Chi è il mediatore culturale ai tempi della Rete? [2/4]

Riflessioni intorno all'incontro su Dioniso e la nuvola al Funaro di Pistoia

Pubblicato il 09/12/2018 / di / ateatro n. 166

Qualche mese fa il Funaro di Pistoia ha ospitato un appassionato dibattito a partire dal saggio di Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino Dioniso e la nuvola [FrancoAngeli]. Quell’incontro ha generato alcune riflessioni che pubblichiamo volentieri su Ateatro come contributo alla discussione sul ruolo della critica – e del teatro – ai tempi della rete.

Dal buio alla luce. Da dentro a fuori. La rete o Rete che sia, con la lettera minuscola o maiuscola, è la somma delle sue maglie. Spazi, vuoti, solitudini. L’entrata è anche uscita, l’uscita è anche entrata. Una terra di mezzo. Una terra di tutti e di nessuno.
Non c’è guerra in atto nella cultura e per la cultura. La guerra implica affermare una presa di posizione sull’altra. Oggi schierarsi è (considerato) il male assoluto. La peste della diversità. Per questo il termine “mediatore” mi pare fuori tempo e luogo. Le due parti che si immaginano o auspicano sono in realtà una sola. La stessa: il silenzio del disinteresse. Perché l’immobilità rende tanto al sistema quanto all’anti-sistema.
“Fate baccano”. Lo dice Don Lorenzo Milani in fin di vita, dal letto, a un’amica che gli chiede cosa si possa fare per la Lettera a una professoressa appena pubblicata. Oggi più che mai è necessario “l’agitatore”, qualcuno che metta in moto il giudizio. Suo e degli altri. Qualcuno che spinga avanti la separazione delle idee. Sue e dagli altri. Facendo nascere le opinioni. Non i click, i “mi piace” o simili riflessi pavloviani. Piuttosto, modi diversi di vedere. Alternativi.
Peraltro, “teatro” e “opinione” rimandano entrambi allo sguardo, al vedere, all’occhio. Aggiungo: vedere con i propri occhi. “Se non vedo, non credo”. A teatro più che altrove San Tommaso può mettere ogni sera il dito nelle piaghe di Gesù. Ovvero, ciascuno spettatore può toccare con mano ciò che fino a un attimo prima non credeva esistesse e che, forse, un attimo dopo imparerà a riconoscere. La profondità di sé. La sua “anima”.
Il baccano dell’agitatore abita e affronta quegli spazi, quei vuoti, quelle solitudini di cui parlavo prima. Più precisamente, se ne fa interprete. Li fa conoscere, li comunica, li mette insieme. Li mette “in rete”, per usare un’espressione che unisca il principio con il (la) fine. Perché da lì viene e a ciò ambisce l’azione dell’agitatore: che l’opinione da essere di nessuno si apra a qualcuno e poi a tutti. Il più possibile. “Informare”, in definitiva, è la parola chiave. Dare forma e essere alle opportunità di cambiamento. Spezzare sulla lunghezza del tempo le (non) prospettive di sistema e anti-sistema, che si sono dimostrate più forti. Finora.
I fatti sono alla luce del sole eppure “il problema è che l’informazione non riesce a essere totalmente indipendente”, come mi ha detto di recente un acuto osservatore. Trovata la “pistola fumante” la scelta, comunque, è di non farla sparare. Di non raccontare. La giustificazione? Del tipo: o lo faccio sempre o perché dovrei farlo questa volta?
Duro, forse impossibile il compito dell’agitatore. Dividere, separare, scegliere i campi, e ripulire dal terra di mezzo. Dove tutti e nessuno sono colpevoli e innocenti.
“L’agitatore”, ho detto. Qualcuno che… Già, ma, ora che ci penso: qualcuno chi? Chi è stato crocifisso scopra per primo il costato.




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