Il Vangelo secondo Pippo Delbono

La forza persuasiva della verità

Pubblicato il 01/02/2016 / di / ateatro n. 157
Pippo Delbono, Vangelo

Pippo Delbono, Vangelo

Vangelo, il nuovo spettacolo di Pippo Delbono, ha la forza persuasiva della verità. Non di una verità rivelata, come potrebbe far pensare il riferimento a un testo, quello evangelico appunto, così come è stato inteso e asservito dalla tradizione ecclesiatica e clericale, ma della verità esistenziale e dei fatti. I quali, naturalmente, per essere percepiti nella loro realtà, hanno bisogno di essere “messi in forma”, filtrati da un montaggio delle emozioni, come direbbe uno dei riferimenti artistici di Delbono, Eugenio Barba. (Anche se la sua vera maestra è stata Pina Bausch, evocata nella prima scena, quasi una dedica alla memoria.)
E com’è nello stile di Delbono la messa in forma è realizzata in uno spettacolo grandioso, direi wagneriano se l’aggettivo non richiamasse una fastosità storico-mitologica qui assente, frutto della collaborazione con il Teatro Nazionale Croato di Zagabria e previsto anche in una forma esclusivamente musicale. Ma di musica ce n’è molta anche in questa versione teatrale, in prima nazionale all’Argentina di Roma. Anzi la musica, curata con Enzo Avitabile, autore anche di brani originali, avvolge tutto lo spettacolo, ne è l’elemento unificante. Musica alta e bassa, da Schumann a Jesus Christ Superstar, da Mozart ai Rolling Stones a De André, in una mescidanza di generi e toni caratteristica dell’artista ligure, che qui dirige fellinianamente la sua compagnia perfettamente amalgamata con quella di Zagabria, in un grande spazio delimitato in fondo da un muro a mezza altezza, di volta in volta schermo per inserti filmati, semplice fondale, parete lungo la quale gli attori possono stagliarsi in molteplici travestimenti (cardinali diavoli hippies danzanti ecc.), luogo di supplizio. Non a caso un critico avvertito come Gianfranco Capitta ha parlato di un cammino verso l’opera d’arte totale.

Pippo Delbono, Vangelo

Pippo Delbono, Vangelo

Qui Delbono, come suo solito ma forse più del solito, scende in platea, risale sul palcoscenico, danza, con quel suo modo caratteristico, un po’ infantile, agile e goffo insieme, si espone in prima persona recitando i suoi affetti e, come un Prospero sofferente, dirige e accosta i vari frammenti di cui consta lo spettacolo. Una sorta di reperti che Delbono ha cercato, incontrato, scovato, inventato nella volontà di esaudire una richiesta della madre morente: quella di fare uno spettacolo sul Vangelo “così dai un messaggio d’amore. Ce n’è così tanto bisogno di questi tempi.” Frammenti che, prendendo risalto e significato nel montaggio, mirano tutti a un’unica meta: il superamento di un’educazione cattolica tradizionale, repressiva e penitenziale, come tutte le educazioni religiose, quindi anche ingenerosa verso la potenza stessa del cosiddetto “creato”, verso la realtà della condivisione della sofferenza, che è poi il vero e unico insegnamento di Gesù di Nazareth (Ivan Illich sosteneva che l’essenza del cristianesimo era tutta compendiata nella parabola del buon Samaritano, cioè di un infedele che si prende cura di uno sconosciuto bisognoso…).
Ecco allora che Vangelo declina in varie forme, spesso anche quelle del teatro di varietà intrecciate con momenti dell’attualità più tragica, una ricerca non dell’assoluto o del senso, cose astratte e manipolabili, bensì dell’amore e della libertà dell’amore. Della santificazione attraverso l’amore, che poi è, appunto, il nucleo del vangelo.

Pippo Delbono, Vangelo

Pippo Delbono, Vangelo

Per questo parlavo prima di forza persuasiva della verità dei fatti. Solo nella concretezza della scena, nella confessione non simulata ma recitata, nella realtà di Bobò, Nelson, Gianluca, nelle storie dei disperati che incontriamo quotidianamente e che ci è comodo esorcizzare come emergenza o come cliché, nel disprezzo per il “bello” sano e banale e nella costruzione di un bello che invece esprima partecipazione anche fisica, insomma nell’ aspirazione a una bontà che sappia immedesimarsi trasformandosi in amore può emergere la verità che si nasconde dietro le apparenze del quotidiano. Rovesciando la prospettiva e santificando gli emarginati e i reietti, come in Genet, ma senza compiacimento estetizzante e con evangelica capacità di farsi bambino.
In questo senso, e solo in questo, credo che si possa dire che alla base di questo spettacolo, come di altri di Delbono, ci sia una sorta di sentimento laicamente religioso. E forse è questo aspetto che può dispiacere a spettatori disincantati, che confidano nella capacità di raggiungere certezze e per i quali può essere molto ostica questa affermazione di Delbono:

“Siamo come viaggiatori sperduti che cercano di capire qualcosa senza riuscirci. (…) Nel nostro cervello ci sono cose di cui non siamo consapevoli; poteri che non abbiamo ancora riconosciuto; la fede si muove in questo spazio.”




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