Dentro e fuori dalla gabbia

Experti con i detenuti dei Due Palazzi a Padova

Pubblicato il 03/06/2012 / di / ateatro n. 143

In piena continuità con il lavoro iniziato vent’anni fa dal Tam Teatromusica di Pierangela Allegro e Michele Sambin nel carcere di Padova, Cinzia Zanellato e Loris Contarini hanno realizzato con i detenuti del Due Palazzi un’’esperienza intitolata Experti che incrocia fin dal titolo il tema del distacco, della partenza (ex) con quello del viaggio, dell’’attraversamento, della trasformazione (per). Incentrato sulle suggestioni ricavate da una lettura tesa e ironica (anche molto autoironica) della Relazione per un’’accademia di Franz Kafka, l’’esito spettacolare è stato presentato nell’’auditorium della casa di reclusione padovana alla fine di un anno di laboratorio (comprese le pause forzate nella periodica attesa dei finanziamenti) con un gruppo eterogeneo ma assai affiatato di “ospiti”: Belhassen Ayari, Giovanni Caruso, Abderrahim El Ins, Aioub Ferchichi, Abdallah Mahmoud, Hamed Mourakohi, Luca Munegato, Temple Onwukwe, Mario Pace, Pietro Pagliara e Bruno Rapone.
Giustamente si dice in questi casi che il risultato è meno importante del processo che lo ha determinato, ma quando il risultato funziona, il piano artistico può confrontarsi alla pari con quello umano e politico, assumendone i significati senza abdicare alla propria alterità. La storia della scimmia catturata nel corso di una spedizione e determinata a umanizzarsi per sfuggire alla prigionia ripercorrendo al contrario la metamorfosi di Gregor Samsa – è così risuonata immediatamente presente, concreta, trasfigurata in corpi eloquenti, in azioni semplici come simboli, in parole (sbarre, gabbia, libertà, via di fuga) provenienti dal testo e sottoposte a una frizione semantica che accelera la comprensione di quanto realmente tali corpi “rappresentano”, sfruttando nello stesso tempo quello straniamento che la situazione giocoforza crea nello spettatore comune (ma probabilmente, sia pure di segno diverso, anche nei detenuti-spettatori sulle gradinate).
Il dispositivo messo in campo, da una parte chiama in causa il vissuto di queste creature catturate e ferite che, come la scimmia di Kafka, provano a “diventare come un uomo”, dall’altra, e proprio in virtù di tale cortocircuito tra la vita e l’’arte, porta alla luce uno strato di inconscio testuale che probabilmente nessun approccio algidamente critico ha saputo scavare con altrettanta precisione. Prende forma addirittura un frammento – gustoso, a tratti grottesco – di teatro nel teatro, ovvero di teatrocarcere nel teatrocarcere. Consegnata al suo primo domatore, la scimmia comprende subito l’alternativa che le si pone: il giardino zoologico o il varietà. Tutti, naturalmente, scelgono il secondo e si lanciano in una serie di siparietti, tra danze, brani rap, frammenti shakespeariani, disarticolazioni alla Totò: «Si impara bene quando si è costretti, quando ci si sorveglia da soli con la frusta», è il raggelante commento di una citazione dal testo kafkiano. Ma il culmine di questa parodia degli sforzi artistici dei detenuti arriva con la vecchia pantomima del nano (che qui diventa la scimmia): un attore indossa la giacca a rovescio coprendo anche l’altro che gli sta davanti, il quale sbuca da sotto la stessa giacca con le mani, muovendole come piedi sopra una cassa-leggio. Questi tenta di raccontare qualcosa, ma viene continuamente interrotto dal primo, che gli infila le dita nel naso, gli tira le orecchie ecc. Ogni tanto il quadrumane, esasperato, fa per andarsene e allora si gira a mezz’aria come per prendere un volo impossibile. Omaggio alla tradizione dello spettacolo popolare, lo sketch è anche un’autocitazione del Tam di Fratellini di legno (il Pinocchio riscritto in scena con i detenuti nel 1999), non senza un richiamo scherzoso al più recente Anima blu (con le figure volanti di Chagall).

Come sempre nelle opere del Tam, gli essenziali elementi scenografici sono funzionali a veloci cambi di scena e all’articolazione ritmica della superficie performativa. In questo caso delle semplici casse bianche creano volumi, nicchie, gabbie, casse armoniche per la voce di un performer, pedane per il volteggio di un altro, leggii per le relazioni scimmiesche, ma diventano anche gradini e praticabili che interrompono la linearità dello spazio scenico e costringono a diversificare le partiture fisiche.
Mentre un Rotpeter moltiplicato conclude la sua relazione di fronte agli spettatori-membri dell’accademia, le luci inquadrano i corpi costretti dentro le casse come carne in scatola. E il pensiero va a un’’altra stagione di teatrocarcere, quando il Tam realizzò quella meraviglia delle MeditAzioni, incarnando nei detenuti del Due Palazzi gli affreschi giotteschi della Cappella Scrovegni. Di fronte al mancato permesso d’uscita dei detenuti per presentare lo spettacolo all’esterno del carcere, Sambin e Allegro decisero,– con la rabbia e la determinazione di un gesto che era già esso stesso teatrale–, di riprendere con la videocamera quei corpi e quei volti per portarli fuori lo stesso, per farli evadere tutti, almeno virtualmente: carne nelle scatole dei monitor, protagonisti nella loro assenza forzata. Speriamo che questa esperienza kafkiana non raggiunga l’’esterno solo virtualmente, ma riesca a trovare la strada per proporsi, come merita, oltre le mura del carcere, quale incontro umano nel segno dell’arte.
Dopo la festa degli applausi, mentre già dalle porte socchiuse giungono i rumori e le voci del carcere, restano nell’’aria le parole di quel rap che Ahmed Mourakohi ha scritto e cantato, teso e tagliente, risalendo le gradinate tra il pubblico: «L’’attesa è una cosa scontata / Può capitare di stare a lungo a una fermata / Ad aspettare qualcosa ad aspettare qualcuno / Ma aspettare a lungo ti fa sentire nessuno nessuno». Un testo che raccoglie e custodisce anche il grido di Khaled H., uno dei ragazzi impegnati nell’’esperienza di Experti, ma che al debutto non era in scena perché nel novembre scorso si è suicidato. Aveva scritto lavorando su Kafka: «Ma io questa rabbia non l’’ho desiderata / Ma giorno dopo giorno parte di me è diventata / E spero che non resista / nella mia testa / finché vita resta». A lui e a tutte le altre persone detenute che in Italia hanno deciso di farla finita (6 da gennaio, 60 l’anno scorso, 757 dal Duemila) va il pensiero di molti, mentre ci si divide: gli attori e gli spettatori detenuti tornano in cella, gli altri– che per pudore non diremo liberi, gravati come siamo tutti della nostra parte di responsabilità – escono dai cancelli sotto una fitta nevicata.

Fernando_Marchiori

2012-06-03T00:00:00




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