I labirinti dell’’immagine :

+ ou – là di Rachid Ouramdane al Festival d'Automne

Pubblicato il 06/12/2002 / di / ateatro n. 046

É sempre più frequente trovare dei progetti sperimentali nel programma del prestigioso Festival d’Automne parigino.
Al Centre Pompidou, dal 31 ottobre al 4 novembre va in scena + ou – là, l’ultima creazione del giovane e brillante coreografo francese Rachid Ouramdane. Lo spettacolo, interpretato oltre che da Ouramdane, da Nuno Bizzarro, Varinia Canto Villa, Anna Javander, Julie Fioche e Christian Rizzo, s’iscrive in un percorso di ricerca iniziato quattro anni fa e che ha avuto alcune tappe intermedie, tra cui Au Bord des Métaphores, progetto di sperimentazione che Ouramdane ha condiviso a partire dal 1999 con un collettivo eterogeneo di artisti. Al centro di questo percorso, il rapporto tra il corpo e l’immagine video.
Sulla scena di + ou – là sono presenti diverse telecamere e diversi schermi al plasma, sospesi al soffitto in posizioni e composizioni sempre diverse. Sullo sfondo, un sipario nero agitato da iridescenze inquietanti. Il cerchio di personaggi abita la scena come se fosse un mondo chiuso, un sistema asettico d’oggetti e di soggetti che non ha aperture verso l’esterno. L’inferno non sono più gli altri, come diceva Sartre, perché non c’è più nessuno, solo le telecamere e gli schermi.
Nel testo di presentazione dello spettacolo, Ouramdane riconduce l’origine della sua riflessione sull’immagine video alla matrice televisiva: “la percezione e la comprensione di queste immagini si svolge attraverso una cultura più o meno cosciente della grammatica televisiva…”. Ma la prospettiva ha subito una deviazione: le macchine di visione convocate sulla scena sono macchine celibi, fredde e trasparenti e quindi non più semplicemente televisive. Perché se da un lato la televisione funziona in realtà come un sistema di comunicazione planetario, dall’altro, ad un livello più basso, l’immagine televisiva ha una sua grana particolare, una sua tipologia d’inquadratura. Ouramdane, dopo una prima fase di ricerca sull’immagine televisiva, si concentra su una nozione purificata e, siamo tentati di dire, più astratta, dell’immagine videografica.
L’attenzione è focalizzata sui meccanismi (non solo tecnici) che regolano l’approccio videografico, in rapporto con una materia viva e vibrante come il corpo e il movimento. L’apparato tecnico produce un gioco complesso di mediazioni, interrompe, come già aveva sottolineato Walter Benjamin, l’immediatezza del corpo in scena, sottoponendolo ad un serie di filtraggi, ad una progressione di stratificazioni. In un testo di preparazione allo spettacolo, A. Menicacci spiega che il dispositivo videografico “propone una prospettiva nel duplice significato: vettorializzazione dello spazio e dottrina di valori. O meglio propone (e a volte impone) la dottrina di valori contenuta in ogni vettorializzazione dello spazio”.
L’obiettivo di Ouramdane non è di redigere una critica della ragione televisiva o videografica, ma piuttosto di esplorare gli strati di senso indotti dall’intermediazione videografica: durante tutto lo spettacolo, i danzatori si filmano e gli schermi proiettano degli enormi ritratti perturbanti e irrequieti. La materia coreografica si costruisce e decostruisce nell’alveo di un repertorio di forme, di gesti e di posture connotate : poetica del “déjà vu” (in fondo, come aveva mostrato Mario Perniola, l’immagine video propone sempre un’immagine “second hand”, un universo “già visto”). Il movimento dei danzatori si cristallizza spesso nei modi ossessivi di una sorta di nevrosi, o di sclerosi che evoca delle figure divenute stereotipi. La danza s’intreccia con dei momenti quasi narrativi, s’innesta negli interstizi lasciati liberi dagli schermi e dai tiri incrociati delle telecamere. Implacabile, Ouramdane non smette di interrogare i diversi statuti dell’immagine, sottomettendo il corpo al gioco delle stratificazioni culturali, delle migrazioni identitarie. Come il corpo divenuto immagine, anche il movimento è un oggetto culturale.
In una scena molto riuscita, le espressioni dei volti si modificano lentamente, evocando una galleria di ritratti pittorici, che vanno dal Greco a Caravaggio, a Zurbaran (sottolineati dall’utilizzo del “chiaroscuro”): sorta di morphing di stereotipi fisiognomici.
Come già in Au Bord des Métaphores, Ouramdane utilizza un’organizzazione delle ‘scene’ secondo un metodo estremamente rigoroso: successione netta di segmenti entropici. Entropici perché si costruiscono ciascuno su di un’azione, un dispositivo propulsivo sfruttato fino all’esaurimento. Un segmento dopo l’altro. I richiami, le sovrapposizioni sono rare.
Oltre all’immagine video, in + ou – là vengono utilizzate non solo delle tecnologie di trattamento sonoro ma anche dei software di editing video in tempo reale, come Isadora (il suono è curato da F. Nogray e F. Voisin e per la sezione tecnologica Ouramdane si è avvalso della consulenza di A. Menicacci di anomos). In alcune scene le tecnologie si appropriano del suono, di frammenti musicali connotati e lo modificano con degli effetti di grande suggestione.
+ ou – là segna una tappa molto importante nell’appropriazione dei nuovi strumenti non solo tecnologici ma anche drammaturgici da parte di una generazione di giovani artisti parigini di grande talento. Finalmente il video, le interfacce digitali perdono la loro dimensione decorativa e ritornano dispositivi. Come spiega Anne-Marie Duguet, “allo stesso tempo macchina e macchinazione (nel senso della méchané greca), ogni dispositivo tende a produrre degli effetti specifici. In quanto assemblaggio dei pezzi d’un meccanismo, é un sistema generatore, che struttura l’esperienza sensibile ogni volta in un modo specifico. Più che una semplice organizzazione tecnica, il dispositivo mette in gioco differenti istanze d’enunciazione o di figurazione e trasforma le situazioni istituzionali in processi di percezione” .
Il dispositivo investe e riconfigura la scena non in quanto scenografia ma in quanto ambiente esperienziale. Questa nuova nozione di scena (e di conseguenza di scrittura drammaturgica e coreografica) è già presente in nuce in + ou – là. Ma Ouramdane è ancora, senza dubbio a ragione, occupato a districare i labirinti dell’immagine. Non vuole, senza dubbio a ragione, forzare le tappe, ma procedere con delle fasi di sperimentazione progressiva, che non escludono l’utilizzo di forme artistiche diverse, come ad esempio l’installazione.
Forse perché il sistema chiuso di + ou – là, basato sul “circolo vizioso” delle telecamere e degli schermi, possa aprirsi per includere infine lo spettatore, sarà necessario sacrificare la nozione di spettacolo.

Emanuele_Quinz




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