Le recensioni di “ateatro”: I pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht

Regia di Armando Punzo, Volterrateatro 2003

Pubblicato il 18/08/2003 / di / ateatro n. 056

I riferimenti al presente sono evidenti sin dall’’inizio, da quando cioè omini sghembi e caricaturali attraversano lo spazio scenico con enormi cartelli vergati a mano su cui è possibile leggere la temperatura del giorno: trentotto gradi di afa irrespirabile nel pomeriggio infuocato al carcere di Volterra. Di lì a poco la denuncia della condizione carceraria si fa ancora più esplicita: improvvisando uno scanzonato piano bar, l’’attore-detenuto Vincenzo Lo Monaco ammannisce lazzi e battutacce irriverenti contro i governanti di turno, intonando canzoncine sulle arie di Kurt Weill a proposito di un indultino che, vergognosamente, non riesce a prendere corpo.
L’’uso di cartelloni, di proiezioni e di song era il tratto distintivo del teatro epico che amava glossare, smontare e interrompere, davanti agli occhi del pubblico, il ritmo drammatico dello spettacolo. Con un omaggio esplicito alla drammaturgia dello smascheramento ha dunque inizio un coloratissimo «cabaret chantant» – I pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht – l’ultima fatica della Compagnia della Fortezza che, sotto la guida del regista Armando Punzo, si appresta a festeggiare i quindici anni di attività teatrale. Si celebra l’attualità di Bertolt Brecht e della sua famosa antiopera – Die Dreigroschenoper – dramma buffo di un mondo votato alla perdizione in cui ladri e sfruttatori sono vittime dello stesso sistema e dove si dimostra il fondamentale assunto politico secondo cui i metodi della malavita e quelli dei gentiluomini si equivalgono.

Foto di Stefano Vaja.

Nello spazio nero pece a bagliori rossastri allestito al pian terreno del carcere, prende vita uno strepitoso can can percorso da toni e atmosfere espressionistiche stile Weimar anni Venti con il Nazismo in irresistibile ascesa. Militari che sembrano usciti dal pennello di George Grosz passeggiano impettiti lungo il camminamento antistante la scena, intrattenendosi in atteggiamenti sconci con atletici travestiti coperti di lustrini e lamé. A un certo punto fa la sua comparsa anche Polly, avvolta nell’abito nuziale (l’ennesimo attore detenuto travestito) in compagnia del padre Peachum, re dei mendicanti, e del suo sposo Mackie Messer, re dei rapinatori. Agghindati come moderni gangster, doppiopetto scuro e occhiali da sole, gli attori si abbandonano a lascivi toccamenti o si accatastano in coiti simulati con la novella sposina senza però prendersi troppo sul serio. Nella bolgia carnevalesca di questo assurdo tabarin carcerario non mancano neppure due esponenti del clero: baconiani cardinali rosso porpora spenzolano da praticabili sopraelevati o si posizionano, come ballerini di fila à la chorus line, su tavole scenografate di sghimbescio, quasi si trattasse di una composizione protocubista in cui si è perduta la prospettiva e dove tutto si mostra in simultaneità di visione. E poi ancora prostitute, furfanti, miserabili di ogni tipo, ognuno a far mostra di qualche abilità, ognuno prigioniero di un universo sempre uguale in cui violenza e sopraffazione rappresentano il linguaggio condiviso. Una violenza, va detto, che si afferma e ha la meglio se legalizzata e istituzionale.
Ma il messaggio di fondo non è mai “a tesi” o volutamente engagé: è un’umanità da operetta quella che sfila davanti agli attoniti spettatori, messi a dura prova dalla temperatura tropicale e traditi nelle aspettative di uno scavo testuale e drammaturgico sull’opera di Brecht. Secondo le parole dello stesso Punzo, “Brecht va tradito. Dal tradimento della forma può rinascere la vita. Non ci si può fermare al senso, alle parole, alla forma della sua drammaturgia. Bisogna risalire alle motivazioni che si possono intuire dietro la forma del testo. Bisogna riscrivere con fedeltà. Esser fedeli tradendolo. Del testo cancellare i legami, le corrispondenze, la successione, dilatare una parola, accordarsi con il suono, stemperare un’’immagine, far emergere un particolare”.
E il tradimento all’ortodossia brechtiana è manifesto anche nel montaggio dei testi: nel crescendo di danze, musiche e verbigerazioni si riconoscono, è vero, i dialoghi dei personaggi dell’Opera da tre soldi (spesso attualizzati in chiave parodica) ma è possibile rinvenire, allo stesso tempo, l’’ultimo Nietzsche di Ecce Homo, passi veterotestamentari dall’’Apocalisse, stralci delle canzoni di Marilyn Manson. E poi c’’è la musica, tantissima musica, a far da collante tra i diversi elementi, ad alimentare l’aspettativa di una chiusa dissacrante e provocatoria contro buonismi e false ideologie.
Registrata come base per improbabili assoli, sparata a palla per forsennate tecno-dance, sussurrata suadente dalla voce di Carla Bruni (Il cielo in una stanza) o, addirittura, eseguita dal vivo (dalla Banda di Pomarance e da un complessino rock affatto pregevole), la musica accompagna l’’intero evento teatrale stemperando di gioia e risate l’’asfittico bunker della Fortezza. E’ così che nel finale gli spettatori si uniscono al festante corteo di attori detenuti, cantando e ballando al ritmo di Caparezza che, significativamente, scandisce un liberatorio “Sono fuori dal tunnel”.

La recensione di Anna Maria Monteverdi a I pescecani si cut-up.

I pescecani ovvero quel che resta di Bertolt Brecht
regia di Armando Punzo
Compagnia della Fortezza
Volterrateatro, luglio 2003

Alessandra_Giuntoni

2003-08-18T00:00:00




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