Enrico IV nel labirinto della guerra

Il testo di Pirandello in scena a Cambridge (USA)

Pubblicato il 15/02/2002 / di / ateatro n. 029

Collaborare come drammaturgo all’’allestimento dell’Enrico IV di Pirandello, andato in scena al Loeb Drama Center di Cambridge, in un paese in guerra contro il terrorismo, è stato significativo, forse utile per riscoprire la validità e vitalità dell’opera pirandelliana.
Lo spettacolo prodotto dall’American Repertory Theatre, per l’intensa e scrupolosa regia di Karin Coonrod, l’adattamento di Robert Brustein, è stato replicato con notevole successo per oltre un mese. La scena disegnata da Riccardo Hernandez rappresenta la sala del trono tagliata a metà da un enorme muro d’acciaio, asimmetrica rispetto al pubblico. Al centro un trono anch’esso in acciaio e slanciato verso l’alto, con alle spalle un’enorme croce sospesa, mentre i famosi ritratti dell’imperatore di Germania e Matilde di Toscana, sono sostituiti da due statue a grandezza naturale anch’esse sospese a tre metri d’altezza ai lati del trono.
Molti spettatori sono tornati a vederlo una seconda volta. Nella pagina spettacoli del “New York Times del 18 gennaio, Bruce Weber ha definito questa produzione dell’Enrico IV straordinaria per qualità, interpretazione, temi pirandelliani trasferiti in scena in un linguaggio contemporaneo conciso e diretto. In sostanza si rende omaggio a una lucida capacità di ricucire, attraverso il palcoscenico, in tempi così nebulosi e deliranti, un nesso sicuro e certo col passato storico recente e un capolavoro della letteratura drammatica del XX secolo.
Si sa che in tempi di Guerra la quotidianità, gli elementi che la compongono, cambiano forzatamente la loro natura. Anche i gesti più banali sono intrisi del mito di un’azione armata, che si esalta come gesto decisivo. La logica di Guerra sospende il dibattito e il tempo reale. Non chiede di essere condivisa e non offre ripensamenti. Chiede solo umiliazione e subordinazione. Appartiene alla famiglia totalitaria dell’azione-pensiero. E non fa grande differenza da quale parte dello schieramento ci si trovi. Un’azione che segue la logica delle armi è un’azione armata. Così come il pensiero è armato. Stringendo per primo d’assedio chi nella propria cerchia non s’allinea. Nell’ordine del discorso vengono bandite: la metafora, il simbolo, l’ossimoro, il realismo, l’allegoria, il traslato, etc. Resiste solo l’onomatopea intrisa dello scricchiolio delle ossa e il tonfo del cervello obnubilato. L’odio per il nemico, nottetempo, deve accasarsi con l’assenza della ragione: “Marte non comprende ma impazzisce sono le parole folgoranti di Ulisse nel V canto dell’Odissea.
Ma che ne è del teatro in tempo di Guerra? Come si modifica la sua drammaturgia? E’ una domanda interessante e insidiosa a cui si può dare una risposta storiografica, compilando una lista di drammi da Eschilo al recentissimo Homebody/Kabul di Tony Kushner, oppure citare la sempre valida Storia del teatro drammatico di Silvio D’Amico. Il teatro di Pirandello, in particolare l’Enrico IV, si mostra uno strumento decisamente utile a questo scopo. Com’è noto Enrico IV è una delle poche tragedie di Pirandello, allestita a ridosso della Prima guerra mondiale, scritta lo stesso anno dei Sei personaggi (1921) in risposta all’incomprensione mostrata da gran parte del pubblico e della critica.
Al di là dell’apprezzamento estetico e dei complimenti, per alcuni versi esagerati, il critico del “Times ha centrato le intenzioni evidenziate dalla regia. La macchina del pensiero all’opera è già contenuta interamente nel testo pirandelliano: ridare coscienza critica e consistenza alla visione di un presente rimosso accettando la natura polimorfa della realtà è il motore centrale dell’intera opera di Pirandello. Riflettere criticamente sui meccanismi di fuga della società a lui contemporanea, riproponendone i temi in varianti quasi ossessive; o le angustie di una società intrappolata fra inadeguatezza ed incapacità di dare risposte reali ai problemi etici ed estetici la sua funzione di poeta e scrittore. I conflitti chiaramente intesi nell’intima natura dei personaggi sono visti dall’autore come regressione senza scampo nel mondo virtuale, in una sordità generata dagli eventi che, al meglio, conduce ad un passato esangue ed inesistente; o esistente solo come proiezione irrisolta e lirica del protagonista, in attesa della catastrofe finale.
Un avvertimento, più che un ritratto realistico del mondo, questo Enrico IV di Pirandello, recitato mirabilmente da David Patrick Kelly, un attore atipico, che ha lavorato a lungo con Richard Foreman, e viene da una lunga successive frequentazione del cinema non commerciale, alternato con produzioni teatrali off-Broadway e Broadway. E come tutti gli avvertimenti, anche terribilmente reale e credibile. Metafora di un autentico, crudele e sofferto auto accecamento che, analogamente, si viene consolidando nella società americana, dopo i massacri dell’11 settembre. Dove l’industria culturale, che sforna prodotti notoriamente acefali, è praticamente al sevizio di una doppia forbice che promuove stragi e, allo stesso modo, trasforma in statue di sale i suoi cittadini. Le immagini e notizie della Guerra vengono trattate con gli stessi stilemi della fiction. Ecco dove vive e prolifera l’irrealtà dell’Enrico IV a noi contemporaneo.
Sciogliere questo sale è certo il primo compito, il primo atto di resistenza che, a mio avviso, deve assolvere il teatro in tempo di Guerra. Per non cadere in una sorta di teatro al servizio della guerra; nel momento in cui la dismisura e l’irrazionalità si impongono come forme di patriottismo (o anti-patriottismo – leggi pure anti-americanismo) cieco. Entrambi gli atteggiamenti pescano nel pozzo buio della reazione. Vendono lo stesso prodotto deteriorato, oscurato dell’intelligenza, dimezzato della verità. Si dirà: cose vecchie, atrocità consuete all’inventario del doloroso mondo. Ma questa volta l’universo s’è fatto piccolo: lo spartiacque frangibile.
Proprio rileggendo gran parte della sua opera in occasione di questo Enrico IV, mi è parso di intravedere che Pirandello lavorava alla realizzazione di un teatro ostile al cinismo, all’imprigionamento della verità; e prefigurando un nuovo contratto sociale, più prossimo a un atto di giustizia (anche nel senso di dibattimento giudiziario) finalizzato all’allargamento della società; capace di accoglie l’umanità mutilata dalla rimozione e gli uomini-paria del suo tempo, più che controbattere meramente le convenzioni estetiche e conservatrici ereditate dal XIX secolo o le avanguardie estetizzanti sino all’afasia (letterarie e teatrali) del XX secolo. L’Enrico IV di Pirandello risulta essere un rito culturale, per usare la formula pasoliniana, contro ogni tentazione riduttiva, in aiuto di quanti si sono sentiti o si sentono privati di una visibilità, discriminati, sacrificati nell’altare delle necessità dominanti. Immediatamente comprensibili sotto questo velo opaco steso da una amministrazione ed economia capitalista globalizzante pronta al genocidio pur di rappresentare gli interessi di una aristocrazia economica.
Enrico IV e il modo con cui è scritto, in qualche modo, si oppone alla pressante censura psicologica, ma anche legislativa e deformante, che questa Guerra globale al terrorismo comporta: uno stato di odio latente ma trattenuto appena sotto i limiti della catastrofe. L’Enrico IV ha mostrato l’intera qualità rivoluzionaria dell’opera di Pirandello, intimamente antifascista e antitotalitaria. Biografia a parte, se ne sono accorti a loro tempo i nazisti e fascisti nostrani, che ben presto hanno smesso di leggerlo o metterlo in scena. Per altri versi la stessa società vittoriana inglese, diretta progenitrice di Winston Churchill, ha avuto un suo ‘naturale’ rigetto nei confronti di Pirandello, quando nel 1925, per ordine del Lord Chamberlain, vietò le recite dei Sei personaggi in cerca d’autore in tournée al Teatro d’Arte al New Oxford Theatre di Londra. O meglio, le vietò in lingua inglese: per la scandalosa e sottintesa relazione sessuale fra il padre e la figlia adottiva menzionata nel testo. Inutili le proteste di Pirandello: “Per cominciare, l’azione potenzialmente immorale, nel dramma non succede, e tutta la forza della commedia è usata per condannare tale azione… anche se nella sua potenzialità. La compagnia fu costretta a recitare lo spettacolo in italiano, previa una breve introduzione che ne chiarisse la trama.
Alla resa dei conti, il concetto stesso di teatro per Pirandello può, in breve, essere riassunto nella motivazione dei grandi tragici greci: educare nella libertà la mente dello spettatore e, aggiungerei, dell’attore e del regista. In tempi di Guerra non è cosa da poco. Questa libertà pirandelliana, che approda quasi sempre in forme brucianti di verità, si manifesta con una perfetta macchina retorica, in una sorta di processo pubblico dove, più che un concetto di giustizia, si esalta il rovesciamento del punto di vista confortevole. La dittatoriale unicità e natura dei sentimenti borghesi o piccoloborghesi, quelli più banali e in apparenza innocui (e l’assuefazione alla crudeltà che ne deriva) viene scardinata dall’interno. La trama e i personaggi dell’Enrico IV, conseguente ai fatti narrati, secondo la natura dei personaggi stessi, più che per coerenze esterne imposte dalla logica del perfetto drammaturgo, mostra di rispettare rigorosamente questo mandato. In sostanza Pirandello, specie nell’Enrico IV, più che volerci apparire formalmente ineccepibile, ci ripete, sino alla nausea, con quasi tutta la sua opera, che la ‘realtà’ va sostituita con altrettante realtà legittime e diverse. L’opera, la creazione artistica ha come dovere principale quello di mostrarcele: parallele o contrastanti, conseguenti o precedenti ai fatti. Verità e realtà si scollano irrimediabilmente.
Pirandello non solo crea e scrive un testo attingendo alle risorse formali delle avanguardie del Novecento, ma prefigura ( e quindi crea) un nuovo pubblico, nuovo, nel senso di come ci è dato immaginare sia stato per Euripide. Un pubblico non assuefatto e docile, ma inconsolabile, frammentato nella psicologia dell’uomo che si costruisce secondo la scansione dei secoli, più che dei giorni. “Ma dite un po’, si può stare quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere gli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi?, sono le parole del monologo lucidissimo e struggente di Enrico VI. Un’euforica, umoristica visione, dell’individuo che si distacca e non ricalca, non accetta un modello autoritario, che non vede con orrore la ‘legione’ e la ‘moltitudine’ come minaccia anarcoide, mi pare la straordinaria epifania di nuove libertà intrinseche nell’opera di Pirandello. Una scoperta che, dopo le mode e ricette culinarie dei vari pirandellismi, può ancora procurare disagio, disperazione, nausea e ira, nichilismo e senso di infinita vanità del tutto. Oppure risentimento religioso, specie nelle teocrazie monoteistiche che ancora nulla sanno della rivoluzione francese. Intendo chiaramente l’Islam, che non ha ancora vissuto l’esperienza dei lumi, né della riforma e della contro-riforma; così come intendo chiaramente l’universo chiuso di una democrazia consumista e gastro-intestinale; che preferisce precipitare il mondo in un abisso neo-oscurantista tecnologico, piuttosto che rifare i conti con una più equa distribuzione delle risorse che appartengono al mondo e quindi a tutti.

Walter_Valeri




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