Teatro di guerra: Omero sull’autostrada

Highway Ulysses di Rinde Eckert, regia di Robert Woodruff all'American Repertory Theatre di Boston

Pubblicato il 27/03/2003 / di / ateatro n. 051

Già Savinio col suo Capitano Ulisse nel 1925 aveva cercato di strappare la memoria del mitico personaggio di Omero dal cimitero delle celebrità restituendogli un cuore: “Potevo lasciare a Ulisse un naso di cartone e un abito di carnevale? Ho voluto riudire la voce del mio amico, abbandonato da tutti, contare i palpiti del suo cuore.” Nello spettacolo Highway Ulisses prodotto dall’American Repertory Theatre e diretto da Robert Woodruff, che si sostituisce al fondatore Robert Brustein, i palpiti del cuore di un Ulisse contemporaneo sono stati riportati in scena e si mescolano destrutturati coi frammenti del mito di Omero. Nei secoli l’opera di Omero si è profondamente modificata. In particolare il personaggio di Ulisse è stato, di volta in volta, incarnazione della sagacia; oppure volgare bugiardo, violatore di altari e leggi morali. Questo perché a differenza dell’Iliade, il mondo dell’Odissea non è visto dall’alto, dai signori di terre e di navi, ma dal basso, dai naufraghi, dai raminghi, da coloro che non hanno altra protezione che l’ingegno e l’ardire delle loro azioni. Dopo la prima grande guerra coloniale, culminata con la distruzione di Ilio nel 1200 a.C., sono state scritte varie epopee, oggi perdute, che narravano del ritorno in patria degli eroi. l’Odissea è rimasta l’opera più famosa. Un archetipo che Omero ha fissato per sempre, delineando i profili di personaggi, episodi, memorie di creature fantastiche che affollavano il Mediterraneo dell’VII secolo a.C. Una sorta di cristallizzazione in versi di racconti popolari fantastici e testimonianza di una maturazione interiore, resa attraverso la successione e la natura dei luoghi visitati dal protagonista. Da Omero in poi, come per le favole, si è rimodellato il mito e la maschera primordiale di Ulisse, lasciando invariato il tema del viaggio; meccanismo e funzione narrativa di cui da sempre ci si serve nella letteratura e in teatro. Da sempre il viaggio è anche evoluzione di situazioni drammatiche, luogo di purificazione, espiazione e conoscenza; oppure pretesto per esprimere i sentimenti della vita, così come l’abbiamo appresa nascendo. E anche: viaggio come ritorno, meta impossibile se, come scrisse Bertold Brecht, sempre arriva alla meta chi non era partito. Oggi Ulisse non è più quello dei secoli passati. E’ un Ulisse alle prese con le maglie del villaggio globale. Che ha più a che fare con l’Ulisse di Joyce che con quello di Omero, prosa irriconoscibile dell’epica classica ( o illusoriamente riconoscibile) che ha rivoluzionato il mito e la sua forma narrativa, adeguandola al presente. Ed è, mi sembra, a partire da Joyce, che bisogna rifarsi per intendere Highway Ulisses, l’ultima versione Americana del mito di Omero, sotto forma di melodrama jazz-rock, di Rinde Eckert. Il nuovo Ulisse è un veterano della Guerra del Vietnam, come ne abbiamo già visti tanti e, putroppo, altri ne vedremo. Ma, inaspettatamente, questa volta il reduce non è portatore di messaggi diretti: non è un nobile pacifista, non è un ubriacone disabile, una furia o rimorso dei bombardamenti al napalm. Oppure un relitto resuscitato dai drammi di Toller, che ha maturato un credito inestinguibile nei confronti della società insensibile. E’ un uomo taciturno, di mezza età e poche parole. Uno divorziato, come ce ne sono tanti in America, che vive in un monolocale, spesso in mutande, la sua mediocre avventura di separato con una giovane amante un po’ svampita, di nome Calipso. Una notte riceve una telefonata. Un’assistente sociale gli comunica che sua moglie è morta in un incidente d’auto. Telemaco, il figlio adolescente, ora è solo e i Proci, quelli che vogliono ereditare la casa di Laerte, sono i membri di un’agenzia di affidamento di Stato. Così il richiamo del figlio adolescente, la nuova telemachia, fa scattare la nuova avventura di Ulisse che parte immediatamente e si imbarca per un lungo viaggio in autostrada. Alza le vele facendo un pieno di benzina.

Ulisse cessa la sua morte apparente, di partecipare al declino esistenziale del reduce, abbandona le logore insegne dei veterani e torna a navigare nel mare nostrum della modernità. Un’ autostrada lunga migliaia di chilometri dove ritrovare nell’istinto paterno la forza di andare avanti; mentre si spalanca un universo allucinato su cui tracciare la rotta. Approda di volta in volta in nightclub, porno-shop, squallide caffetterie, sale giochi per fantasie solitarie, laboratori per tatuaggi, saloncini a luci soffuse per feste matrimoniali, aree di ristoro e parcheggio; equivalente inquietante dei capitoli di un’odissea moderna con rischi di naufragio. In una scena polifuzionale dove a turno gli attori diventano protagonisti e coro, narratori, danzatori e cantanti di brani orchestrati a ritmo di jazz-rock, duetti o quartetti da melodramma post-moderno, è facile riconoscere la porcilaia di Circe, l’isola delle Sirene, l’antro di Polifemo, Silla e Cariddi, la terra dei Feaci e altro; attraversati da Ulisse, testimone passivo, o solo determinato a raggiungere la propria meta. Mentre il figlio, moderno Telemaco androgino, passa il suo tempo segregato ai margini della scena. Separato dagli eventi da un alto muro di plastica trasparente, su cui incide espressionistici graffiti solo in parte comprensibili, riscrive al computer i titoli dei capitoli dell’Odissea. Geme o sogna di un eroe-padre di cui non sa nulla, conosce solo il fantasma idealizzato. Oppure canta e naviga in modo straziante, indifeso, nel cyber-spazio, mentre lo abbagliano le menzogne e gli artefatti dell’industria culturale di Hollywood, il solfeggiare ironico della colonna sonora di Gladiator, il fantasma degli ultimi modelli di ortopedie telematiche e videogiochi quotati in borsa.
Il regista Robert Woodruff dimostra di essere uno dei pochi uomini di teatro che ancora si ispirano alla lezione di Brecht e soprattutto di aver capito a pieno quella che è la struttura narrativa naturale dell’Odissea che comporta scenari multipli e azioni che si svolgono in contemporanea. Il tutto rigorosamente impuro, straniato, con un alternarsi di generi e stili teatrali diversi, sapientemente orchestrati su di un palcoscenico allestito come un grande set cinematografico. Dove gli attori si succedono nei ruoli dei vari personaggi, o divengono coro che assiste al dipanarsi degli eventi. I riferimenti al poema omerico sono dichiarati dallo stesso Telemaco che li proiettata su un grande schermo collegato a una sala computer. Risulta chiaro il genere di provocazione e sofferenza che l’autore e il regista si prefiggono di portare in scena: il padre e il figlio, sono metafora e testimonianza di due generazioni mutilate, separate dalle onde di una quotidianità alienata; società dei consumi che non prevede l’esistenza di un padre etico. Ma Ulisse vuole il suo posto, riguadagnare la funzione di cui è stato spossessato. Tutto sta in una valigetta piena dei appunti e scartoffie che per l’intero viaggio porta con sè. Il diario delle sue esperienze. La tragica avventura di un marine che vuole ricongiungersi col figlio e consegnargli la verità. O quella che Montale chiamava “una bugia del tutto particolare”. Come se lo stesso Omero chiedesse aiuto ad Ulisse per consegnarsi a Telemaco lungo le autostrade di un’America in guerra. Uno spettacolo commovente e complesso, splendidamente diretto e recitato. Dove certo trapela, qua e là, un testo dalle qualità non sempre all’altezza delle azioni e delle intenzioni. Una riflessione e l’uso di un mito che fa coro e si compendia con il pensiero di Susan Sontag, espresso nel suo ultimo libro, Guardando la sofferenza degli altri, dove si mostra offesa, umiliata da quei “cittadini della modernità, consumatori della violenza come spettacolo, addetti alla solidarietà senza rischi; che non fanno quasi più nulla per modificare la loro condizione di persone addolorate”. Le ultime Quattro recite a teatro esaurito si sono svolte mentre l’esercito americano e i suoi alleati hanno invaso l’Iraq; con l’avanzata dei carri armati sulla sabbia del deserto visibili nello schermo del foyer, i primi pozzi di petrolio in fiamme, i primi prigionieri, i palazzi sventrati, i parenti in lacrime ripresi in diretta dalle telecamere della CNN. Fra i prigionieri un marine, madre di una bambina di due anni.

Boston, 27 marzo 2003

Walter_Valeri




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