A Kilowatt, dove lo spettatore diventa attore: intervista a Daniele Bartolini

The Stranger spettacolo per un solo spettatore in cerca di identità

Pubblicato il 06/08/2016 / di / ateatro n. 158

“È tempo di risplendere” a Sansepolcro, dove gli spettacoli del Festival Kilowatt brillano come le stelle in cielo. Uno sguardo retrospettivo all’edizione appena conclusa non può non cominciare dalle parole di Amelia Rosselli che danno il titolo al festival, e sono riverberate dalla voce di Mariangela Gualtieri nelle incisioni sonore trasmesse, ogni sera prima degli spettacoli, in Piazza Torre di Berta. Sono parole che ovattano di poetica bellezza la città di Piero della Francesca, trasformata dalla vivacità pervasiva delle offerte artistiche accolte per l’occasione.
Tantissime le proposte di questa edizione, dislocate in vari spazi del centro storico, interni ed esterni: teatri, sale, piazze, parcheggi, chiese, cortili, biblioteche, torri… Un’edizione curata artisticamente anche quest’anno da Luca Ricci, che fa gli onori di casa accogliendo il pubblico all’entrata di ogni spettacolo con una breve introduzione.
Come nel gioco “unisci i puntini e otterrai una figura”, nella molteplicità di stelle è possibile disegnare delle traiettorie per individuare costellazioni differenti, tra teatro, danza, musica…
Se il tema dell’identità è nel cuore pulsante dell’arte teatrale, sono molti lavori presentati in questa edizione a ricordarlo. Playing Identities è un progetto di network guidato dall’Università di Siena con altri partner europei, con l’intento di indagare attraverso le arti performative le basi dell’identità culturale dell’Europa. A Sansepolcro si sono visti alcuni interessanti esiti, come Kamyon del regista belga Michael De Cock e con in scena Alice Spisa, dove il concetto di identità si svela imprescindibile da quello di estraneità, in particolare l’essere straniero del migrante che vive nel viaggio l’esperienza di disgregazione della propria identità. E’ un viaggio che gli spettatori compiono insieme alla protagonista proprio all’interno dello spazio claustrofobico dell’autocarro.

The Stranger, foto di Luca Del Pia

The Stranger, foto di Luca Del Pia

Ma a parlarci di identità è soprattutto The Stranger ideato e diretto da Daniele Bartolini con Chiara Fontanella, Danya Buonastella, Rory de Brouwer e Nicole Dufoe.
Ideato per uno spettatore alla volta, The Stranger coinvolge attivamente in un percorso attraverso luoghi e incontri a cui ci si deve abbandonare ciecamente. Il primo atto di fiducia all’inizio dell’avventura è accettare di essere letteralmente bendati e accompagnati attraverso spazi ignoti al primo incontro; poi il coinvolgimento e la curiosità spingono a proseguire con la scoperta di nuovi luoghi e nuovi incontri. Si tratta di una formula performativa che, in molteplici varianti, è sempre più sperimentata e denota la tendenza odierna a concentrarsi sul ruolo attivo dello spettatore. Un recentissimo caso è di L’uomo che cammina di Dom, visto quest’anno al Festival di Santarcangelo (si rimanda qui al racconto di Massimo Marino che lo elegge a spettacolo esemplare del Festival). E anche ad affacciarsi oltreoceano si possono trovare altri casi di coinvolgimento totale dello spettatore come ad esempio Sleep no more di Felix Barrett e Maxine Doyle in voga da un po’ di anni a New York. Ma l’attivazione dello spettatore, anche al di fuori della partecipazione agli spettacoli, sembra essere la caratteristica di Kilowatt che, per quattro anni, dal 2014 al 2018, promuove il progetto europeo Be SpectACTive!. Tra le molte attività incluse nel progetto c’è anche la creazione di 34 gruppi in otto città europee di spettatori attivi – perciò definiti Visionari – non professionisti dello spettacolo, che scelgono le opere da presentare nel proprio teatro o festival di riferimento, in modo da creare un vero e proprio processo di programmazione culturale condivisa.
Se la partecipazione a The Stranger chiede dialogo e relazione, probabilmente il modo migliore per entrare nel lavoro, di cui si può avere solo un’esperienza ‘privata’, è parlarne con chi lo ha ideato e realizzato. Per cui abbiamo chiesto a Daniele Bartolini di parlarcene. The Stranger arriva in Italia per la prima volta, dopo essere già stato presentato all’estero; ed è frutto del lavoro della compagnia DLT – DopoLavoroTeatrale che Bartolini ha fondato nel 2006 a Firenze e trasferito nel 2012 a Toronto, città dove vive e lavora.

The Stranger, foto di Luca Del Pia

The Stranger, foto di Luca Del Pia

Per prima cosa: come è nata l’idea di The Stranger?

The Stranger è nato da una vera e propria intuizione. Un giorno mentre camminavo per strada e guardavo i passanti ho pensato: “Eccolo qua lo spettacolo. Un solo spettatore che si muove per la città senza sapere dove andrà e chi incontrerà”.
Al tempo stesso lo spettacolo nasce da un mio profondo senso di frustrazione nei confronti di molto teatro contemporaneo in cui troppo spesso si ignora lo spettatore. Allora mi sono detto: trasformiamo il pubblico in attore, per davvero, nel senso di agente, mettiamolo vicino all’artista, facciamolo divenire il protagonista di un’esperienza, di un viaggio. Spesso il teatro è troppo autoreferenziale, comprensibile solo gli addetti del settore; il pubblico e l’artista sono troppo separati l’uno dall’altro. The Stranger è un esperimento volto a ristabilire un dialogo tra spettatore e artista. E’ un tentativo di reimmaginare il teatro; di portarlo versi nuovi luoghi, proprio nel senso letterale del termine. E cercare di ridefinirne i confini. Il progetto nasce dall’esigenza di offrire al pubblico un’esperienza che non sia filtrata da un palcoscenico o da uno schermo. The Stranger è un’esperienza diretta, immediata.

Sei italiano, toscano, e da anni vivi e lavori a Toronto. Cosa c’è in The Stranger della tua esperienza di ‘emigrato’ – se possiamo usare ancora questo termine in un mondo globalizzato – in Canada?

Moltissimo. Sotto certi punti di vista The Stranger, lo straniero sono io. La mia esperienza di migrazione, in questo tipo di lavoro, è fondamentale sotto molti aspetti. Per esempio, c’entra nel fatto che in una nuova cultura, per comunicare, mi sono dovuto reinventare e ho dovuto pensare a qualcosa di veramente nuovo e diverso. C’entra anche perché mi sono ritrovato, in prima persona, a camminare da solo, a vagare per le vie di una città che non conoscevo, a perdermi, esplorare ciò che mi stava attorno, esattamente come accade ai partecipanti di The Stranger.
E soprattutto c’entra il mio essere ‘straniero’. Non solo verso l’esterno e gli altri ma anche, e forse soprattutto, verso l’interno, me stesso, verso ciò che ignoro di me e ciò che ho scoperto viaggiando. E dei miei cambiamenti. Adesso sotto certi punti di vista mi sento uno straniero anche quando torno in Italia, perché non appartengo più completamente a questo luogo. Questo concetto, quello dello straniero, della non appartenenza, ha un ruolo chiave nel mio lavoro. L’immigrato, l’outsider è colui che vive le cose dall’esterno, il diverso che vive in continuo mutamento e che restituisce un punto di vista altro.
Allo stesso modo The Stranger è un tentativo, un mio desiderio di uscire dal teatro (non solo fisicamente), dai suoi luoghi conosciuti e esplorare nuove possibilità, ricollocandomi in una terra di confine e in territori artistici che non conosco e non mi appartengono, in cui io stesso sono straniero. Tutto ciò si traduce proponendo allo spettatore un viaggio di scoperta nel quale essere stranieri verso se stessi, nel quale stupirsi di se stessi e auto meravigliarsi, attraverso una serie di inviti a partecipare in azioni che non appartengono al quotidiano.

Confesso che durante il percorso mi è capitato di pensare anche alle possibili reazioni di altre persone e avrei desiderato avere una telecamera per riprenderle. Hai delle osservazioni da svelarci sulle reazioni del pubblico?

Ognuno vive l’esperienza in un modo completamente diverso. Attraverso gli spettacoli propongo delle strutture aperte dove ognuno si possa esprimere. Ciò che amo di più di questo lavoro è che se parlo con cento spettatori, una volta finita la loro esperienza, mi riportano esattamente cento osservazioni diverse. Notano cose differenti nelle scene, ognuno vede quello che altri non vedono. É come se lo spettacolo fosse uno specchio. Si tratta solo ed esclusivamente di te stesso. Per questo, anche se non amo molto questo tipo di definizioni, chiamo queste esperienze “Audience Specific”, in quanto differiscono dagli spettacoli Site Specific o Immersive Theatre. Se il teatro Site Specific crea uno spettacolo specificamente per un luogo, io costruisco il mio lavoro specificamente per ogni spettatore.
Per tornare alla telecamera di cui parlavi tu per registrare le reazioni, comprendo bene questo desiderio, ma ho deciso di non farlo perché la telecamera influenzerebbe le reazioni del pubblico e agirebbe in negativo sulla loro spontaneità. All’inizio seguivo il pubblico da lontano con una bici per cercare di carpire le loro reazioni. Poi ho smesso, perché è giusto che l’esperienza rimanga un tuo segreto e io non ne sappia niente.

Probabilmente ogni luogo può svelare la sua anima. Una cosa a cui si riflette soprattutto nell’ultima tappa dove, forse nella torre più alta della città, si è sorpresi da una vista di Sansepolcro da mozzafiato. Puoi dirci qualcosa sulla specificità del luogo di Sansepolcro che immagino possa aver influenzato alcune scelte tematiche o drammaturgiche anche rispetto ad altre location già sperimentate?

Sansepolcro, come ogni altro luogo in cui ho presentato The Stranger ha influenzato enormemente il lavoro. Ogni volta che allestisco The Stranger, il risultato è uno spettacolo completamente diverso. Si tratta infatti di un ‘format’, non solo di uno spettacolo. Ogni volta il luogo, gli artisti e soprattutto il pubblico, il loro gusto e cultura cambiano. Anche le singole scene, che io preferisco chiamare interazioni, variano a seconda del luogo. L’unico presupposto è che il pubblico abbia una serie di incontri intimi con sconosciuti e che si muova (e magari si perda) esplorando la città. Ovunque vado cerco di svelare l’identità del luogo o perlomeno di restituirne un’immagine, una sorta di ritratto.
La scelta delle location è fondamentale. Vorrei tra l’altro approfittarne per ringraziare tutta la squadra di Kilowatt che mi ha aiutato moltissimo nella scelta delle location e dei collaboratori. Hai usato la parola sorpresa, che anche io amo molto: cerco sempre di portare i pubblico in luoghi che siano interessanti sia per le persone che vengono da fuori che per quelle del posto. E’ un’occasione per scoprire un po’ di più la propria città, di vederla con occhi diversi, di modo che lo spettacolo diventi anche un veicolo per scoprirne i luoghi nascosti.
Sansepolcro è un piccolo borgo, quindi puoi immaginare come cambi tutto rispetto una metropoli come Toronto o Mumbai. Doveva essere tutto più dolce e intimo del solito. Poi, logicamente, essendo in Italia, lo spettacolo è diventato un po’ un elogio all’arte e alla bellezza. Per la prima volta per esempio ho proposto un’interazione musicale e una pittorica. Allo stesso modo, non avendo a disposizione dei performer stranieri, ricercavo comunque delle barriere linguistiche e per questo ho scelto di lavorare con Paola Mastrapasqua, l’artista non udente.
Infine nell’ultima scena lo spettacolo terminava con una domanda un po’ personale, che ho sentito al momento del ritorno in Italia: “Vado via di nuovo o resto qua?” La tentazione c’è.

Come ti poni rispetto alla particolarità del ‘format’ proposto, anche rispetto alla tua formazione o alla poetica a cui tendi? È una forma artistica espressiva molto diffusa in questo periodo, che si serve di un approccio sia documentaristico che performativo, capace di assemblare verità e finzione, e di mettere in crisi le categorie rappresentative consolidate del teatro.  

Io cerco di prendere un po’ di distanza da tanti esperimenti odierni. Ritengo che il mio lavoro presenti una dinamica e una metodologia diversa. Mi capita spesso di sentire o andare a vedere spettacoli descritti come interattivi e vedo che ripropongono spesso la solita dinamica spettatore attore che si trova in palcoscenico. Credo che sia anche un po’ una moda verso l’interactive e site specific e questo ha generato un nuovo manierismo. Questo lavoro intende esplorare un lessico nuovo e una nuova metodologia lavorativa e produttiva. Sto cercando di mettere in discussione molti dei fondamenti del teatro, dalle prove alla drammaturgia, dal ruolo dell’attore a quello dello spettatore. La base della mia poetica è il pubblico e tendo a un incontro vero con le persone con cui lavoro. Parto da loro, non da un’idea che ho in mente a priori. Tutto accade nel momento, esattamente come nello spettacolo. Credo che questo aiuti anche gli attori a non essere degli esecutori ma ad occuparsi di generare un accadimento in scena, come dovrebbe succedere in teatro e spesso non avviene perché si tende a ripetere una cosa morta.
Penso anche che trovare delle vie alternative sia una forma molto diffusa oggi così come ricercare un contatto diretto con il pubblico perché la nostra società sta andando sempre di più in questa direzione. Abbiamo girato la telecamere verso noi stessi. Ormai non vogliamo soltanto che ci venga raccontata una storia, vogliamo essere parte del racconto stesso. Bisogna trovare nuovi modi per il teatro perché il mondo è cambiato molto. E’ tempo di reinventarsi. Se a un certo punto è stato necessario distruggere un linguaggio, adesso è il momento di ricostruire prima di tutto il rapporto con il pubblico. Perché, alla fine, se è vero che sperimento la messa in crisi dei meccanismi della rappresentazione del teatro, cerco soprattutto un riavvicinamento sincero con il pubblico. Semplicità e immediatezza.




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