Libri & altro: le origini del teatro di narrazione

Gerardo Guccini e Michela Marelli, Stabat Mater. Viaggio alle fonti del 'teatro narrazione'

Pubblicato il 14/02/2005 / di / ateatro n. 081

La nascita e lo sviluppo del cosiddetto teatro di narrazione rappresentano un interessante problema storiografico (vedi anche in ateatro 79 Il critico e il professore e il numero speciale di “Hystrio” 1/2005 sul tema). Se n’è accorto da tempo Gerardo Guccini, sia nell’attenzione che la rivista “Prove di drammaturgia” sta dedicando al fenomeno, sia nell’ampio saggio che apre Stabat Mater. Viaggio alle fonti del “teatro narrazione”, il volume firmato a quattro mani con Michela Marelli (Le Ariette – Libri, Castello di Serravalle, 2004, 264 pp., 15 euro).
Stabat Mater, che prende le mosse dal lavoro di documentazione sulla anomala tournée dello spettacolo omonimo di e con Laura Curino, Lucilla Giagnoni, Mariella Fabbris e Luca Riggio, racconta attraverso testimonianze, testi, brani di diario, fotografie e persino un fumetto, un’esperienza che ha rivelato e sedimentato alcuni elementi chiave di un genere destinato ad avere grande fortuna. Quasi reagendo a una situazione di stallo, o forse all’impossibilità di portare a compimento la messinscena di uno spettacolo che avrebbe dovuto essere firmato da Roberto Tarasco, i quattro attori di Teatro Settimo decidono di partire con un pullmino per una tournée povera, avventurosa e totalmente autogestita, in cui presentare in case, retrobottega, biblioteche, foresterie, refettori di conventi, chiostri, case coloniche, eccetera eccetera i materiali fin lì accumulati, in una sorta di baratto: lo spettacolo in cambio di vitto e alloggio, e colletta finale tra gli spettatori. Pochi giorni dopo la partenza, le attrici – alla ricerca di una identificazione totale tra teatro e vita – decidono di tenere addosso anche fuori scena i costumi di scena, gli abiti delle tre sorelle che nella finzione spettacolare narrano i loro ricordi. Dunque un viaggio sul confine tra teatro e vita, che partendo dal metodo di lavoro di un gruppo come quello diretto da Gabriele Vacis approda a esiti imprevedibili, prima nel corso di tre avventurosi viaggi, nell’inverno 1989-90, e poi nelle repliche che seguono, fino al 1997. E’ una vicenda in apparenza marginale che però catalizza riflessioni, saperi, relazioni, scambi, atteggiamenti destinati a sviluppi imprevedibili e fecondi…
Perché, al di là dell’intensità dello spettacolo, Stabat Mater ha certo contribuito a mettere a punto la figura del narratore, con illuminazioni che hanno interessato da vicino e coinvolto gli altri due “padri fondatori” del genere, Marco Paolini (che all’epoca faceva parte di Teatro Settimo) e Marco Baliani, che con Maria Maglietta ha intrecciato e seguito da vicino questa esperienza, proprio mentre metteva a fuoco la sua riflessione sulla narrazione e sul narratore, poi approdata al fondamentale volumetto Pensieri di un raccontatore di storie (1991).
Anzi, a voler essere maliziosi, questa ricostruzione di Stabat Mater, con il suo laboratorio aperto e itinerante, sembra quasi voler stabilire una sorta di paternità sul teatro di narrazione al duo Vacis-Curino, rispetto agli exploit anche televisivi di Marco Paolini (e in misura minore di Marco Baliani). A voler essere ancora più maliziosi, in questa puntigliosa ricostruzione delle origini del teatro di narrazione c’è una curiosa omissione: Guccini scrive (p. 17) che “a sollevare il fenomeno sono spettacoli/cult come Kohlhaas (1990) di Marco Baliani, Passione (1992) di Laura Curino con la regia di Roberto Tarasco e il Racconto del Vajont (1994) di Marco Paolini con la regia di Gabriele Vacis”: e così tende a sottovalutare quella palestra determinante per l’evoluzione del genere (e accolta anche all’epoca da una crescente attenzione di pubblico e critica) che sono stati gli Album di Paolini – a cominciare da Adriatico (1987) e Tiri in porta (1990), cui sarebbero succeduti Liberi tutti (1992) e Aprile ’74 e 5 (1995) – e soprattutto a cominciare da uno spettacolo chiave come Libera Nos (1988), ispirato all’opera di Luigi Meneghello. Ma questo è un dettaglio, anche se la lezione di Meneghello è stata certamente fondamentale anche per mettere a fuoco, per esempio, il rapporto tra Laura Curino e la saga degli Olivetti (e in generale tra la lingua e il dialetto).
C’è invece un altro aspetto che ha un ruolo centrale nella genesi del teatro di narrazione e che invece Gerardo Guccini sembra lasciare in secondo piano. La sua ricostruzione parte proprio dalla fortuna televisiva di un genere insieme antico e moderno (un tema su cui insiste in più punti del saggio, ma sul rapporto tra narratori e tv si veda anche in questo sito Sei spettacoli su Raidue, pubblicato originariamente nel programma di “Riccione TTV” 1998 e sul Patalogo 21, 1998), per poi concentrarsi su quella che possiamo definire la storiografia del nuovo teatro, e dunque sul terreno artistico e storico in cui è nato il “teatro di narrazione” e sulle ragioni che l’hanno fatto emergere. E che oltretutto l’hanno fatto emergere in un momento particolarmente delicato, alla fine dei “dorati anni Ottanta”, quando il Nuovo Teatro, sia sul versante della Postavanguardia sia su quello del Terzo Teatro, si trovava in una fase di grave impasse. In questo scenario, il recupero della parola ha certamente un ruolo fondamentale: ma alla metà degli anni Ottanta gruppi come Pontedera e il Carrozzone (e altri sulla loro scia) avevano già compiuto questa svolta (come nota anche lo stesso Guccin a p. 37).
Dopo di che la sua analisi si concentra sul recupero della dimensione drammatica, contrapposta a quella perdita di senso che è l’esito estremo del post-moderno e che i narratori rifiutano. Questa contrapposizione è certamente vera, e infatti su questo insistono nelle loro dichiarazioni dell’epoca tanto Baliani quanto Vacis. Si tratta certamente di una chiave importante per comprendere l’emergere del teatro di narrazione, ma trascura un aspetto ugualmente fondamentale, e forse ancora più determinante. Perché il teatro di narrazione, prima che dagli autori-drammaturghi o dai registi, nasce dagli attori, e con modalità specifiche: “È vero che quella del narratore è una funzione che appartiene da sempre all’attore, ma ormai è stata quasi del tutto oscurata dall’attore-personaggio, dall’attore-corpo, dall’attore-sciamano” (Oliviero Ponte di Pino, Sulla narrazione e sui narratori, “Diario”, 14 aprile 1999). Una delle molle che hanno spinto Baliani, Paolini e Curino a recuperare il senso profondo della narrazione è proprio il recupero della funzione attoriale, con caratteristiche certo peculiari, e anche in questo caso mischiando antiche tradizioni ed emergenze moderne. Come Paolini e Baliani, i quattro protagonisti-autori di Stabat Mater sono prima di tutto attori, anche se attori di un tipo particolare, inseriti nella tradizione del nuovo, e dunque abituati a cercare e inventare i propri materiali, a costruire e preparare i propri pezzi (anche attraverso le improvvisazioni, magari innescate e poi assorbite, plasmate e montate drammaturgicamente dal regista). E in qualche modo reagiscono a una impasse registico-drammaturgica affidandosi alla narrazione.
Non a caso l’esplosione dei narratori, all’inizio degli anni Novanta, coincide con i primi exploit interpretativi di altri attori cresciuti nell’ambito del teatro di gruppo come Sandro Lombardi e Toni Servillo, solo per citare due capofila (per una prima analisi del fenomeno, allora a uno stadio ancora embrionale, vedi Oliviero Ponte di Pino, L’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in il Patalogo 18, Ubulibri, Milano, 1995, con ampie interviste, tra gli altri, proprio a Marco Baliani, La narrazione, e Marco Paolini, L’autobiografia). In questa chiave assumono maggiore significato le affinità con Fo e Rossi, per esempio, e in generale con i comici monologanti (e non è un caso che Gabriele Vacis, dopo Paolini e Curino, Rosso e Allegri, si sia successivamente applicato per esempio a Lella Costa). E non a caso uno dei nodi centrali del genere riguarda da sempre il rapporto tra il l’interprete (la persona storica, concreta, con le sue idee e punti di vista), il personaggio (il narratore, con il suo punto di vista, e le sue idee) e la storia narrata: unl problema intimamente legato a quello della drammaturgia e che può trovare soluzioni solo parziali e provvisorie, equilibri instabili che possono evitare la trappola della standardizzazione e della produzione seriale di narratori (come, da facile profeta, aveva avvertito Goffredo Fofi commentando a caldo il successo massmediatico del Vajont); e forse limitare i danni del doppio vicolo cieco di una retorica catastrofista (nobilitata dal politicamente corretto) o encomiastica (nutrita da un recupero nostalgico della memoria).
La prospettiva drammaturgica porta certamente a cogliere e mettere a fuoco alcuni snodi significativi, ma certo non è l’unica chiave di lettura del fenomeno, e forse non è neppure quella centrale. La scrittura (o meglio, il problema di una pratica di scrittura, magari appoggiandosi a drammaturghi “professionisti” come Francesco Niccolini o la stessa Michela Marelli) viene avvertita come problema centrale solo in un secondo tempo: all’inizio il narratore lavora in una dimensione soprattutto orale su materiali trovati o “recuperati”, dalla narrativa latinoamericana cara alle interpreti di Stabat Mater al racconto di Kleist magistralmente narrato da Baliani; Paolini utilizza Libera nos a Malo di Meneghello e, per il primo degli Album, Adriatico, adatta Le Petit Nicholas di Goscinny e solo in un secondo tempo – dopo aver in qualche modo messo a punto un “metodo” – inizia a scrivere i suoi testi partendo da zero. Uno degli aspetti più curiosi del fenomeno (e finora poco indagato, anche nei suoi aspetti tecnici) riguarda proprio il passaggio, nel teatro di narrazione, dall’oralità (e dalle sue diverse stratificazioni, sedimentate e modificate dal contatto con il pubblico) alla scrittura – o meglio, a una sorta di “scrittura orale” – e dunque lo statuto del testo.
Non è secondario, dal punto di vista della funzione attoriale, che spesso i suoi capofila abbiano inizialmente intrecciato la ricerca sulla narrazione alla pratica del teatro ragazzi, uno spazio meno soggetto in fase di progettazione al dirigismo registico, e più aperto all’intervento del pubblico al momento della rappresentazione.
La seconda molla fondamentale, accanto a questa “presa di potere teatrale” da parte degli attori-autori attraverso la pratica della narrazione, è la necessità di ritrovare e ricostruire il rapporto con lo spettatore: la ricerca di un rapporto più immediato e diretto, rispetto alle mediazioni intellettualistiche e alle sperimentazioni linguistiche e metalinguistiche del teatro di ricerca. Ovviamente la scelta di temi di vasto interesse storico e sociologico fa scattare nello spettatore la riconoscibilità e l’adesione. In questo senso, anche l’efficacia televisiva del genere rischia di apparire uno sbocco non troppo imprevedibile.
Ma siamo solo all’inizio della riflessione storico-critica su un genere che da un lato sembra guadagnare sempre nuovi adepti, e dall’altro rischia di inaridirsi nella ripetizione di moduli e cliché collaudati. Un’ottima occasione di riflessione sarà senz’altro il convegno che si terrà il 4 marzo a Bolzano, Teatro civile tra testimonianza e riflessione a cura di Lamberto Trezzini e dello stesso Guccini, al Teatro Studio del Nuovo Teatro Comunale, con una folta pattuglia di studiosi e di narratori. Tenendo presente oltretutto che i primi teorici della riscoperta della narratività sono stati proprio i suoi artefici.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2005-02-14T00:00:00




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