Gli Album di Marco Paolini: un dossier

Dall'archivio di ateatro

Pubblicato il 09/02/2005 / di / ateatro n. 081

Libera nos

Luigi Meneghello è una delle più grandi voci della letteratura italiana contemporanea: i suoi romanzi, a partire da Libera nos a Malo, costituiscono la più precisa e partecipata radiografia della “vita di paese”, così come l’ha vissuta la maggioranza degli italiani, fino a tempi non troppo lontani. Era inevitabile che prima o poi alcune delle sue pagine venissero risucchiate verso il palcoscenico, per recuperare la loro dimensione originaria di parola “detta”.
Nelle pagine di Meneghello si stratificano la nostalgia per un mondo scomparso e la denuncia dei dolori che l’abitavano, la consapevolezza dei motivi che l’hanno cancellato e il rimpianto per quello che avrebbe potuto diventare e non è stato, la rievocazione puntigliosa dei suoi valori, l’omaggio struggente ai suoi sapori, odori, pudori, la memoria delle sue parole e dei suoi dialetti. Composte nella trincea che separa e congiunge lingua e dialetto, tra una scrittura destinata a “restare” e una oralità destinata a scomparire (o a modificarsi radicalmente), le opere di Meneghello scintillano di ironia, finte ingenuità, di giudizi spesso impliciti ma non meno sarcastici e profondi.
Il merito della proposta è del Teatro Settimo, che in Libera nos si è ispirato ai frammenti del romanzo più noto di Meneghello. Una scelta coerente, da parte di una compagnia impegnata negli ultimi anni a ricostruire una memoria storica e poetica, per recuperare un legame con una “Italia dei padri” cancellata da una trasformazione frenetica e furibonda. È un tentativo generoso, e in parte velleitario (non conservazione di stampo etnologico-antropologico, ma reinvenzione mediata dalla scrittura): ma bisogna in ogni caso essere grati a chi cerca di prescrivere un rapporto non consolatorio con le comuni radici perdute (e, forse, con un rimosso che può riemergere con imprevedibile prepotenza, e con le radici sotterranee della sociologia e della morale italiana).
Lo spettacolo, diretto da Gabriele Vacis, è costruito con grande semplicità intorno a una struttura scenica (Lucio Diana) leggera e versatile, con due veli paralleli sorretti da un telaio sospeso, utilizzando pochissimi oggetti e affidandosi totalmente alla prosa di Meneghello nel labirintico romanzo Libera nos a Malo (dove Malo è anche il luogo in cui Meneghello nacque e l’oggetto della sua opera) è stato prosciugato della dimensione saggistica e corale per raccontare infanzia e adolescenza d’un ristretto gruppo maschile, rivissute per frammenti e apologhi.
Il racconto è godibile e divertente, a volte toccante; e gli interpreti (Marco Paolini e Mirco Artuso, bravissimi) sullo sempre comunicativi e efficaci. Anche se non si può pretendere la perfezione della ricostruzione filologica delle diverse parlate di Malo, le pagine di Meneghello non perdono la loro forza e l’imprevedibile ironia, la loro disincantata saggezza e la felicità della lingua. A tratti, emerge anche la dimensione segretamente teatrale della vita di paese, con i rituali e l’intreccio degli sguardi, delle presenze, il piacere del racconto, il rimbalzare continuo tra l’autentico, il concreto del dialetto e il recitato, la retorica dell’italiano: da un lato un’interiorità immediata (e a volte lancinante), dall’altro un’esteriorità convenzionale, pronta a far scattare, all’incontro, scintille di irresistibile e dissacrante comicità: fino a trasformare gli eventi quotidiani in vere gag.
Passando dalla memoria (quella sempre viva e sorprendente di Meneghello e di chi come lui la vita di paese l’ha vissuta) alla reinvenzione (da parte di chi di quel mondo non ha partecipato), finisce inevitabilmente per essere privilegiato un approccio favolistico, la nostalgia di un’infanzia cristallizzata nel mito. Rimane la disperata dichiarazione d’amore, ma scompare quasi del tutto il sofferto atto d’accusa. Rimuovendo le sofferenze e il rancore, svanisce anche la disperazione; ma con essa finisce per dissolversi anche la speranza: quella speranza rabbiosa e ingenua, fatta di fantasticherie e illusioni, che popolava le notti e i sogni di quell’epoca.
Ma questo, forse, è un tratto che divide gli adolescenti della Malo degli anni intorno alla guerra da chi è cresciuto negli ultimi decenni. Resta, ad accomunare spettacolo e libro, una struggente tenerezza, che non è difficile scoprire sotto la scorza del disincanto.
(1988)

Gli Album

Come recuperare il rapporto con la propria infanzia, con la propria storia personale? E come comunicare una esperienza collettiva alle altre generazioni? “Attraverso il racconto”, risponde Marco Paolini, che in una serie di spettacoli (finora sono tre, diretti da Gabriele Vacis e raccolti sotto il titolo collettivo di Album) è partito in un viaggio nella memoria individuale e collettiva.
In principio (nel 1987) c’era uno spettacolo per bambini, Adriatico, che rievoca una esilarante vacanza in colonia. Siamo nel 1964 e il piccolo Nicola, che sarà anche il protagonista dei successivi Tiri in porta (1990) e Liberi tutti (1992), ha otto anni.
Il problema è che Adriatico, oltre che divertire i bambini, fa scattare il meccanismo del ricordo nei “grandi”, che si riconoscono immediatamente in una avventura lontana nel tempo ma che evidentemente fa rivivere un’esperienza di vita assai diffusa. Tra autobiografia e lessico familiare, i monologhi dell'”Album” iniziano così a esplorare una geografia sentimentale dell’infanzia e dell’adolescenza, affettuosa e ironica, in cui vengono ricostruite le varie tappe di un’educazione alla vita negli anni Sessanta e Settanta.
Adriatico racconta il primo trauma, quello del distacco dalla famiglia e della scoperta del mondo e degli altri, sulla spiaggia sabbiosa e nelle camerate della colonia “Le Navi” di Cattolica, guidati dalla mai dimenticata “signorina Susanna”. Tiri in porta, ambientato tra calcio e calcetto in quello stesso 1964, fa rivivere il piacere del gruppo, della banda. Gli amici sono quelli di sempre: Ciccio Pavan che dimagrirà miracolosamente tra i 13 e i 14 anni, Ennio Mosca che gioca a pallone col cappotto perché ha avuto l’asma da piccolo, l’imbranato Cesarino cocco di maestre e parroci, Gianvittorio l’amico ricco con un po’ di puzza sotto il naso ma che non si tira indietro, e Pieretto detto il Nano, basso e concreto… È ancora un mondo dove le diverse classi sociali possono incontrarsi, vivere le stesse esperienze, scoprire il mondo intrecciando i diversi punti di vista. Con Liberi tutti entriamo in un periodo un po’ più vago, rivisitato con qualche piccola forzatura cronologica e compreso tra il ’69 e il ’73: l’epoca delle prime ribellioni e trasgressioni, tra l’esempio della ribellione dei più grandi e la voglia di esserci. Quando a dodici anni si decide di non andare più a messa (“Parché?”, “Parché so comunista!”, e la devota Nonna si segna e esclama “Rovina!”). Quando si organizza il primo grande sciopero dei chierichetti (con inevitabile crumiro) contro il parroco che sequestra gli strumenti allora indispensabili all’autoeducazione sessuale: “Diabolik” e “Satanik”, “Messalina” e “Jakula”. Quando un piccolo gruppo di Wilhelm Meister di provincia e parrocchia, all’insaputa del temutissimo Don Bernardo (che crede che stiano provando La locandiera di Goldoni) allestisce “clandestinamente” un dramma didattico di Brecht. Quando in uno di quei Capodanni dove ancora non si capisce bene a cosa servano le ragazze (che non ci sono) ed esplode la disperazione dell’adolescenza, si affronta la prima grande sbronza della vita. Quando nell’amico più grande, Barbin Cursari arrivato da Rovigo, si incontra il proprio eroe e si scopre la politica. Quando ci si rifugia in un vecchio vagone merci abbandonato su un binario morto e ribattezzato “Lucio Battisti” per ascoltare lo scandaloso Je t’aime. Moi non plus
I programmi di sala dedicano Adriatico a Le Petit Nicolas di René Goscinny; Tiri in porta a I ragazzi della via Paal; e Liberi tutti a La guerra dei bottoni. Quasi a sottolineare il legame con i fumetti, la letteratura e i film per l’infanzia, in quello che hanno di giocoso e di patetico, di divertente e di tragico. Ma Paolini è veneto: e il suo alter ego Nicola, da un casolare del bellunese, che ancora mantiene i legami con il passato contadino (la soffitta piena di mele…), si trasferirà in un condominio e adotterà uno stile di vita un po’ più cittadino, a Treviso. Così sul versante letterario il precedente immediato sembra piuttosto il Meneghello di Libera nos a Malo (che Paolini aveva a suo tempo adattato per le scene) e Bau Sète. In scena, nella capacità di reinventarsi in decine di personaggi, nel giocare tra le diverse parlate, nei ritmi insieme clowneschi e cinematografici, Paolini ricorda invece le capacità mimetiche e gestuali del solitario e multiforme Dario Fo di Mistero Buffo. La mania archeologico-classificatoria, che spinge a recuperare dall’oblio i giochi, i passatempi, le leccorinie e i gadgets del passato rimanda infine alle contro-enciclopedie e alle anti-pedagogie di Giampaolo Dossena: perché nei suoi spettacoli hanno un ruolo da protagoniosta le varie armi improprie dell’infanzia (archi, frecce, piroli, cerbottane…) e soprattutto le figurine dei calciatori e le biglie dei ciclisti (che saranno sostituite pochi mesi dopo dalla galleria dei maîtres à penser: Sartre e Pasolini, Che Guevara e Bob Dylan, Marcuse e la beat generation…).
Non a caso il meccanismo che permette di passare dal livello individuale a quello collettivo è proprio quello dell'”Album”, totalmente inutile e assolutamente indispensabile, con il suo catalogo di casualità e la sua smania di completezza. Nel ricostruire la propria biografia, nel recuperare un passato oggi silenzioso e forse perduto, si attraversa inevitabilmente un ricchissimo repertorio di oggetti (il “mangiadischi”, le “minicarte”, il “calcetto”…), marche, usi e costumi, sorprendenti culti infantili e crudeli rituali di iniziazione, canzoni sceme e caroselli ancora più scemi… A ciascuno di essi è rimasto impigliato un dolore, una felicità, una paura, una scoperta, un incontro. Per un attimo, la memoria si cristallizza intorno a quel feticcio, e crea immediatamente un’occasione di riconoscimento e di scambio tra scena e platea. Gli spettatori accettano volentieri di farsi prendere all’amo da questi frammenti dimenticati e che tuttavia conservano forti risonanze emotive: l’infanzia assume così un’aura mitica e il tono del racconto da psicologico si fa epico.
Puntata dopo puntata (ce ne saranno probabilmente altre) gli “album stanno costruendo un romanzo teatrale in forma di monologo; per aneddoti e racconti, rivisitano e ricreano i luoghi della memoria, i rapporti famigliari e sociali, le emozioni segrete – ma diffuse a livello di massa – e quelle che hanno accomunato un’intera generazione.
All’epoca forse più osservatore che protagonista, più riserva che titolare, Paolini insegue così lo specifico della propria educazione famigliare, sentimentale e teatrale: il gioco è vedere quanto ci sia condivisibile da chi è venuto prima e da chi è venuto dopo, e quanto invece è peculiare a chi è cresciuto in quegli anni, in quella Italia.


Come nascono le storie:
album, appunti, racconti
una conversazione con Marco Paolini

GLI ALBUM

Gli “Album” fanno pensare al lavoro del regista tedesco Edgar Reitz: sono una specie di
Heimat all’italiana, in forma di monologo teatrale.
La differenza principale è che gli “Album” nascono senza un progetto: io non ho ancora deciso quale sarà il destino dei personaggi. Quando ho cominciato con Adriatico, la rievocazione attraverso il personaggio di Nicola mi era utile per trovare la chiave giusta, cioè la leggerezza. L’incorporeità dei personaggi è l’equivalente del gessetto rispetto ai colori della tela. La differenza tra uno schizzo e un dipinto. In letteratura la leggerezza segna probabilmente la specificità del racconto, in cui i personaggi sono soltanto accennati, rispetto al grande romanzo. In teatro questo può significare velocità, perché si può raccontare cambiando rapidamente scenario, moltiplicando i piani della narrazione. In Adriatico questa impostazione l’avevamo soltanto sfiorata; poi abbiamo deciso di mantenere il protagonista Nicola e così il suo mondo ha cominciato a spostarsi dalla colonia, dalle “Navi” di Cattolica dove è ambientato Adriatico, a un campetto di periferia, quello dove è ambientato Tiri in porta. Poi, a partire da Liberi tutti, lo scenario si allarga a una città di provincia, che è la mia.
Dove sei cresciuto? In un paese o in città?
In un quartiere di una cittadina, che era quasi un paese. Anche se poi quella città meno la nomino e meglio è, anche perché quello di cui parlo non è un luogo della geografia ma un luogo del tempo. Perché parlo sempre di cose finite, morte. Non potrei raccontare nello stesso modo una cosa viva. Un po’ maniacalmente, prendendoci a volte qualche libertà, e facendo magari qualche errore, abbiamo cercato di costruire un universo che non fosse un bluff, dove i riferimenti storici e quindi narrativi fossero fondati e riscontrabili.
C’è stato nella tua storia un altro incontro importante per capire gli “Album”: quello con l’opera di Meneghello, che ti ha ricondotto alla tua origine geografica. Un tema che è alla base dell’autobiografismo degli “Album”.
In quello straordinario film che è Heimat, Edgar Reitz dice che ci sono due patrie: una è quella dove sei nato, l’altra quella che ti scegli, che adotti, che decidi. Questa seconda patria è l’insieme delle relazioni che costruisci: la tua famiglia, i tuoi amici, eccetera. È sicuramente molto più forte dell’altra patria, quella del sangue, ma è più difficile da conservare, ed è anche difficile da tenere insieme all’altra. Per me Meneghello è un pezzo importante di questa seconda patria. In teatro provavo un’invidia profonda, assoluta, totale, per tutti i napoletani, perché – mi sembrava – chi nasce a Napoli, metà del lavoro l’ha già fatto. Attenzione: non sto parlando di folklore, di come i napoletani parlano nella vita quotidiana; sto parlando del bagaglio, del DNA degli attori napoletani. Quelli che hanno arricchito questo bagaglio tradizionale con una sufficiente dose di esperienza personale possiedono un repertorio di termini, una lingua, una quantità di parole che servono a dire le cose con una precisa e calzante aderenza: una qualità che la nostra comune, convenzionale lingua relazionale non ha. Agli attori napoletani basta un niente per far vivere le cose nelle parole: una esse, una ti, un dente, tre sillabe… Quando poi è lingua teatrale, è musica. Pensa a Moscato, a Eduardo, ma anche a Annibale Ruccello in teatro, a Pappi Corsicato nel cinema… Che invidia!
E io? Nella commedia all’italiana, il veneto è la lingua delle servette e dei carabinieri. Nella Commedia dell’arte, il dialetto veneto è la lingua dei servi; è la lingua bassa, anche nei contenuti: immediati, popolari, semplici. Comici, irresistibilmente, fatalmente comici. Poi leggi Meneghello e ritrovi la complessità, l’aderenza delle parole alle cose. Meneghello dice: “Quando muore una lingua, non muoiono soltanto dei modi di dire le cose ma muoiono anche le cose”. Parlando di aree al confine tra il vivo e il morto, Meneghello tira fuori qualcosa che mi riguarda. Qualcosa che riguarda la tomba dei miei nonni con le montagne davanti, con quella pietra che non stava mai ferma e quando ci camminavi sopra si sentiva tu-tum tu-tum tu-tum, e allora vien fuori tutta la storia delle armi dei partigiani nascoste là dentro, e dove è andato a finire mio zio, e tutta la storia della mia infanzia, e l’odore delle serre dove andavo a nascondermi terrorizzato dall’idea che venisse il padrone e mi cacciasse via… Perché da bambino avevo come posto segreto una serra di quelle dove si tiran su i fiori. Avete un’idea di quanto è tropicale l’atmosfera dentro una serra, di quanto può esserlo per un bambino? Meneghello mi ha messo in moto gli intestini, mi ha restituito legittimo orgoglio di razza: questa parola qualche anno fa non la usavo, mentre oggi parlo di razza perché per me non è soltanto quella cosa che i razzisti usano per anteporla a chi ce l’ha diversa. Nel momento in cui è successo l’ennesimo cambiamento e non c’è più stato Pasolini a raccontarcelo – perché da un certo punto in poi nessuno ci ha più raccontato così bene che cosa stava cambiando – ci siamo ritrovati orfani anche di questo: di razza. Nel senso che oggi siamo tutti senza razza. E “razza” è qualcosa di sostanziale.
E così l’idioma: non è soltanto una lingua da usare per non farsi capire, al contrario. Le cose contenute nelle parole sono piene di tracce, di sostanza, di materia. Raccontarle è un modo di toccarle: non è che si fanno resuscitare, ma ti vengono addosso, e a un certo punto può darsi che chi ti vede e ti ascolta in teatro senta che tu non sei soltanto uno come quelli, anonimo… Per strada siamo tutti anonimi, tutti uguali, dalle scuole in poi. Ma in realtà non è così. E allora io, che cosa ho da scambiare? Se ho qualcosa da scambiare e da barattare sul palco, davanti alla gente, allora è questo quello che vale… Vale – o può valere – la differenza: non perché io sia migliore, o abbia qualcosa di più. Io non voglio stare sul palco come ci stanno le star, i fenomeni, i miti, ai quali riconosciamo il carisma, una serie di qualità che li legittimano a stare sul palcoscenico. Per me il teatro non è il luogo dello show business: in teatro si sta sul palco con qualcosa di diverso, che non è quel tipo di carisma, ma che evidentemente è anche diverso dal non essere niente. E questa identità la cerco anche nell’immanenza, nella permanenza dei segni della razza.
Hai accennato al tema della legittimità.
Noi attori dobbiamo avere qualcosa che ci autorizza a dire delle cose, dobbiamo conquistarci la legittimità di testimonianza, perché di testimoni occasionali e gratuiti, di millantato credito non ce n’è bisogno. Ma come legittimare la testimonianza? Non ho una risposta precisa. Penso che c’entri una specie di ginnastica che si fa con gli antenati, con la storia di quelli che ci eleggiamo a padri, spesso andando in cerca di qualcosa di un po’ meno profano, di un cuore che non è necessariamente visibile all’esterno, che non è barattabile. Non occorre che sia completo, non è una denominazione di origine controllata, è un punto di arrivo. Nessuno di noi ha questa legittimità di testimonianza in partenza; però dentro al teatro (e non soltanto dentro al teatro) ci sono le occasioni e i tempi e le circostanze per costruirsela. Si può arrivare a costruirsi questo cuore invisibile marcando delle differenze, e quindi costruendo un’identità. Ciascuno di noi ha dei brandelli di cose che gli appartengono; non sono tutte chiare in partenza, e non so perché alcune ci appartengano più di altre: sono le ferite, le cicatrici della vita, ma anche le feste, o un modo di ballare, qualcosa che in parte abbiamo già ma in parte scegliamo. Perché se non si sceglie si resta audience, se si sceglie si fa gli attori.

1. ADRIATICO
Come sono nati gli “Album”?
Con il primo spettacolo, Adriatico, realizzato con il Teatro Settimo nel 1987. Io leggevo i racconti di Goscinny, quelli dedicati al Petit Nicholas, e li trovavo molto divertenti: è uno dei rari libri che scatenano il riso alla sola lettura. Ho pensato che sarebbe stato bello farne uno spettacolo, e ne ho parlato con Gabriele Vacis. L’importante era mantenere la leggerezza dell’originale, che contrasta con la materialità della forma drammatica, che mette in scena tutti i personaggi. Allora abbiamo tentato una scommessa: narrare. Adriatico si può raccontare in un telegramma: Nicola fa il suo primo viaggio da solo lontano dai genitori, in un luogo esotico, la colonia. Lì incontra altri bambini, vive questa avventura straordinaria: stare lontano dai genitori. Tutto diventa ovviamente bellissimo, anche se è faticoso.
Quindi si tratta di una iniziazione, di un’esperienza di libertà, anche se la colonia è un’istituzione totale.
La signorina di colonia, la signorina Susanna, un estraneo che ti diventa familiare, un deus ex machina che fa anche da garante, con quegli attributi fisici diventa anche l’incarnazione di una regola decisamente più stimolante di quella quotidiana posta dai genitori, dalla scuola e da tutto il resto.
Quali erano i vostri modelli teatrali?
Non ne avevamo. L’unico era Dario Fo, ed era un modello dal quale dovevamo allontanarci. Dovevamo trovare una chiave plausibile per raccontare l’infanzia senza bambineggiare, mantenendo però la vivezza del racconto, il suo aspetto umoristico. Lo stile si è forgiato su questo. Non abbiamo scritto il testo. Per quaranta giorni di prove, ho sceneggiato verbalmente, su una lingua orale, senza il passaggio in italiano, e dunque senza imprinting letterario. Durante questo lavoro ci siamo distaccati dall’ambientazione francese per trovare una materia italiana. Goscinny scrive negli anni Sessanta e sono riconoscibili i comportamenti psicologici dei genitori di quell’epoca. Abbiamo scelto di radicalizzare questa collocazione temporale, definendo un anno e un mese, il luglio del 1964, e abbiamo cercato una serie di riferimenti a quello che eravamo noi. La data non è stata scelta a caso: sia io sia Gabriele siamo del ’56, e nel ’64 avevamo l’età giusta per uscire dalla famiglia per la prima volta, andando in colonia. Mescolando i miei ricordi personali e quelli di altri è nata la materia di Adriatico.
Gli “Album” sono anche un teatro della memoria…
C’è uno spazio per una forma teatrale di questo genere: l’unica limitazione è la capacità di elaborare nuove storie. Il meccanismo di ricerca degli elementi precisi della memoria si è ulteriormente sistematizzato e approfondito. Per esempio, come si poteva entrare in possesso, negli anni Sessanta, di un pallone di cuoio? Il prezzo era proibitivo. La strada che mi ricordavo meglio era quella del catalogo dei punti Mira Lanza. Ma quanti punti servivano per avere il pallone? Non me lo ricordavo, per cui sono andato in cerca dei cataloghi. Non li ho trovati, alla Mira Lanza mi hanno detto che non li avevano più: l’azienda non ha un archivio, una memoria del suo aspetto promozionale e pubblicitario, solo gli archivi amministrativi. E questo è delirante.
In quei cataloghi c’è una pagina della storia del costume italiano…
…che è fatto di grandi amnesie e rimozioni. Allora ho ripiegato sulla Panini, che ha un ottimo archivio-museo storico. E un pallone si poteva avere anche con le figurine valide e bisvalide dei calciatori. Mi hanno anche dato fotocopie preziose di quegli “Album”. Questi elementi precisi mi sono indispensabili per costruire lo spettacolo. Sono elementi che a volte emergono casualmente, nel corso di conversazioni con gli amici.
Negli “Album” è dunque confluito anche molto materiale autobiografico.
Mio e di altri. L’origine del metodo è questa: a partire dal semplice accenno di una merendina nel testo di Goscinny, per esempio, abbiamo fatto una lista ragionata di tutte le merendine dell’epoca: i bambini che avevano pane-burro-marmellata, pane-burro-sale, pane-burro-zucchero, pane-buro-prosciutto, pane-burro-mortadella, quelli che avevano il Buondì Motta, quelli che avevano il Ciocorì, il Carrarmato Perugina, il Dofocrem, il Belpaese, il Formaggino Mio, il Bebè Galbani, i Ringo, i Togo, i Pavesini, il Brioss Ferrero all’albicocca, il gelato finto…
E la Fiesta e la Nutella?
La Fiesta nasceva allora, ma per me Fiesta e Nutella sono già prodotti rampanti, sono cose moderne. Infatti la Nutella, per noi, non è una di quelle cose che butti giù come i biscottini al Plasmon: mia madre non si fidava della Nutella. La Nutella è una scelta adulta. Infatti Moretti riesce a innamorarsene…

2. TIRI IN PORTA
Adriatico non era nato come uno spettacolo per adulti ma per bambini. Forse può essere curioso raccontare la storia di questa trasformazione quasi indipendente dalla volontà dei suoi artefici…
C’eravamo talmente divertiti a farlo, era evidente che piaceva anche ai pochi grandi che lo vedevano insieme ai bambini… Era uno spettacolo destinato ai ragazzi, però pensato con rigore e con una serie di attenzioni al mondo degli adulti. Per esempio all’inizio di Adriatico si dà molta importanza al fatto di doversi alzare presto alla mattina per iniziare il viaggio, perché una volta il viaggio si iniziava solo la mattina presto: c’erano dei riti legati a queste cose. Portando in giro lo spettacolo, mi sono accorto che da parte degli adulti c’era una reazione, oltre che di divertimento, di emozione, di commozione, legata anche al riconoscersi e al rispecchiarsi. E c’era anche una tendenza ad allungare la lista dei particolari con una specie di cahier de doléances di tutto quello che si era patito nelle colonie. “Ti sei dimenticato di parlare dell’infermeria”, “Ti sei dimenticato di parlare dell’alzabandiera”, eccetera. Tutte memorie che ciascuno associava alla propria colonia. Non abbiamo mai voluto fare un discorso generazionale, di nostalgia tout court, però era interessante che un lavoro sui ricordi esatti facesse scattare questo meccanismo. Naturalmente ci sono dei rischi di speculazione, in questi Amarcord tradizionali: i fruitori degli spettacoli tendono a sentirsene beneficiari in modo esclusivo. È lo stesso meccanismo che usano i comici: quando una battuta per essere colta ha bisogno di un minimo sforzo mentale, gratifica lo spettatore perché lo fa sentire intelligente. La sua preoccupazione diventa: “Ma gli altri l’avranno capita?”. Se non ci fosse la risata liberatoria di tutto il pubblico, resterebbe il dubbio; a casa, davanti alla televisione o alla radio, il dubbio potrebbe restare. La stessa cosa accadeva per gli “Album”. Chi aveva una certa età chiedeva: “Eh, ma come faranno i ragazzi a capire certe cose?”. Ma ai ragazzi non gliene può fregar di meno! La fruizione di un racconto avviene in infiniti modi diversi. Quando mio nonno mi raccontava dell’Abissinia, io non avevo nessuna esperienza diretta dell’Abissinia né del servizio militare né dei leoni. Però il mio godimento della storia era totale, non avevo nessun bisogno di capire. Invece la trappola continua a esistere, soprattutto per gli educatori: dopo aver visto Adriatico, gli insegnanti erano preoccupati perché pensavano di essersi divertiti più dei ragazzi, e dunque tendevano a negare il valore pedagogico dello spettacolo, proprio perché era troppo divertente.
Perché dopo Adriatico hai deciso di proseguire gli “Album”?
Non volevo far morire Nicola e i suoi amici. Così ho fatto Tiri in porta, che è la continuazione di Adriatico, con tutti i rischi che i sequel comportano. Oltretutto in quel periodo Gabriele Vacis era impegnato in altri progetti, e mi sono trovato a essere autore, regista e attore. Ho messo a fuoco Tiri in porta più lentamente, perché ero da solo. Alla fine è venuta fuori una cosa cattiva al punto giusto, in cui l’idea di una teatronovela con Nicola protagonista ha preso consistenza. Il destinatario erano ragazzi delle scuole medie, una fascia considerata tabù nel teatro-ragazzi.
In realtà volevo parlare del luogo in cui vivevo e giocavo, avvicinarmi alla mia infanzia. Così ho parlato di un campetto, del calcio non giocato in campi regolari ma a una porta sola, con le reti che se il pallone va di là non te lo ridanno facilmente, con le automobili che rallentavano se ti vedevano giocare, e magari qualcuno si fermava a guardare – mentre adesso vanno anche mentre i bambini continuano a giocare. Se parlo di campetti, parlo di un modo di progettazione urbanistica che edificava a macchia di leopardo, quando si costruiva quasi senza piani regolatori. Dunque i campetti sono il segno dello sviluppo edilizio che caratterizza l’Italia del secondo dopoguerra e del boom economico. Almeno da dieci anni, ormai, le nuove lottizzazioni prevedono prima le opere di urbanizzazione – strade, fognature, impianti, eccetera – e le aree a verde rispetto a quelle edificabili e poi le superfici destinate a infrastrutture e servizi. Oggi che i campetti non esistono più, sono diventati un elemento storico.
Con una punta di nostalgia…
Adriatico era un’isola felice, ma già con Tiri in porta cercavo una materia un po’ più rischiosa: allora ci ho messo dentro un mongoloide e un morto, legati a episodi della mia infanzia. Uno era un mio compagno di giochi, Oscar, che è morto. L’altro era un matto – lo chiamavamo Tano Matto – che mi faceva molta paura. Anche se lo chiamavamo Tano Matto, non era matto. Era mongoloide e aveva delle reazioni che la gente non si aspettava. A quell’epoca i mongoloidi non andavano a scuola con gli altri: o non ci andavano o andavano alle differenziali. Questo Tano non era andato a scuola, e aveva sedici anni quando noi ne avevamo otto. Questi otto anni in più ne facevano una specie di toro, con cui potevi giocare, a certe condizioni. C’era un rischio: giocare con Tano Matto era uno spasso, perché potevi prenderne un sacco… Il suo agonismo alla fine poteva sfociare in comportamenti pericolosi, se veniva provocato. Da parte nostra un po’ di cattiveria ovviamente c’era: lui rompeva la gabbia ed erano guai. Partiva alla carica e attraversava il campo di corsa… Questa frequentazione con la diversità era molto normale.
In Tiri in porta c’è la logica della partita e dello scontro.
Tiri in porta
è tornare a casa. Io ho sempre provato un sentimento preciso: quando tornavo da un viaggio, da una vacanza, provavo una leggera vergogna a incontrare di nuovo le persone che conoscevo. Mi sentivo privilegiato perché stavo tornando da una vacanza; e mi sentivo un po’ strano, come se mentre ero stato via avessi perso qualcosa. Tiri in porta – lo dico esplicitamente – si svolge in settembre, in dieci giorni esatti, tra la fine delle vacanze e l’inizio della scuola, come nel film Stand by me, che è il riferimento più immediato di quell'”Album”, anche se poi non è citato. I miei amici erano rimasti lì e se l’erano goduta, e tutto questo si traduceva in una specie di imbarazzo nel ficcare il naso fuori casa, nel salutare i vicini, nel farsi baciare da tutti quelli che ti rivedevano. Nei confronti degli amici, c’era una specie di orgoglio, perché dovevi dimostrare che dopo un mese di vacanza eri cambiato, dovevi vendergli che eri diventato qualcosa di meglio e non potevi ripartire da dove li avevi mollati. Doveva esserti successo qualcosa di talmente straordinario da giustificare il fatto che eri stato via un mese. Se no, che cazzo eri andato via a fare?

3. LIBERI TUTTI
Liberi tutti segna il momento in cui gli “Album” abbandonano l’infanzia per diventare un romanzo di formazione, e inizia l’adolescenza…
A differenza dei due “Album” precedenti, che si svolgono in un arco di tempo limitato e preciso, Liberi tutti non ha un continuum temporale. L’azione si svolge nell’arco di diversi anni, dal ’69 al ’74. Non segue una vicenda cronologicamente, ma offre una serie di schegge: la famiglia, il teatro, la religione, la musica, il circolo culturale e tutta una serie di cose che sono montate insieme, ma con dei salti evidenti. Liberi tutti è l’unico “Album” in cui si parla di scuola, a parte qualche accenno in Aprile. Dal punto di vista della composizione della storia, Liberi tutti è più “Album”, e più romanzo di formazione, anche se ha una sintassi teatrale meno classica, più frammentaria.
In Liberi tutti non ci sono più solo gli amici del quartiere, i vicini, le conoscenze obbligate, l’universo familiare o scolastico, ma Nicola comincia a scegliere la compagnia.
In Tiri in porta gli amici sono quelli del campetto, quelli delle case che ti circondano. In Liberi tutti gli amici sono il distillato di quella compagnia. C’è la tentazione di farsi amici i compagni di scuola, ma con il rischio di

Oliviero_Ponte_di_Pino

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