Correlati neurologici del Verfremdungseffekt brechtiano

Perché l'"effetto di straniamento" tornerà di moda

Pubblicato il 13/01/2003 / di / ateatro n. 048

“Bisogna supporre che la facoltà di produrre somiglianze – per esempio nelle danze, la cui più antica funzione è appunto questa -, e quindi anche quella di riconoscerle, si è trasformata nel corso della storia.”
Walter Benjamin, Sulla facoltà mimetica

I teatranti lo sanno da sempre: la comprensione e la comunicazione non passano solo attraverso i sensi (in teatro principalmente la vista e l’udito) e il cervello (la mente), ovvero attraverso una serie di segni e la loro decodificazione, ma anche attraverso il corpo.
Alcuni recenti studi nel campo delle neuroscienze e delle scienze cognitive, resi possibili da nuove tecniche, sembrano confermare questa tesi: i processi cognitivi sono profondamente radicati tanto nell’ambiente che ci circonda quanto nel nostro corpo. In particolare, i sistemi di cellule cerebrali che mettono in moto un determinato muscolo non vengono attivati solo quando produciamo quel determinato gesto, ma anche quando immaginiamo di compierlo, quando vediamo un altro essere umano che lo compie, quando impariamo attraverso l’imitazione. E si attivano persino quando cerchiamo di comprendere le espressioni del volto di un altro essere umano (e di interpretare le sue emozioni) o di capire le sue parole (quando si attivano i neuroni che usiamo per mettere in moto i muscoli necessari ad articolare quei fonemi).
Non è una impostazione del tutto nuova, quella che lega intimamente la percezione al movimento e al gesto. Nel 1952 Roger Sperry aveva scritto:

“La percezione è in sostanza la preparazione implicita di una reazione. La sua funzione è di preparare l’organismo all’azione adattativa. Il problema di quello che accade nel cervello durante la percezione può essere affrontato con una efficacia molto maggiore dopo che questo principio è stato riconosciuto.”

Negli ultimi anni varie ricerche sono partite proprio da questo principio, e stanno portando a una serie di scoperte di notevole significato, ma ancora frammentarie. Se verranno confermate e ricondotte in uno scenario coerente, avranno importanti ricadute in diversi settori: dalla medicina alla pedagogia, dalla psicologia all’estetica – a cominciare dalle arti del corpo, la danza e il teatro. Diventa dunque interessante iniziare a valutare le possibili implicazioni di queste ipotesi sulle teorie della scena.
A partire dagli studi ottocenteschi di Broca e Wernicke, sappiamo che le diverse aree del cervello – e in particolare della corteccia cerebrale – svolgono funzioni precise. Ci sono aree dedicate alla visione, al linguaggio, alla musica, alla matematica (naturalmente non è così semplice: nello svolgimento di alcune funzioni complesse come quelle appena menzionate vengono attivate contemporaneamente diverse aree del cervello; e a volte la divisione dei compiti è assai sorprendente: se dobbiamo fare un calcolo preciso come “745 diviso 15” oppure se facciamo un calcolo “a occhio”, per esempio “l’8 è più vicino al 2 o al 10?”, vengono attivate aree differenti).
Per comprendere quali siano le aree preposte a un determinata funzione, fino a qualche tempo fa esisteva una sola possibilità: si prendevano in esame pazienti che avevano subito lesioni in determinate aree del cervello (soprattutto feriti in guerra o in incidenti) e se ne studiavano le anomalie del comportamento e della percezione; in alternativa, si effettuavano esami autoptici su pazienti che avevano manifestato disturbi neurologici per vedere le zone del loro cervello eventualmente danneggiate da lesioni, tumori, trombi eccetera.
Negli ultimi decenni, attraverso varie tecniche sempre più raffinate, è diventato possibile osservare in dettaglio istante per istante l’attività cerebrale di individui sani e dunque monitorare le aree del cervello che vengono attivate nello svolgimento di un determinato compito (quelle che vengono maggiormente irrorate dai vasi sanguigni). Grazie alla PET (tomografia a emissione di positroni) e alla fMRI (risonanza magnetica funzionale), ma anche studiando la risposta di resistenza cutanea, la variazione dei potenziali elettrici e dei campi magnetici relativi misurati sul cuoio capelluto e la variazione dei potenziali elettrici misurati direttamente sulla superficie del cervello nel corso di interventi chirurgici, è diventato possibile identificare le aree interessate allo svolgimento di precisi compiti: a questa mappatura si stanno dedicando in questi anni numerosi ricercatori (anche in Italia, in particolare nelle Università di Parma e Ferrara). (Per una mappa del cervello online vedi The Brain Atlas.)
Tra gli esperimenti effettuati in questa direzione, alcuni cercano di capire quello che accade quando vediamo un essere umano svolgere un determinato compito (per esempio giocare a tennis oppure danzare), oppure quando lo imitiamo (si tratta evidentemente di studi che riguardano da vicino la sfera dell’apprendimento). Altre ricerche si concentrano sulla comprensione del linguaggio, altri ancora sull’interpretazione delle emozioni attraverso le espressioni del viso.
E’ forse prematuro trarre conclusioni di carattere generale, ma sembra emergere un elemento comune: nello svolgimento di questi compiti, nel nostro cervello vengono attivate le aree sensomotorie. E’ come se nel nostro cervello entrassero in azione i neuroni che mettono in moto quei gesti, quelle espressioni, quegli atteggiamenti – senza però effettuarli, e senza che ce ne accorgiamo. In altri termini, ricostruiamo inconsapevolmente una nostra rappresentazione “interna”, “corporea” dei comportamenti che osserviamo.
Per i ricercatori, questa scoperta ha varie implicazioni. In primo luogo, assegna un ruolo assai significativo all’imitazione – tanto da fare ipotizzare che il comportamento imitativo sia geneticamente programmato; peraltro già Aristotele, all’inizio della Poetica, scriveva:

“l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali) (…) tutti traggono piacere dalle imitazioni”.

In secondo luogo, queste mappe potrebbero essere alla base del fenomeno di simpatia o empatia, o risonanza emotiva, che scatta tra due esseri umani; e (ipotesi numero tre) questa simpatia può costituire la base neurologica (dunque biologica) dell’altruismo.
Se tutto questo fosse vero, non sarebbe assurdo ipotizzare che lo stesso meccanismo sottenda il doppio cardine dell’estetica teatrale aristotelica, quello della mimesi e della catarsi, basato sull’empatia dello spettatore nei confronti del personaggio:

“Tragedia è dunque imitazione (mimesis) di un’azione seria e compiuta, (…) di persone che agiscono (…), la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione (katharsis) di siffatte emozioni.

In questo scenario, la comunicazione dell’attore e del danzatore non passa dunque solo attraverso una serie di segni verbali o gestuali (da decifrare come le lettere e le parole di questa pagina in base a un dizionario mentale di segni), ma crea anche profondi fenomeni di risonanza corporea che sono determinanti nella compresione.
Alcuni recenti studi di grande interesse – come quello di Jean Decety e Thierry Chaminade, Neural correlates for feeling simpathy – ruotano intorno al problema dell’empatia e delle basi neurologiche dell’altruismo – e usano nella sperimentazione tecniche che possono essere definite “teatrali”.
Per valutare le reazioni di simpatia-empatia nei confronti di un altro essere umano, l’équipe del professor Decety ha scritto 24 storie, 12 “neutre” e 12 “tristi” (tratte dalla vita quotidiana o da cronache giornalistiche); ha scritturato un gruppo di attori e ha chiesto loro di narrare queste storie in diverse maniere, ovvero con diverse espressioni (MEE, motor expression of emotion, espressione motoria delle emozioni): espressione triste, espressione neutra, espressione felice. Insomma, un attore poteva narrare una storia triste con espressione triste (TT), neutra (TN) o allegra (TA); e una storia neutra con espressione triste (NT), neutra (NN) e allegra (NA). Allo spettatore-cavia, che assisteva a queste interpretazioni (registrate e presentate attraverso un video), è stato chiesto di definire l’emozione trasmessa dall’attore-narratore e di valutare la simpatia che provavano nei suoi confronti (una delle ipotesi dei ricercatori è che una discrepanza tra contenuto ed espressione avrebbe suscitato scarsa simpatia, perché un tale comportamento viola norme socialmente accettate), mentre venivano misurati i livelli di attività nella varie aree della loro corteccia cerebrale.
I risultati hanno confermato le ipotesi dei ricercatori, ma hanno anche portato a qualche interessante sorpresa.
Per quanto riguarda il contenuto delle storie, quelle tristi, comunque vengano narrate, attivano le aree che sappiamo coinvolte nella gestione delle emozioni, ma anche quelle che permettono di costruire una rappresentazione inconscia del comportamento osservato (una “rappresentazione condivisa” in cui l’io prende il punto di vista dell’altro).
L’espressione motoria delle emozioni (MEE), indipendentemente dal contenuto delle storie, attiva il flusso sanguigno in alcune aree del cervello. L’espressione allegra non attiva le aree legate alle emozioni o alla simulazione, ma solo quelle visive. Nei casi in cui il contenuto e l’espressione coincidono (TT) e scatta una più forte simpatia, vengono attivate sia le aree delle emozioni sia quelle motorie. Invece di fronte a una forte discrepanza tra contenuto ed espressione (in particolare TA, una storia triste narrata con espressione allegra, per esempio un’attrice che narra sorridendo la morte della madre), la reazione è completamente diversa: la simpatia non scatta, non si attivano le aree della “rappresentazione condivisa” ma quelle che solitamente entrano in azione quando dobbiamo gestire conflitti sia sociali sia sensomotori. Inoltre questa combinazione ha anche accresciuto la conduttività elettrica cutanea, una condizione solitamente associata alla eccitazione emotiva (in situazione di maggiore empatia, la conduttività cutanea è decisamente minore).
Il fatto che la stessa storia, narrata con espressione triste o con espressione allegra, produca effetti neurologici così diversi è sorprendente e significativo.
In TT viene riprodotta una situazione “normale”, “naturale”: insomma, un testo ben recitato da un attore che si “immedesima” nel personaggio. In TA invece ci troviamo di fronte a una situazione “insolita”, “innaturale”, “socialmente non appropriata”, ovvero un copione mal recitato da un interprete che non riesce ad annullare la distanza tra sé e il personaggio e che anzi la accresce. Ma per chiunque abbia familiarità con le teorie estetiche del teatro, TA rappresenta un classico esempio di Verfremdungseffekt (effetto di straniamento), soprattutto se contrapposto ad altre situazioni (TT) caratterizzate da simpatia ed empatia – che al contrario potrebbero esemplificare situazioni più vicine a una impostazione aristotelica.

“Non è difficile rendersi conto che rinunziare all’immedesimazione rappresenterebbe, per il teatro, una decisione d’immensa portata – sarebbe forse il più grande di tutti gli esperimenti immaginabili.
La gente va a teatro per venire trascinata, ammaliata, impressionata, per elevarsi, inorridire, commuoversi, appassionarsi, liberarsi, distrarsi, redimersi, scuotersi, strapparsi al proprio tempo – per farsi riempire di illusioni. Tutto ciò è talmente sottinteso che i concetti di liberazione, rapimento, elevazione ecc. sono parte costitutiva della definizione stessa di arte. Se l’arte non fa tutto questo, non è arte.
La questione dunque era questa, dunque: il godimento artistico, in generale, è possibile senza immedesimazione, o comunque, è possibile procurarlo muovendo da una base diversa?
E che cosa avrebbe potuto fornirci questa nuova base?”
(Bertolt Brecht, 1959)

Per sfuggire alle strettoie aristoteliche (e stanislavskiane), Brecht costruì una teoria estetica alternativa, quella del teatro epico, centrata sul Verfremdungseffekt. Così caratterizzava lo straniamento nell’ammonimento rivolto dagli attori al pubblico all’inizio de L’eccezione e la regola:

“Sotto il quotidiano scoprite l’inspiegabile
Dietro la regola consacrata decifrate l’assurdo.
Diffidate del minimo gesto, pur semplice in apparenza.
Non accettate supinamente la consuetudine tramandata,
cercatene la necessità.
Vi preghiamo, non dite “è naturale”
di fronte agli avvenimenti di ogni giorno.
In un’epoca in cui regna l’anarchia,
in cui corre il sangue, in cui il disordine è un ordine
e l’arbitrarietà prende forza di legge, e l’umanità si disumanizza…
Non dite mai: “è naturale”, affinché nulla passi per immutabile.”

Lo straniamento presuppone dunque un coinvolgimento non emotivo bensì cognitivo da parte dello spettatore.

“Che cos’è lo straniamento?
Straniare una vicenda o il carattere di un personaggio significa in primo luogo togliere semplicemente al personaggio o alla vicenda qualsiasi elemento sottinteso, noto, lampante, e farne oggetto di stupore e curiosità. (…) Straniare significa dunque storicizzare, significa rappresentare fatti e personaggi come storici e perciò stesso effimeri.”
(Brecht, 1959)

Almeno a giudicare dall’esperimento di Decety e Chaminade, è particolarmente significativo il fatto che nel caso di una interpretazione “straniata” vengano attivate aree che gestiscono i conflitti – evidenziando dunque un tipo di ricezione completamente diverso rispetto a una recitazione immedesimata, stanislavskiana. Chi avrebbe potuto immaginare che l’estetica brechtiana fosse così “biologicamente” politica?
Peraltro la questione della ricezione non è di secondaria importanza nel nostro rapporto con la rappresentazione, e in generale con le arti e i mass media. Al termine della sua storia della retorica, Roland Barthes (che dello straniamento è stato studioso e agit-prop in Francia, ai tempi in cui lavorava a “Théâtre Populaire”, un’esperienza certamente fondante nella sua parabola di studioso dei segni), scriveva:

“C’è una sorta d’accordo ostinato tra Aristotele (da cui è uscita la retorica) e la cultura detta di massa, come se l’aristotelismo, morto fin dal Rinascimento come filosofia e come logica, morto come estetica dal romanticismo, sopravvisse (sic) allo stato degradato, diffuso, inarticolato, nella pratica culturale delle società occidentali – pratica fondata, attraverso la democrazia, sì d’una ideologia del “maggior numero”, della norma maggioritaria, dell’opinione corrente: tutto indica che una sorta di vulgata aristotelica definisce ancora un tipo di Occidente trans-storico, una civiltà (la nostra) che è quella degli endoxa: come evitare questa evidenza che Aristotele (poetico, logico, retorico) fornisce a tutto il linguaggio, narrativo, discorsivo, argomentativo, che viene veicolato dalle “comunicazioni di massa”, una griglia analitica completa (a partire dalla nozione di “verisimile”) e che questo rappresenta quell’omogeneità ottimale d’un metalinguaggio e d’un linguaggio-oggetto che può definire una scienza applicata? In regime democratico, l’aristotelismo sarebbe allora la migliore delle sociologie culturali.”

Milano, 1° gennaio 2003

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