Il poeta fuori dalle caverne

Brevi scritti su Franco Scaldati

Pubblicato il 21/04/2006 / di / ateatro n. 098

Le foto sono di Maurizio Ruggiano.

Abbiamo seguito per qualche giorno Franco Scaldati, definito da Franco Quadri “poeta delle caverne” per intervistarlo, fotografarlo, assistere alle riprese e alle prove di due spettacoli, riuscendo anche a fargli una breve intervista.
Qui di seguito, parte dei testi raccolti e le foto realizzate a Palermo.

IL MONDO E’ UN QUARTIERE
Piccola conversazione con Franco Scaldati prima delle riprese di Assassina

L’autrice del servizio durante l’intervista con Franco Scaldati.

Mi piace sempre come Franco Scaldati dice: “Il quartiere”.
Lo dice come se in quella parola ci fosse il centro del mondo, come se si riferisse al solo quartiere che esiste, e come se tutti sapessimo di cosa parla.
Il punto è che ha ragione.
Perché mi pare che Franco parli dell’Albergheria (quartiere del centro storico di Palermo dove lavora da più di un decennio, all’interno del Centro Sociale S. Saverio di Don Cosimo Scordato) alludendo al luogo geografico e dell’anima da cui ognuno di noi proviene, che ha marchiato a fuoco la nostra infanzia, la nostra appartenenza, e di cui noi palermitani portiamo indelebilmente il segno, soprattutto nel linguaggio.
Nonostante la direzione artistica del Festival di Gibellina, mi sembra che il cuore di Franco sia comunque il quartiere, che “abita” in senso teatrale senza mai farne un ghetto, anzi un modello di apertura alla diversità, dove c’è posto per vecchi, bambini e immigrati, che, come dichiara en passant con grande lucidità intellettuale, non sono presenze da dimenticare, piuttosto ci parlano di “futuro”, della nuova configurazione delle città.
Mi stupisce inoltre la sua tenacia, l’entusiasmo e la determinazione con cui, insieme ai suoi collaboratori, da anni insegue il suo sogno.

Parlami della tua esperienza presso il Centro Sociale di Don Cosimo Scordato all’Albergheria.
Quando hai cominciato?

Circa una dozzina di anni fa.
Il motivo per cui abbiamo cominciato a lavorare qui all’Albergheria è che facendo questo mestiere c’è un momento in cui ci si interroga sulle motivazioni. In seguito a queste riflessioni abbiamo pensato che sarebbe stato importante spostare la nostra attività in un quartiere popolare.
Questa scelta è ovviamente collegata al tipo di drammaturgia con cui lavoro e alla mia conoscenza dei quartieri. Io sono un uomo di quartiere e ad un certo punto quella di lavorare qui è stata una vera e propria esigenza, per stare più a contatto con quelle che sono le origini del nostro teatro, per attivare una dinamica che al gruppo è servita molto e che mi auguro sia servita anche all’Albergheria.
Da allora non abbiamo mai smesso, ho lavorato qui per parecchi anni e adesso, dopo tanto tempo ci siamo rispostati fuori.

Fuori dove?

Abbiamo ripreso a fare spettacoli in palcoscenico, perché se ne sentiva l’esigenza.
Abbiamo preso contatti con il Teatro Garibaldi di Matteo Bavera e abbiamo fatto lì alcuni spettacoli. Inoltre mi hanno offerto la direzione artistica del Festival di Gibellina e quindi siamo andati anche lì. E stiamo continuando su questa linea di apertura. Forse qui all’Albergheria dovremo interrompere per un po’ l’attività perché i locali non sono a norma e quindi sono inagibili.
Speriamo che questa faccenda dell’agibilità dei locali si riesca a sistemare presto, ma in realtà ci vorrà un po’ di tempo.

La vostra sede di prova qual è esattamente?

Abbiamo delle stanzette al piano di sopra ma sono troppo piccole.
Per questo motivo la sede di prova è sempre stata all’esterno, il giardino.
L’estate palermitana fino a qualche anno fa almeno cominciava ad aprile e finiva a novembre, quindi nel cortile abbiamo fatto un lavoro molto intenso.

Parlavi delle origini della tua drammaturgia e sei ritornato al quartiere, ma fai tra le righe anche una riflessione sul fatto che il teatro qui assume un ruolo diverso. Perché?

Semplicemente perché si fa il teatro dove il teatro non c’è.
L’offerta teatrale è tutta rivolta alla borghesia, nei quartieri popolare del centro storico il teatro non arriva. E questo è grave se si tiene conto del fatto che Palermo ha il più grande centro storico d’Europa.

A cosa porta il fare teatro in contesti non borghesi?

C’è un sistema di riferimenti completamente diverso, che ha più a che fare con l’identità.
Fare teatro qui è un’esperienza molto più intensa, non c’è molto altro per trovare il modo di esprimere se stessi.
La gente si identifica con un modo di fare teatro, lo sente proprio, gli appartiene e così ciò contribuisce a sviluppare la propria identità culturale. I quartieri del centro storico sono emarginati culturalmente, li si mette da parte e per di più si cerca di chiudere gli occhi su queste grandi mancanze. Non sono zone in cui si la cultura passa e lascia il segno. Facendo teatro ci si riappropria della propria cultura.
D’altra parte è proprio nei quartieri popolari del centro storico che resistono i residuati della nostra cultura millenaria, anche nella lingua. Io trovo che lavorare qui abbia un significato innanzitutto fortemente poetico e conseguentemente politico.

Quindi c’è una corrispondenza biunivoca: al quartiere serve il teatro e al teatro serve il quartiere.

Per quanto mi riguarda assolutamente si.
Naturalmente parlando di quartieri del centro storico non si può non tenere conto dell’immigrazione degli ultimi 20 o 30 anni che ha modificato l’assetto della popolazione.
I quartieri del centro storico stanno accogliendo gran parte degli immigrati, e in qualche modo ci preparano ad una visione futura della società.

Quali reputi le tappe fondamentali del tuo lavoro?

Non ci sono tappe, anzi la cosa fondamentale è la continuità.
Ci sono spettacoli più riusciti e meno riusciti, ma essenziale è stato il rapporto nel tempo con il quartiere, che è un rapporto dinamico e non sempre sereno, ma comunque paritario e non colonialistico. Voglio dire che se ci sono i ragazzini che disturbano, ci arrabbiamo, perché bisogna far capire che la disciplina del teatro di cui il teatro necessita va rispettata. Non vogliamo insegnare niente a nessuno ma porre dei quesiti, far intravedere altre possibilità, un altro modo di rapportarsi alla vita completamente diverso da quello diffuso qui all’Albergheria, una visione che la poesia e il teatro possono offrire e che per di più è legata alle nostre origini linguistiche e culturali.

Chi frequenta il tuo laboratorio?

La prima cosa che vorrei che fosse sempre assolutamente chiara è che questo non è un ghetto.
I laboratori li hanno frequentati moltissimo i ragazzi del quartiere, ma li frequentano anche studenti del Dams…
E’ un luogo assolutamente aperto, dai ragazzini ai vecchi, tanto che il problema della selezione non si è mai posto.
Si lavora per fare teatro e applichiamo la disciplina che è propria del teatro, senza fare sconti: è teatro nel senso proprio del termine, non è animazione, né altro.
Questa è la nostra proposta e chi la accetta si sottopone alla disciplina che ne consegue. E’ chiaro che abbiamo dovuto fare i conti anche col fatto che chi frequenta il laboratorio è gente che lavora, che deve conciliare il teatro con la propria vita pratica… ci sono madri e padri con figli, spesso con problemi economici ed esigenze di orari. Ma negli anni tutto questo e’ stato esaltante.

Quali sono gli spettacoli a cui ti sei più affezionato?

In realtà potrei nominarli tutti. Ogni spettacolo ha la sua importanza, data dalla sua storia.
Da Bonaventura al laboratorio su Shakespeare, a Santa Rosalia che è una specie di omaggio che facciamo tutti gli anni alla Santa … Quest’anno è saltato ma lo riprenderemo l’anno prossimo. Partecipa in parte gente del quartiere, e in parte gente che viene da fuori. Insisto nel dire che la cosa importante è in primo luogo quella di evitare di chiudersi in un ghetto, ma anche di evitare la retorica del teatro come impegno sociale. Il teatro questo impegno c’è l’ha sempre, per definizione. Il nostro modo di fare teatro è quello di portarlo in luoghi diversi rispetto a quelli canonici, ma facciamo comunque teatro e non altro.

C’è un metodo per approcciarsi alle persone che arrivano al laboratorio che hanno esperienze diversissime tra di loro?

C’è stato un punto di partenza importante qui all’Albergheria per quanto riguarda l’incontro con le persone. Noi ci siamo inseriti quando il Centro Sociale di don Cosimo Scordato era presente e agiva già da 10 anni, quindi abbiamo trovato un terreno fertile.
E’ stato grazie al Centro Sociale San Saverio che molte persone si sono avvicinate al teatro.
L’unico nostro metodo è quello dell’apertura, chi vuole avvicinarsi a questa esperienza semplicemente può venire qui, naturalmente accettando le regole del nostro lavoro.
Se c’è una metodologia nel lavoro, è sempre una non-metodologia. Si parte da un testo ma sempre, anche quando mi e’ capitato di rilavorare su testi del passato, si rielabora in base alle persone con cui si lavora. E’ una cosa che faccio sempre, anche quando lavoro fuori dal quartiere, non c’è alcuna differenza perché lavorando si sviluppano delle relazioni, e proprio in funzione dei rapporti con gli individui si scrive il testo. Le ispirazioni dipendono fortemente dal contesto in cui lavori.
Per quanto riguarda le persone in particolare, c’è un nucleo forte che viene dalle origini, formato da 3 o 4 persone. A questo nucleo si è unita altra gente, che da anni lavora con noi. Naturalmente la situazione è in movimento, c’è molta gente che per motivi personali si allontana e poi torna, ma è fondamentale la capacità di accogliere e riaccogliere sia chi va via e poi ritorna, sia le persone nuove.

I progetti per il futuro quali sono?

Il progetto per il futuro, quello per cui abbiamo molto lavorato, è quello di un Teatro Stabile di Quartiere. Questo progetto poco alla volta sta andando avanti ed è probabile che diventi definitivo. Questa è la nostra meta, il punto d’arrivo, il sogno.


ASSASSINA – Le riprese

con Melino Imparato, Fabio Cangialosi, Diana D’Angelo, Egle Mazzamuto, Fabio Palma, Rosario Sammarco, Tobia Vaccaro. Regia Franco Scaldati
scenografia Dario Enea, Massimiliano Carollo
costumi Egle Mazzamuto

Dopo questa breve intervista, Franco Scaldati ci invita ad assistere alle riprese in video di Assassina, uno dei suoi primi testi, scritto nel 1985 e pubblicato nel volume Il teatro del sarto, Ubulibri, Milano 1990. Di questo testo esiste anche una trasposizione in video di Gian Mauro Costa e Diego Bonsangue prodotta nel 1987 da RAI 3 e premiata al Festival Riccione TTV.



Lo spettacolo a cui assistiamo, per di più in questa atmosfera così intima e irreale, (dato che si tratta delle riprese siamo gli unici spettatori) pur con il finale girato prima di cominciare, è stupendo.
Ci sentiamo un po’ privilegiati.
La scena (di Dario Enea e Massimiliano Carollo) è una tipica casa povera del sud, in cui si nota il dignitoso quanto malriuscito tentativo di abbellirla con stampe di fiori incorniciate, giusto per coprire le crepe, o macchiare di colore le mura scrostate.

In scena, un uomo e una donna ad un tavolo (in realtà sono entrambi uomini) mangeranno per tutta la durata della pièce un piatto di pasta. Sullo sfondo, una donna con un parlare oracolare e misterioso.
Scopriremo in seguito che sono delle presenze-non presenze, invisibili agli occhi dei due protagonisti.
Lo spettacolo è a tratti esilarante, a tratti malinconico. I due protagonisti, una vecchina e un omino (anch’essi entrambi uomini nella realtà), elencano prima uno e poi l’altra, la ritualità dei gesti e delle azioni prima di andare a dormire. Parleranno dei loro umori corporei, delle loro speranze, della vita quotidiana, senza mai abbandonare una comicità sotterranea e senza nessun ammiccamento vittimista.
La coppia è una sorte di “Signori Martin” ioneschiani al contrario e sottoproletari. Se ne La cantatrice calva due sconosciuti a furia di domande scoprono di essere marito e moglie e di vivere nella stessa casa, i nostri due protagonisti scoprono progressivamente di vivere sì nella stessa casa, ma di non conoscersi affatto. Anzi, più scoprono le coincidenze, più dichiarano la loro estraneità al fatto di avere abitato per anni lo stesso appartamento senza essersi mai incontrati, tanto che inizialmente si danno reciprocamente dello spirdo (spirito, fantasma). Ma ben presto si accorgeranno di non essere affatto spirdi ma fatti di carne e ossa e tutti e due abitanti nell’appartamento al piano terra di via Mosca Volante 52, ex-bagno pubblico, di cui la vecchia si proclama ex-guardiana.

Avendo appurato le loro reciproche esistenze, cominciano la disamina degli oggetti per verificare chi dei due sia il reale abitante della casa.
Alluderanno entrambi agli altri due attori, quasi sempre immobili, come al ritratto dei genitori, ma rimane il dubbio che siano essi stessi da giovani, forse quando erano ancora capaci di riconoscersi.
La vecchia, interpretata da un eccezionale Melino Imparato ci fa a tratti intenerire quando, per esempio, nel definirsi “ragazza”, incappa nell’incredulità dell’omino (il bravissimo Fabio Cangiatosi) che dichiara, non solo di non crederla giovane, ma realmente stupito di non avere neanche capito che si trattasse di una donna: “Picchì, fimmina sii???!!” dice incredulo. La reazione di “lei” è quella di lasciarsi andare ad un pianto disperato.

Entrambi conoscono gli atri abitanti della casa (una mosca, un sorciteddu, e una gallina) e per di più li chiamano con gli stessi nomi: Lucina, Beniamino e Santina.
Assassina è un testo dalla lingua poetica, antica e a tratti cruda, che cattura con la sua straordinaria comicità, la poesia, col suo ritmo incalzante nei modi di dire, negli insulti improbabili (uno per tutti “mosca immiruta”, ossia gobba), nelle sottili sfumature di pronuncia date dagli attori (quando si parla, per esempio del “formaggio sguizzero”).
La verità sull’incomprensibile vicenda biografica dei due, come del resto la verità ultima su qualsiasi esistenza al mondo, non si saprà mai, anche perché nei pressi dell’armadio, (dove verificano la presenza di abiti sia maschili e femminili) l’omino e la vecchina verranno colti da un colpo apoplettico che li stroncherà.
Alla loro morte, chiude lo spettacolo il passaggio di due menestrelli, (Tobia Vaccaro alla chitarra e la bella voce di Egle Mazzamuto, che cura anche i costumi).

IL POZZO DEI PAZZI – Le prove

Qualche giorno dopo andiamo al Teatro Garibaldi ad assistere alle prove de Il pozzo dei pazzi.
Non siamo soli, c’è anche un gruppetto di ragazzi che frequenta il laboratorio, per lo più studenti universitari.
La scena è fatta di lamiere, plastica, persiane rotte, un improbabile letto a castello in tubi di ferro, una tinozza, una sedia, uno sgabello, una rete metallica. Il Teatro Garibaldi ovviamente è un contesto ideale per gli spettacoli di Scaldati, e anche lui sembra abitarlo con molta naturalezza.
La scena a cui si sta lavorando prevede prima un risveglio, poi una sorta di inseguimento, in cui sarà coinvolto anche un uomo dentro uno scatolone di cartone.




Franco dà le indicazioni dei movimenti, con molta precisione:
“Arrivàti ccà… Lu sai che iddu è ‘mbriacu e fingi di essere preoccupato” oppure “Chista cosa è cammurrusa…Un po’ di pazienza…” e ancora “Dario fa due passi indietro, Toni ti nni vai dentro questa gabbia, ad ammucciariti. Tu il cartone lo alzi e cammini un po’ alla cieca…Unn’è Fabio??” “Assicutalo e impreca! Ietta vuci! Entra dalla gabbia e nesci dal tuo nascondiglio, fallu correre n’anticchiedda e poi gira intorno alla scala”. “Ricci parole, inventa cose: figgh’i buttana, stronzo, t’ammazzu….”.
Quello che mi colpisce, a differenza di tanti altri registi che fanno spettacoli in siciliano, che spesso alle orecchie dei siciliani stessi sembrano un po’ finti, è che Franco dia le indicazioni in una lingua che è un misto di siciliano e italiano.



Franco Scaldati non ha bisogno di fare cose alla maniera siciliana, il dialetto è la sua lingua, non è teatro finto popolare, fatto da borghesi per borghesi che vogliono illudersi di vedere teatro popolare. In una parola, è autentico. E a livello estetico, e anche emotivo, fa una gran differenza.
Gli attori, specie quelli più giovani tendono a rispondergli in italiano, ma dopo un po’ dall’inizio delle prove, anche loro rispondono in siciliano.
Ad un certo punto si lavora ad un inseguimento, in particolare al gioco della “muffa” a cui Franco fa esplicitamente riferimento, ma è come se gli attori non cogliessero.
Franco allora dice, un po’ malinconico: “Ma a muffa non ci giocavate voiatri
Gli attori rispondono di no.
Franco mima per un attimo il divertimento misto ad eccitazione, paura e istinto di sopravvivenza di quando ci si rincorre cercando di evitare di essere toccati da colui che ha la “muffa” e può quindi contagiarti liberandosene: è un bravissimo attore.
Ci sono lunghe pause in cui si mette a pensare, seduto nella sua sedia come come la statua di Le Penseur di Rodin.

Oppure sta immobile in mezzo alla scena, per animarsi improvvisamente, con la soluzione a portata di mano.




Di tanto in tanto si accalora, e anche molto, ma mai contro le persone, mi sembra.
“Se grido non v’impressionate”, specifica.
Ad un tratto, grida sul serio: “AAAAAAAART!!!!!!!”cioè “Alt”.
5 minuti di pausa: ma nessuno si muove, o va a fumare una sigaretta, o si mette a chiacchierare, modifica, insomma, l’atmosfera delle prove.
Franco si alza lentamente dalla sua sedia, tutti parlano a bassa voce, a due a due, un attore rimane immobile sulla scena.

Clara_Gebbia

2006-04-21T00:00:00




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