Il teatro agli Oscar 2022

Le candidature di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi

Pubblicato il 26/03/2022 / di / ateatro n. 182

Il teatro, come sappiamo, è spesso presente al cinema, con varie forme e modalità, in un continuo dialogo tra le due forme d’arte.
Però è curioso che quest’anno tra i film più interessanti che si contendono a Hollywood la mitica statuetta ci siano almeno due pellicole che pongono in maniera radicale il rapporto tra questi due mondi. E andrebbe aggiunta la commossa e acuta riflessione su Eduardo Scarpetta di Mario Martone in Qui rido io, dove il teatro si rivela prima di tutto nella dimensione esistenziale, nella sua irriducibile diversità antropologica.

Qui rido io

È stata la mano di Dio

Il candidato italiano alla miglior pellicola straniera, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, per certi versi rende omaggio ai Vitelloni, ovvero alla giovinezza lontano dalla capitale. Il film di Fellini si conclude quando uno dei protagonisti, Moraldo, abbandona Rimini per tentare di costruirsi un destino altrove, presumibilmente a Roma, magari nel cinema, anche se forse il vero doppio del regista è Guido, che nell’ultima immagine vediamo camminare in equilibrio sulla rotaia.
Nella autofiction cinematografica di Paolo Sorrentino, c’è un’esplicita citazione di Fellini, quando il fratello del protagonista Fabio partecipa a un provino perché a Napoli è arrivato il celebre regista romagnolo. Fabietto (Filippo Scotti) vuole sapere che gli è successo. Ovviamente Marco (Marlon Joubert) non viene scritturato, ma racconta un episodio di cui è stato testimone.

MARCO: «A un certo punto lo chiama un giornalista, e Fellini gli dice: “Il cinema non serve a niente! Però ti distrae”, e secondo me il giornalista gli ha detto qualcosa tipo: “Ti distrae da che cosa?”. E Fellini gli fa: “Dalla realtà, la realtà è scadente”».
FABIO: «Solo questo ha detto?».
MARCO: «E ti pare poco…»

E stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino: Sophya Gersehvich (photo Gianni Fiorito)

Due scene chiave di questo romanzo di formazione” sono ambientate in teatro. Nella prima, il protagonista Fabietto Schisa assiste a una prova in una saletta off della città e resta affascinato dalla goffa ma intensa interpretazione di Yulia (Sofya Gershevich), una giovane attrice che arriva dall’Est Europa, in una scena che richiama l’esilarante incursione nell’off romano di Io sono un autarchico di Nanni Moretti (1976). Nonostante l’inadeguatezza dello spettacolo e gli ingenui, enfatici slanci della bella attrice, l’adolescente resta incuriosito e turbato da quella presenza, e da quella possibilità d’espressione.
Tanto è vero che in quel teatro, e per rivedere Yulia, ci torna, alla fine del film. Ma la performance viene interrotta da un irato spettatore, il regista cinematografico Antonio Capuano (nel ruolo di sé stesso), che evidenzia i limiti di quell’esperienza. Fabietto, che aveva già visto Capuano sul set sotto la Galleria Umberto I, lo raggiunge fuori dal teatro, per il dialogo che chiude il film e questa educazione sentimentale.

FABIO: “Capuano, sono Fabietto Schisa”.
CAPUANO: “E a me che me ne fott, chi te sap”.
FABIO: “Sono un suo grande ammiratore”.
CAPUANO: “A me gli ammiratori me stanno ‘ncopp’ ‘o cazz. A me piace il conflitto, hai capito guaglio’. Senza conflitto non si progredisce. Senza conflitto è solo sesso, e il sesso non serve a niente”.
FABIO: “Dove va, aspetti un attimo”.
CAPUANO: “Ma stai ancora ‘cca? Ma che guard’ affa?”.
FABIO: “Niente, guardare è l’unica cosa che so fare”.
CAPUANO: “Ma te ne vuoi ji’ si o no, ma da me che bbuo’?”.
FABIO: “Cosa voglio? Tutto! Tutto, quello che ha detto a teatro, io sono sconvolto, non pensavo che si potesse fare a teatro, che uno si alza e si mette a protestare”.
CAPUANO: “E infatti non si fa, sono io che faccio ‘o cazz che me pare, io so’ libero. Tu si libero?”.

FABIO: “A questa domanda preferirei rispondere più avanti”.
CAPUANO: “O ttien nu poco ‘e curagg’?”.
FABIO: “Ce l’ha qualche domanda meno impegnativa, magari?”.
CAPUANO: “Ricordati, chi non tiene ‘o curagg’ nun se cocc’ ch’ femmen bell”.
FABIO: “Senta, Capuano, la vita ora che la mia famiglia si è disintegrata, non mi piace più. Non mi piace più ne voglio un’altra, immaginaria, uguale a quella che tenevo prima. La realtà non mi piace più, la realtà è scadente. Ecco perché voglio fare il cinema, anche se avrò visto al massimo 3 o 4 film”.
CAPUANO: “Nu’ bast, Schisa, nu’ bast’. O’ cinema, vonno fa tutti quant’ stu cazz ‘e cinema, ma pe’ fa’ cinema ce’ vonn ‘e ppall. E tu ‘e ppall e ttien’ uagliò?”.
FABIO: “Ho fortissimi dubbi”.
CAPUANO: “E allora si nu ttien ’e ppall, te serve o’ dolore. O tiene u’ dolore?”.
FABIO: “Si gliel’ho appena raccontato, su quel fronte sto messo bene”.
CAPUANO: “Mmm e cosa mi hai raccontato? Un dolore? No no, tu non tieni nisciun dolore, tu tien’ ‘a speranza. E ‘a speranza fa fare film consolatori. La speranza è una trappola”.
FABIO: “Mi hanno lasciato solo, Capuano, e questo si chiama dolore”.
CAPUANO: “Nun basta Schisa! C’hann lassato soli a tutti quanti. Tu sei solo? Non me passa manco po’ cazz’, perché tu non sei originale. Sient’ a mme: dimentica il dolore e pensa solo a te diverti’, accussì hai fatto il cinema. Però e tene’ coccos ’a dicere. A tien’ a coccos a dicere o no? Perché vedi, la fantasia, la creatività, so falsi miti che nu servon a nu cazz'”.
FABIO: “Non lo so se ho qualcosa da dire, come si fa a capirlo?”.
CAPUANO: “Boh, e io che cazz ne sacc’? Je teng quatt cose a dicer’, solo quatt. E tu?”.
FABIO: “Non lo so, pensavo di andare a Roma a fare il cinema, così capisco se ci sono tagliato”.

E’ stata la mano di Dio

CAPUANO: “A Roma? La fuga? So palliativ’ ro cazz! Alla fine torni sempre a te schisa, e torni qui, al fallimento, perché è tutto un fallimento, è tutta una cacata, hai capito o no? Nessuno inganna il proprio fallimento, nessuno se ne va veramente da sta città. Roma? Che cazz’ ci vai a fa a stu Roma? Sul ’e strunz vann a Roma! Hai visto quante cose da raccontà ce stanno int’ a sta città. Guarda, guarda… Ma è mai possibile che ‘sta città non te fa veni in mente nient’ a raccuntà? Insomma Schisa la tien’ coccos a ricer’? O si nu strunz come tutti quant’ llate? A tiene na cos’ a raccuntà? Forza, curaggio. A tiene o no n’a cos’a raccunta? Tien’e’ o coraggio roo ddicere. E te vo movere o no?”.
FABIO: “Sì sì”.
CAPUANO: “E dimmell’”.
FABIO: “Quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”.
CAPUANO: “Non ti disunire Fabio”.
FABIO: “Mi chiamano tutti Fabietto”.
CAPUANO: “È ora che ti fai chiama’ Fabio, non ti disunire”.
FABIO: “Ma che significa?”.
CAPUANO: “Ll’e a capi’ tu solo, ll’e a capi’ tu solo, sfaccim’. Non ti disunire schisa, non ti disunire mai, Schisa, non te ‘o ppo permetter…”.
FABIO: “Che significa, perché?”.
CAPUANO: “Perché non ti hanno lasciato solo, no, t’hann ’abbandunat… Sient’a me non ci andare a Roma, vienem’ a truvà, me truov’ sempre cca. Accusi facimm ‘o cinema, uaglio’…”

Da questo dialogo, dalla decisione di abbandonare il teatro per il cinema, dalla scelta di restare a Napoli per vivere le sue contraddizioni, nasce il cinema del futuro Premio Oscar, anche se Sorrentino vincerà la prestigiosa statuetta per un film straordinariamente romano – anzi, una dichiarazione di odio-amore per Roma – come La grande bellezza.
Per il regista è in gioco il rapporto della realtà con le arti, e precisamente con due arti della rappresentazione come il cinema e il teatro. L’arte è uno strumento per evadere dalla realtà, per inventarsi un mondo diverso, o invece serve a penetrare più profondamente nella sua carne viva, metterne a nudo le pieghe più segrete e dolorose? E allora, per raggiungere questo duplice e ambiguo obiettivo, è più efficace il cinema o il teatro?

Drive My Car

Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi è l’adattamento cinematografico di tre racconti di Haruki Murakami pubblicati in Uomini senza donne (Einaudi, Torino, 2014), a partire da quello che dà il titolo alla raccolta. Nel lungo prologo (41 minuti prima dei titoli di testa) conosciamo Oto, una sceneggiatrice che concepisce le sue storie mentre fa l’amore. Yūsuke Kafuku, suo marito, è regista e attore: dopo una replica di Aspettando Godot, le presenta un suo collaboratore, il giovane attore Kōji Takatsuki. Yūsuke li scopre mentre fanno l’amore, ma prima che ne riesca a parlare con sua moglie, lei muore all’improvviso.
Qualche tempo dopo, mentre sta portando in scena Zio Vanja, Yūsuke crolla e deve abbandonare il progetto.
Passano due anni e ha un’opportunità di lavoro in provincia. Lascia Tokyo e va a Hiroshima per una residenza: dirigerà un adattamento multilingue di Zio Vanja, con attori di diverse provenienze. Come spiega lo stesso Ryūsuke Hamaguchi,

Cechov e lo Zio Vanja sono ovviamente fondamentali nel racconto di partenza. Leggendo Murakami si capisce come il personaggio di Vanja abbia una corrispondenza narrativa ed emotiva con Kafuku, il protagonista della storia. Entrambi devono cominciare una nuova vita dopo aver terminato quella precedente senza aver rivolto alla persona che amavano le domande che più contavano. Nel film, poi, Cechov assume un’importanza ulteriore per il fatto che al cinema non è possibile raccontare in prima persona e dunque mi servivano le battute del suo testo per comunicare l’intimità dei personaggi. Molte di queste battute sono già nel racconto di Murakami e credo siano una delle prove della grandezza di Cechov, la sua capacità di far dire ai personaggi cose che illustrano l’essenza della vita e che nel quotidiano nessuno di noi ha la possibilità o la libertà di dire apertamente.

Sono tantissimi i film, anche hollywoodiani, che usano le prove di uno spettacolo (magari di un musical) per raccontare drammi e commedie di attori ed attrici, e magari registi, giocando sul fatto che “tutto il mondo è teatro”, come sapeva benissimo anche Shakespeare. Per Hollywood il teatro è spesso lo scenario che ispira drammi dell’ambizione, della rivalità, ambiguità, conflitti.
Drive My Car non racconta una tradizionale messinscena, piuttosto un percorso laboratoriale, quasi una residenza: il precedente più illustre è Vanya sulla 42esima strada (1994) di Louis Malle, su sceneggiatura di David Mamet (e progetto di André Gregory).
Al centro della pellicola c’è la capacità del teatro – e di Cechov – di aiutarci a guarire le ferite della vita. Seguiamo i provini per selezionale gli attori, compresa, in uno dei momenti più toccanti del film, un’attrice che usa la lingua dei segni.

Drive My Car

Seguiamo il protagonista in macchina, dal teatro alla sua residenza, con la sua autista, la giovane e riservata Misaki Watari: spesso riascoltano il testo di Cechov nella lettura che aveva preparato Oto.
Come ha spigato Hamaguchi,

In Drive My Car ci sono due tipi di silenzio: uno legato al linguaggio dei segni, e dunque in grado di comunicare, e un altro che segna il rapporto fra Kafuku e Misaki. Le loro conversazioni si fanno sempre più rade mano a mano che si conoscono e nel finale, durante il lungo viaggio verso nord, arrivano a capirsi quasi senza parlare. È il loro silenzio a indicare la profondità del loro legame e in qualche modo a farsi anch’esso una forma di comunicazione.

Nel caso di Drive My Car, il teatro – o meglio quella residenza a Hiroshima – è salvezza e dannazione. Per Kōji, che ha voluto partecipare al laboratorio e dovrebbe interpretare Zio Vanja, è dannazione. Perché nel frattempo Kōji è diventato una star televisiva, e per questo viene costantemente molestato dai fan: dopo una rissa con uno di loro, verrà arrestato dalla polizia. Per Yūsuke e Misaki, Cechov è la guida verso la salvezza.

Drive My Car

Dopo alcuni documentari, Ryūsuke Hamaguchi aveva già vinto nel 2021 l’Orso d’argento al Festival di Berlino per Il gioco del destino e della fantasia. Nel 2015, le quattro protagoniste del suo Happīawā, (ovvero Happy Hour) avevano vinto al Festival di Locarno il Pardo per la miglior interpretazione femminile. Drive My Car ha già vinto il Prix du scénario al Festival di Cannes e ottenuto quattro candidature alll’Oscar come sezione miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura non originale e miglior film internazionale.
La sensibilità del documentarista permette di dare credibilità e verità al percorso laboratoriale intorno a cui ruota la pellicola. Drive My Car riproduce un frammento di realtà, racconta una storia: l’elaborazione di un lutto, il superamento di un trauma da parte di Yūsuke (che ha perso la bellissima moglie) e Misaki (che ha lasciato morire la madre sotto una frana). Ma il teatro (e Cechov) fa altro, non si limita a riprodurre la realtà (anche se lo sa fare): l’esperienza del palcoscenico non cambia il mondo, ma può cambiare le persone, mentre in questa parabola lo show business contribuisce alla dannazione di Kōji, o forse ne è la causa. Per questo Drive My Car ha molte affinità con i percorsi di teatro sociale e di comunità, che usano l’esperienza teatrale (e dunque il lavoro di gruppo, comprese le improvvisazioni al giardino pubblico) per il benessere delle persone. Come spesso accade, c’è un paradosso: perché la salvezza arriva da un fallimento, perché questo racconta Zio Vanja: un groviglio di fallimenti.
Il film di Hamaguchi insegue il processo dalla creazione teatrale, con i suoi tempi lunghi, con quelle modalità artigianali precluse alla macchina produttiva del cinema. Il linguaggio del cinema consente di rappresentare la realtà in tutta la sua ricchezza e poesia, e spinge a trasfigurarla. La pratica del teatro, con i suoi mezzi limitati e i suoi effetti speciali casalinghi, può innescare percorsi trasformativi, che partono dall’incontro delle persone e dei corpi. Anche quando sono rinchiusi nell’abitacolo di una Saab 900 Turbo rossa (con il volante dal lato sbagliato, perché in Giappone si guida a sinistra). In quello spazio claustrofobico, anche il silenzio consente il dialogo.

Le dichiarazioni di Ryūsuke Hamaguchi sono tratte da Roberto Manassero, Drive My Car, Ryûsuke Hamaguchi: «Ho rispettato Murakami. Cechov è stato fondamentale», pubblicata su MyMovies.




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