, diverse lingue, si mischiano la cultura alta e quella bassa. Il teatro deve essere il luogo in cui viene unito ciò che non può altrove essere unito. È nel teatro, dove si combinano la realtà e lirrealtà, che vivono i centauri: e sono queste nuove creazioni, nate dallunione di reale e irreale, che ci parlano. Laltra vita, che il teatro non rappresenta ma crea, ha bisogno di una nuova lingua e gli educatori devono aiutare una nuova generazione di attori a scoprire la propria natura polimorfa. Il performer come ponte tra mondi differenti, corpo meticcio, animale e divino, dionisiaco e apollineo. Un centauro che, secondo Vasilev, si muove in una terra di mezzo, nella zona dincontro fra il teatro narrativo e il teatro non narrativo, tra due istanze registiche e due fonti di energia, allincrocio tra la linea verticale e quella orizzontale.
Lattore è da sempre, ontologicamente, un centauro, nello stesso tempo persona e personaggio, maschera e volto, un ibrido di tecnica e di passione. Deve fingere la verità ed essere vero nella finzione, devessere capito ma anche creduto. Il sii spontaneo che fa scattare la trappola psicologica del doppio legame, e che blocca e inibisce i comuni mortali, è invece il punto di partenza dellattore, il suo kantiano dover essere quotidiano. Lattore esplora e governa il doppio e la doppiezza. È centauro o non è.
La questione è stata messa a fuoco a partire dal Settecento anche nei termini del paradosso dellattore, che da Diderot a Grotowski alimenta un dibattito centrale nella prassi e nella teoresi teatrali. Deve lattore provare veramente le passioni che interpreta in scena? E come spiegare tale trasporto emotivo in rapporto ai trucchi, alle tecniche, allesperienza, al mestiere? Si deve costruire il personaggio dallinterno, lavorando sui moti spontanei dellanima dellattore, come sostenevano Luigi Riccoboni e più tardi la tradizione grandattorale, o al contrario dallesterno, intervenendo sulla meccanica esteriore di un personaggio per provocare uno stato danimo corrispondente, come vorranno Diderot, Lessing e tanta ricerca teatrale novecentesca? Temi che, lungi dallessere esauriti, trovano oggi sviluppi inattesi nellavanzare dellibridazione tecnologica, della protesi multimediale, nel grande tema della marionetta e in quello della differenza animale, nei teatri delle diversità.
Centauro è il teatro stesso in ogni suo elemento. In quanto atto biologico e spirituale insieme. In quanto interfaccia tra attore e spettatore, performer e testimone. In quanto spazio nel quale tutto è come nella realtà, solo un po ingrandito (come doveva ammettere persino Riccoboni, paladino del teatro naturale), proprio come i centauri che per gli antichi possedevano tutti i pregi e tutti i difetti del genere umano, ma estremizzati.
César Brie.
Centauro è il teatro nel suo stare, oggi come nei secoli passati, ai margini della società, con un piede dentro, spesso in modo scandaloso, e un altro fuori, in un esilio volontario o coatto. Il teatro insieme divertimento e peccato, cultura e depravazione, proprio come gli eretici che nel Medioevo erano considerati metà cristiani e metà pagani e perciò raffigurati anchessi in forma di centauro.
Centauro è il teatro nella sua polarità di realismo e simbolismo, ben incarnate dallo stesso Stanislavskij, nel quale convivevano due anime eternamente in dissidio, secondo il celebre ritratto di Ripellino: quella del deteatralizzatore e quella del maestro di trucchi, linventore del sistema e lerede della tradizione ottocentesca con la sua brama di ciarpe e di travestimenti.
Un teatro senza regista?
Ma se lorizzonte è quello dellattore corpo-mente in scena, organicità irriproducibile anche nellepoca dellassolutismo tecnologico, corpo che pensa e mente che sente, cavallo e cavaliere insieme… che ne è del regista? Quale istanze pedagogiche rimettere in gioco? Che senso dare allambizione di Methodika di educare gli educatori perché la didattica teatrale diventi scienza?
Jurij Alschitz racconta (La matematica dellattore, Ubulibri, Milano 2004) di essere passato nel corso della sua carriera dallidea di regia come competenza negli effetti scenici, nei trucchi, a quella come messinscena di un proprio mondo nel quale far vivere anche altri (gli attori), fino a quella come organizzazione della vita interiore delluomo, cioè della vita altrui. Oggi, confessa, il senso della professione del regista gli sembra consistere nellorganizzare la primavera, ovvero nel creare le condizioni da cui ha origine la vita, e poi semplicemente nellosservarla e nel conservarla così comè. La missione del regista consiste nel creare un clima particolarmente adatto alla nascita di nuovi germogli, una stagione propizia affinché le cose nascano.
È, a ben vedere, limmagine di un regista-pedagogo, saggiamente maieutico e consapevole delle proprie responsabilità nello sviluppo delle qualità degli attori come di quelle nei confronti del Teatro come casa comune. Su questultimo aspetto Alschitz insiste anche nelle conclusioni del suo recente Teatro senza regista (Titivillus, Corazzano 2007): Grazie al lavoro in Europa, Asia, America del Sud e del Nord, mi sono sincerato di persona (e non sui libri) che il teatro è uno solo. Gli attori, i registi, le scuole teatrali, le tradizioni sono molto diversi, e tuttavia si crea limpressione che si tratti di un unico teatro. Un cosmo enorme dove vivono tutti insieme pianeti dissimili. Ununità di dissimili. Tutti gli opposti (Est-Ovest, classicità-avanguardia, vecchi-giovani) non hanno senso. Il Teatro è un organismo unitario con problemi comuni. È un fatto collettivo e si costruisce insieme. Tutti noi insieme siamo una sola compagnia. Insieme dobbiamo costruirlo e insieme a lui dobbiamo vivere.
Il regista-pedagogo, dunque, è anche un pedagogo-regista, nel senso che sa assumere il carico di responsabilità derivante da tale visione unitaria del teatro, a cominciare dalla necessità di uneducazione permanente degli attori. Non a caso Methodika si propone esplicitamente come occasione per scoprire limportanza di tornare, a quarantanni, giovani studenti per una settimana. In questo senso, Methodika è davvero fedele alla linea stanislavskiana che, come testimonia Toporkov (in Stanislavskij alle prove. Gli ultimi anni, Ubulibri, Milano 1991), non mancava di richiamare al dovere dello studio: Ricordate: tutti gli attori esigenti e di valore devono tornare a studiare a intervalli regolari, diciamo ogni quattro-cinque anni. Bisogna anche reimpostare la voce, che col tempo subisce mutamenti, e fare pulizia della sporcizia accumulata, intendo per esempio la civetteria e il narcisismo. Dovete allargare giornalmente i vostri orizzonti culturali e tornare a studiare per almeno sei mesi a intervalli di tempo regolari. Adesso è chiaro il compito che vi attende? Lo ripeto: non pensate allo spettacolo ma solo allo studio.
Fernando_Marchiori
2008-02-02T00:00:00
Tag: Cesar Brie (8), formazione (34), pedagogiateatrale (14)
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