Oltre la caverna

Una conversazione con Egle Mazzamuto in ricordo di Franco Scaldati

Pubblicato il 23/10/2013 / di / ateatro n. 145

“Il poeta delle Caverne” palermitano, così come l’aveva definito Franco Quadri, o “il Sarto”, com’era conosciuto nell’ambiente dal primo mestiere che aveva svolto al Teatro Biondo di Palermo, se n’è andato improvvisamente a settant’anni il 1° giugno.
“Il Sarto” non era un soprannome che la vita aveva scelto a caso perché, come è stato notato da tanti, Franco Scaldati tutta la vita ha cucito, tessuto un universo teatrale.
Ha unito passato e presente, facendo confluire nei sui testi un disagio e uno smarrimento possibili solo nel degrado del mondo contemporaneo e allo stesso tempo facendoli abitare da misteriosi personaggi, echi di pulsioni e riti ancestrali, presenze invisibili e urlanti.
E il teatro di Franco, di questo corto circuito temporale, di questa (s)connessione si è nutrito.
Per lui il teatro era un atto sociale, politico di per sé, che costringe al confronto, alla relazione, all’incontro e allo scontro, mai un moto dell’ego.
Qualche anno sono andata a trovarlo nella sua ‘caverna’, lo studio di via Re Federico (universalmente conosciuta dai palermitani come ‘corso Olivuzza’), una specie di abbaino ingombro di ogni cosa, dove batteva i suoi testi servendosi di una vecchia macchina da scrivere. Avevamo letto insieme dei testi, e mi aveva parlato dello scrivere come una forma di autocura, l’unica che, imprudentemente, praticasse.
Qualche tempo dopo avevo deciso di ‘pedinarlo’ per qualche giorno, ero andata a trovarlo all’Albergheria, quartier generale delle sua compagnia dove avevo visto una superba prova generale di ‘Assassina’ di cui gli sarà grata per sempre, e poi lo andai a trovare al Teatro Garibaldi alla prove del Pozzo dei pazzi… Dopo la scomparsa di Franco Scaldati ho incontrato Egle, la più giovane delle sue collaboratrici entrata in compagnia a ventun anni e tra qualche giorno incontrerò Melino Imparato, da quarant’compagno d’avventura teatrale di Scaldati.

Nunzio Mazzamuto, ecofuturismo.

Nunzio Mazzamuto, Il cavallo.

Un palazzetto a ridosso della trafficatissima circonvallazione di Palermo. La famiglia di Egle si divide in due rami: professori (ramo materno) e artisti/artigiani (ramo paterno). La madre insegna scienze al liceo, il nonno educazione artistica e la nonna matematica e fisica. Il nonno paterno è fabbro, il padre è fabbro, ma anche un notevole scultore e pittore: lavora con il ferro e dipinge, le sculture e i quadri che riempiono le scale sono opera sua) e dipinge. Egle comincia a raccontare.

Ho incontrato Franco nel 2004. Era inverno ed era venuto a fare un laboratorio alla Facoltà di discipline della musica (Dime) dell’Università di Palermo dove ero iscritta. Devo ringraziare la professoressa Sica di Storia del Teatro all’Università di Palermo. Fu lei che ci fece incontrare. All’inizio l’incontro non fu dei migliori (ride), feci un laboratorio con Davide Enia per uno spettacolo, Scanna, al quale doveva partecipare anche Franco Scaldati: non mi trovai bene, al primo incontro non mi colpì particolarmente.
Poi venne all’Università Franco Scaldati da solo e gli feci una domanda che mi era venuta in mente frequentando il seminario: “Mi scusi, maestro. Lei cosa intende per volgarità?”, perché durante il laboratorio non ero riuscita a spiegarmelo, non mi piaceva l’accezione in cui veniva usata la volgarità. Alla fine lui allo spettacolo Scanna non partecipò. In quella occasione mi diede una risposta che poi, leggendo i suoi testi, mi diede modo di rendermi conto che non contenevano volgarità, non c’era qualcosa che essere definita tale, perché era sublimata in poesia.
Dopo questo primo incontro, Scaldati organizzò un laboratorio, sempre all’Università. La professoressa Sica mi propose di partecipare. Io ero a discipline della musica, la mia passione fondamentale, anche se il teatro mi interessava moltissimo. Ho accettato, non immaginavo quello che sarebbe successo.
Il laboratorio consisteva nel partecipare al percorso per le prove dello spettacolo Santa e Rosalia. Le prove immense di Franco Scaldati che duravano due-tre mesi. Dopo un po’ provare così a lungo è diventata un’abitudine.
La prima volta che mi misi a leggere un testo di Franco mi emozionai. Mi fece leggere della vecchia che era morta su un letto, che era di marmo, vedeva i suoi figli piangere e parlava di ciò che vedeva e sentiva. Per me è stata una folgorazione e Franco se n’è accorto. Mi passò accanto. Io non sapevo leggere ma ero molto colpita dal testo. Gli ho chiesto se stavo facendo bene. Lui ha annuito e se n’è andato. Dopo poco mi ha chiesto se volevo restare in compagnia. E sono rimasta.

Egle Mazzamuto, Franco Scaldati, Serena Barone, La gatta di pezza.

Com’era Franco alle prove? Dai miei ricordi piuttosto burbero…

Alle prove era burberissimo, pretendeva un silenzio sacro, il teatro era “chiesa”, gli attori dovevano essere i parrocchiani. Dovevano stare zitti durante le prove ma soprattutto arrivare tutti insieme perché il teatro è un atto comunitario, dovevamo venire tutti allo stesso orario e non si poteva sgarrare di un minuto altrimenti non si poteva più entrare.
Era molto duro quando un’ attrice o un attore per protagonismo volevano sopraffare gli atri. Tutto doveva entrare in un disegno in cui ognuno doveva sentirsi protetto.
In effetti nel teatro di Scaldati non c’è mai un attore principale, tutti quanti devono compartecipare a un disegno più grande che è lo spettacolo.
Anche un tassello di due parole può essere importante, e anche il modo in cui lo si dice, perché altrimenti l’insieme perde grazia.

Tornando alla domanda che gli hai rivolto in uno dei vostri primi incontri, quello della “volgarità” è un grande tema nei testi di Franco. Alcuni sono talmente pieni di turpiloquio da creare più di una difficoltà anche allo spettatore più smaliziato per la crudezza del linguaggio, altri invece viaggiano su toni molto più morbidi. E’ come se ci fossero due filoni nella sua produzione, uno ‘chiaro’ (come Il pozzo dei pazzi, Assassina), in cui la lingua non è così violenta; e uno ‘scuro’ (Lucrezia, Occhi), in cui le situazioni, i personaggi, le parole sono estreme.

Anche quando Franco usa vicende o parole terribili, nella sua poetica c’è sempre un riscatto. Questo riscatto è la poesia, a fronte di tutto quello che di brutto ci può essere nel mondo in cui viviamo, la poesia come riscatto delle anime dei più deboli.
In Franco non c’è mai una sorta di giudizio, il discorso non è morale, tutto fa parte di un disegno funzionale a una metamorfosi che si compie all’interno del testo: i personaggi che all’inizio sembrano i più crudeli alla fine si rivelano essere le vittime. Anche nei testi dove non si ricorre al turpiloquio, come Assassina, c’è ‘la Voce’ che racconta cose terribili.
Franco ha avuto due momenti nella sua produzione poetica: uno dove le parole fluivano nel discorso (le sue prime opere: ‘Occhi, Ofelia è una dolce pupa fra i cuscini), dove c’erano questi lati oscuri e di luce che si intersecavano ma senza una forte struttura drammaturgica.
Anche Assassina prima era un fluire, la versione edita nel Teatro del sarto dalla Ubulibri è molto diversa da quelle successive: l’ha strutturata molto di più. Ma ogni volta che rimetteva mano a un testo lo modificava, riscriveva costantemente le sue opere, era quasi impossibile fissarle in un libro per sempre.
Tranne ‘Il pozzo dei pazzi, le ha riprese tutte.
La parte più dura, più cruda, nelle opere successiva arriva più forte perché più canalizzata, più incasellata nella struttura drammaturgica, nei personaggi, mentre nei testi precedenti la crudezza sembrava affiorare da un magma in cui confluivano sia buio che luce.
In ogni caso, a contrasto con la violenza del linguaggio, per Franco la messinscena doveva essere più scarna possibile per permettere al testo di venir fuori. E il testo deve passare attraverso l’attore, che non deve dare dimostrazione di chissà quale crudeltà.

Sicuramente altri registi metteranno in scena Scaldati. Che operazione registica metteva in campo Franco?

Voler far parlare il testo da una parte, mantenere le proprie emozioni ma anche non essere troppo accondiscendente con il desiderio del pubblico, lui non lo è mai stato.
Franco ha perseguito sempre questa strada. Voleva che uscisse un’anima, quella che lui desiderava, dolorosa e terribile, l’anima che il testo stesso rivelava. Dopo aver scritto un testo, se ne distaccava, alle volte ne aveva paura. Il testo diveniva qualcosa di vivo. La difficoltà nel mettere in scena le opere di Scaldati sta appunto nel cogliere e restituire quest’anima. Perché questa operazione possa dirsi compiuta appieno, la messinscena non deve sopraffare il testo ma deve far sì che vengano restituiti in toto senso e musicalità. Dunque il teatro di Scaldati non si presta a un atto puramente registico bensì a un lavoro attoriale preciso e puntuale.
Il suo linguaggio non era conciliante con il gusto corrente. La violenza può essere molto di moda, ma la violenza di Franco non era affatto alla moda. Basti pensare a Lucrezia, la storia di tre prostitute Lucrezia, Stella e Grazia. Il tema è molto utilizzato ma il modo in cui viene trattato nel testo di Franco, che esalta la carne, il sesso, il sangue, la morte vista come catarsi o sacrificio, ne fa un discorso molto più ampio. La carne, il sesso, sangue, la violenza divengono poesia, le stesse prostitute sono poesia. Sono il lato profano della poesia, il lato oscuro, la poesia più sublime.

Se dovessi dire quali erano i temi cari a Franco, quale minimo comune denominatore ha quest’anima di cui tu parli cosa diresti? Cosa era importante per lui, per la sua scrittura e il suo teatro?

Per Franco era importante tutto nella misura in cui non appartenesse a questo mondo. Era un altro mondo quello che gli importava, la trasfigurazione di questo in cui viviamo e in cui i suoi personaggi subivano una metamorfosi. Importanza capitale nella poetica di Franco è sostanzialmente il sogno. Nel sogno ciò che davvero importa è ciò che si sente, che si avverte. Non vi può essere realtà, nel teatro di Franco la realtà è percepita, avvertita, intuita. Mai rappresentata. Si ricerca la verità attraverso un atto sensoriale. Affinché si riesca nell’impresa, Franco ha utilizzato un teatro poverissimo in cui le luci spesso si riducevano a lumini e candele e la scena a poche cose ritrovate nell’immondizia ma disposte nello spazio con una precisione certosina. Nel sogno vengono rielaborati luoghi, eventi accaduti anche nell’infanzia. Nel suo immaginario ha assunto grande importanza la trasfigurazione del tragitto per andare al lavoro quando faceva il sarto: passava dal Borgo Vecchio e dalla Marina: lì c’erano le casette di cartone dove le prostitute accoglievano i clienti… Buona parte della produzione di Scaldati si rifà a queste tracce autobiografiche divenute visioni, da suoi ricordi manipolati, investiti dalle sue emozioni e sublimati in arte.
Il giardino incantato del cavaliere dove non si muore mai è il giardino dove lui aveva vissuto. Franco è nato in campagna. In questo universo altro, creato e abitato dai personaggi di Scaldati in cui le cose si metamorfizzano, non c’è una sola verità, e non c’è morale intesa come sguardo severo o esterno da parte di chi scrive.
È uno sguardo al destino, al fato come ineluttabile.
Questo mondo ha una sua compiutezza, non è modificabile.
Stranamente questo universo si è incontrato con il mondo reale soltanto nell’ultimo testo che ha scritto, Angioletto vestito di giallo, in cui c’è un incontro tra la terra e questo mondo. In questo testo Franco si è reso contro che c’è in atto una distruzione incombente, che non è soltanto fisica, delle cose, ma una distruzione dell’essere umano, la morte della sua dignità.
Angioletto parla di una casa in cui vivono degli angeli, un po’ particolari, un po’ umani, e dove vigono una semplicità e una pulizia estrema, che è il riflesso dello sguardo che aveva Franco degli esseri umani. Questi angeli sono anch’essi un po’ ‘umani’, fanno scherzi, a volte sono un po’ violenti, ma c’è un’atmosfera di grande serenità e malinconia nel ricordare un mondo che non c’è più, e delle persone che non ci sono più… L’unica persona rimasta a vivere nella casa degli angeli, piena di umanità e di dignità, è un uomo che uscendo fuori per comprare dei dolcini viene uccisa.
Quest’unico uomo che viveva con gli angeli viene ucciso da bambini, da ragazzi violenti che Scaldati chiama ‘angeli dalle piume nere’.
Il mio personaggio è Lella, l’angioletto vestito di giallo, che lo farà resuscitare con una formula. Franco in questa scena ha previsto la sua fine…
Dopo questa specie di resurrezione però lo spettacolo continua, perché Franco ha inserito nello spettacolo, subito dopo l’Angioletto, un testo precedente, Il Terrorista, ovvero un uomo che distrugge tutto, un pover’uomo preso da infiniti tic, infinite smorfie passano nel suo viso (lo interpretava Salvatore ‘Totò’ Pizzillo). I personaggi del Terrorista venivano fatti dagli stessi attori che interpretavano gli angioletti. Dopo la resurrezione di Angioletto, nel terrorista c’è una situazione di degrado, di distruzione, ma questa distruzione non viene vista come una cosa terribile, ma come un evento ineluttabile.
In ogni caso, se in Angioletto vestito di giallo c’è un germe di resurrezione, nel Terrorista dopo il degrado totale emerge comunque una forte volontà di rifondare un mondo totalmente nuovo oltre la distruzione…

Qual’è il testo che ami di più?

Posso dirti quello a cui sono più affezionata, La gatta di pezza.

Nella Gatta di pezza Franco mette in scena una famiglia che vive nel degrado, un padre violento e incestuoso verso la figlia demente Aurora. La cosa più inquietante è il coro di presenze invisibili che sembrano essere i ‘doppi’ dei personaggi della famiglia. Di questo testo Franco ha detto: “E’ un viaggio nelle viscere profonde dell’ anima umana, nel punto più cupo e lontano si compie un rito ancestrale, mostruoso, che noi raccontiamo senza moralismi per cercare di capire cosa nasconde il nostro io, e le pulsioni nascoste nella nostra coscienza.

E’ forse uno dei testi più strutturati, è stato riscritto diverse volte con risvolti differenti ma con una volontà precisa: contrastare gli stereotipi che di solito si riferiscono a una situazione simile a quella descritta dal testo, un basso palermitano, all’indomani del dopoguerra, in cui abita una famiglia dove vigono violenza e sopraffazione e in cui abita anche Vittorè, uno zio omosessuale. I termini della questione vengono completamente stravolti: Vittorè, lo zio omosessuale vessato da Benito, padre padrone che determina uno stato di costante tensione all’interno della casa, ma è anche un uomo rispettabile, con un lavoro da orologiaio, da tutti stimato amato. L’attività delle due donne, la nonna e la madre di Aurora, che offrono il loro corpo in cambio di beni di prima necessità, cibo, vestiti è normale, necessaria alla sopravvivenza. Benito deve ricoprire quel ruolo, non per sua volontà, ma perché il destino ha decretato che fosse così, perché senza di lui Aurora non potrebbe esistere. Aurora è Ofelia, l’incarnazione della poesia.
Franco ha scelto una demente per ciò che fino a qualche decennio fa rappresentava lo stato di demenza nell’immaginario popolare e cioè il limen fra il mondo reale e quello dei morti.
Non c’è un testo che io non ami, molti li conosco a memoria.
Questo percorso insieme è durato dieci anni. A poco a poco mi sono resa conto che avevo trovato il maestro che da sempre cercavo. E’ stato come un ritorno alle origini.
Sopra la gelateria Scaldati, dove Franco è nato, ha avuto per tanto tempo il suo studio di scrittore. Lì a due passi c’era vicolo dell’Anemone, dove c’era l’officina di mio nonno paterno, fabbro. Quando ho conosciuto Franco, ho ritrovato il linguaggio, i ricordi, le sensazioni… Mi sembrò che Scaldati parlasse la lingua che cercavo, quella del passato e quella che avrei parlato in seguito.
Ho compiuto ventun anni quando ho cominciato a fare teatro all’Albergheria e adesso ne ho trentuno. Avevo una grande paura di entrare in questo mondo e una grande voglia di affrontarlo. La prima volta che dovevo entrare in scena, dissi a Franco che avevo paura. Lui mi rispose che anche lui aveva paura le prime volte, che voleva che lo spettacolo non si facesse, che mi sarei abituata. “Però è bello”, mi disse, “io non lo provo più. Beata te che la provi ancora la bellezza e l’eccitazione di entrare in scena.”
Mi disse anche che bisogna proteggere le proprie fragilità, che sono preziose, che fanno parte della bellezza e della purezza di una persona.
Il percorso artistico con Franco si è intrecciato con la mia vita e quella dei miei cari, con il ragazzo con cui vivo, che ha dovuto accettare e ‘sopportare’ a mia vita in mezzo al teatro, lui che è informatico (ride), i miei familiari.
Con la compagnia e con Franco abbiamo condiviso i momenti più importanti della vita, la mia laurea, i suoi settant’anni, i compleanni, le prove a casa, la costumeria a casa di mia nonna, è stata una vita fatta teatro e quotidianità dai ventuno ai trentun anni.

E il futuro?

Al momento non lo so, non me lo so immaginare, ma Franco mi diceva scherzando una frase, salutando, riferita al cimitero di Palermo, i Rotoli… Nni viremo tutti ai Rotoli, picchì, un nni viremu tutti ddà?

18-19 ottobre: la commemorazione che la Compagnia di Franco Scaldati farà a Palermo in ricordo del suo Maestro, dal titolo La città sognata

La città sognata – Omaggio a Franco Scaldati CANTIERI CULTURALI DELLA ZISA (Spazio Tre Navate/Cinema De Seta)

VENERDI’ 18 OTTOBRE ore 21 CANTIERI CULTURALI DELLA ZISA (Spazio Tre Navate)
Compagnia di Franco Scaldati: brani scelti dal repertorio. Lettura a più voci.
Stefano Randisi e Enzo Vetrano: frammenti da Totò e Vicè.
Interventi di Leoluca Orlando, Goffredo Fofi, Cosimo Scordato, Umberto Cantone, Guido Valdini.
Coordina Franco Maresco

SABATO 19 OTTOBRE ore 21 CANTIERI CULTURALI DELLA ZISA (Cinema De Seta)
Il ritorno di Cagliostro di Ciprì e Maresco con Franco Scaldati, Luigi Maria Burruano, Robert Englund, Pietro Giordano e Gino Carista. Il film sarà preceduto dalla proiezione di video inediti realizzati da Mario Bellone dietro le quinte del set.
Interventi di Franco Maresco, Luigi Maria Burruano e Gino Carista.

Clara_Gebbia

2013-10-23T00:00:00




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