Attori sensibili alla corte di Lady Macbeth

Il Macbeth di Lenz al Festival Natura Dèi Teatri

Pubblicato il 18/12/2016 / di / ateatro n. 159

Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS): questo il nome delle strutture che si stanno sostituendo agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e, in particolare, della struttura di Mezzani in provincia di Parma, dove dallo scorso anno la Regione Emilia-Romagna ha avviato l’esperienza pilota, a livello nazionale, per il trasferimento in queste nuove strutture dei pazienti/detenuti. La dicitura suona strana per i profani: dietro l’innocua ‘residenza’ si cela la detenzione e la parola ‘esecuzione’ evoca una pena capitale. La struttura di Mezzani è il punto di partenza di uno dei più recenti lavori di Lenz: il Macbeth, andato in scena dall’8 al 10 dicembre 2016 nel contesto della ventunesima edizione del Festival Natura Dèi Teatri, presso la suggestiva sede storica della compagnia, costituitasi di recente in Lenz Fondazione, a suggellare la oramai trentennale militanza teatrale.

Macbeth, Lenz Fondazione © Francesco Pititto

In occasione dei quattrocento anni della morte di William Shakespeare, il capolavoro del bardo è sembrato a Francesco Pititto e Maria Federica Maestri, anime del Lenz, l’opera più adatta per il lavoro condotto con gli ospiti della struttura. Non tanto per il tema del potere e la sua brama, piuttosto per quello della colpa, della responsabilità del male che, tra le forze motrici di cui è innervata la tragedia, ha un esito dirompente nel personaggio straordinario di Lady Macbeth. La malattia, i demoni, l’insonnia, il delirio, gli incubi, il suicidio sono tra i frutti avvelenati del senso di colpa, che accomuna e distingue al tempo stesso – nella finzione – il personaggio shakespeariano impersonato da Sandra Soncini, attrice storica di Lenz, e – nella realtà –  gli ospiti della struttura di Mezzani, che hanno offerto voci, volti, umanità al gruppo di Parma. La poetica di Lenz utilizza anche questa volta la forza del contrappunto, e fa interagire ai due poli della tensione l’attore in scena, nel ruolo di Lady Macbeth e gli “attori sensibili” nel video proiettato alle spalle dell’attrice. Attori sensibili: termine quanto mai appropriato che la compagnia di Parma, da molti anni impegnata su questo fronte etico ed estetico, attribuisce alle persone portatrici di ‘disagio’ che vestono ‘naturalmente’, sotto il loro ascolto e la loro guida, i panni attoriali.
Siamo a Parma e non può non tornare in mente lo storico lavoro diretto da Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Nel 1975 Matti da slegare documentò l’importante impegno della città emiliana per liberare, al seguito di Franco Basaglia, i malati mentali. Il Lenz da anni è impegnato nell’impresa ardita e umanissima di “slegare” i “matti”, per condurli a teatro, per riallacciarli a un’arte che appartiene loro come un doppio naturale e come una radice profonda, inestirpabile.

Macbeth, Lenz Fondazione © Francesco Pititto

La dialettica polare, tesa tra attore e attori sensibili, che Lenz ha sempre riconosciuto, si gioca nel Macbeth sul tema capitale della responsabilità del male, ed è offerta al pubblico nel contrasto irrisolto tra la colpa consapevole dell’essere razionale e la colpa inconsapevole dell’essere incapace di intendere e volere. Questa dialettica, come l’immagine benjaminiana, esplode in scena in costellazioni di immagini: è espressa plasticamente attraverso il materiale demonico delle immagini, di cui Lenz ha una ben allenata dimestichezza. È conio di Pititto l’espressione “imagoturgia”, che sembra raccogliere non solo l’azione fattiva, poietica, sulle immagini, ma anche l’Ur, la loro originarietà senza inizio nel tempo. Una originarietà che non essendo dislocata in un illo tempore non è semplicemente evocata, ma non può che darsi totalmente nell’immanenza spaziale della presenza scenica. Immanenza ovattante e respingente con cui Federica Maestri plasma lo spazio scenico nel dialogo fluido tra video e presenza fisica.
Il disagio fisico e psichico è reso sul palco dall’effetto claustrofobico della scatola scenica delimitata dal perimetro percorso dall’attrice, dalle pareti dello spazio trasformate in schermi, e da una struttura mobile centrale che aprendosi e chiudendosi riverbera le voci e le immagini, i primi piani invadenti, degli attori sensibili. Le immagini, e i suoni orchestrati da Andrea Azzali, come nel ritmo dei deliri, si reiterano ossessivamente e senza tregua. Le immagini mentali confuse alle immagini reali hanno un esito fantasmatico, abitano la scena come spettri, evocano paure inespresse, celate nei recessi inconfessabili dell’animo. Fanno male e anelano a un riscatto catartico che tarda a venire.




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