Spettacolo! Il Palcoscenico Elementare di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa

In mostra a Torino dal 2 febbraio 2007

Pubblicato il 09/01/2007 / di / ateatro n. 105

Questo testo verrà pubblicato nel catalogo di I Marcido in mostra: 1986-2006

Una sera di luglio al Festival di Santarcangelo. Sotto i portici di piazza Ganganelli mi viene incontro un ragazzo massiccio, un po’ tozzo, un lampo scuro negli occhi. Non l’ho mai visto, non si presenta, mi aggredisce: “Sono sicuro che ti è piaciuto moltissimo!”. Naturalmente gli rispondo di no. Se è tanto sicuro, che bisogno ha di chiedermelo? E poi quello è di sicuro un fanatico.
Lui resta lì impalato, continua a guardarmi, non so se è sorpreso o arrabbiato. Non dice più nulla e io riprendo a camminare. Passo accanto a una ragazza pallida e minuta, con gli occhi grigi e i capelli chiari. Lo seguiva un passo indietro, come un soldatino, un po’ rigida, e ora sembra preoccupata. Forse avrei dovuto chiedere scusa, sono stato proprio maleducato.
Sono passati vent’anni. Quello che – sicuro – mi aveva incuriosito era un esordio, si intitolava Studio per le Serve. Da allora non ho smesso di seguire il lavoro di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa.
È un gruppo che – sicuro – mi piace moltissimo, perché inventa spettacoli sempre un po’ strani. Anzi, molto strani, se giudicati con gli standard della routine teatrale. Perché sono opera – sicuro – di due fanatici. Perché sono lavori belli e intelligenti, pieni di energia. E perché, anno dopo anno, mi continuano a lavorare nella memoria.

Marco Isidori è Macbeth e Lady Macbeth.

Lui è Marco Isidori, il coté barocco, decadente ed enfatico che corrisponde a Marcido Marcidorjs, lei è Daniela Dal Cin, l’anima in apparenza fragile ma determinata, nonché dolcemente surreale, di Famosa Mimosa.

Maria Luisa Abate protagonista di Happy Days in Marcido’s Field.

Alla coppia bisogna aggiungere almeno la suprema primattrice della compagnia, Maria Luisa “The Voice” Abate, presenza costante e imprescindibile come la fedele Sabina, e poi l’immancabile Coro dei Marcido…
Al palcoscenico arrivano tardi (Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa nasce nel 1984, quando Marco e Daniela hanno superato la trentina), per vie oblique e oscure, quando i gruppi della “seconda onda” del Nuovo teatro italiano sono già esplosi. Così dal punto di vista critico i Marcido rimarranno, come le Albe a Ravenna, un po’ schiacciati tra chi è emerso allo snodo tra i Settanta e gli Ottanta e la “terza onda” dei Teatri 90 (anche di qui la ritornante polemica dell’Isidori contro i critici).
Il gruppo ha sede a Torino, dove spesso officia in teatrini-appartamento, in teatri-bomboniera in cima ad antichi palazzi, in teatracci di periferia… Spesso i due leader si ritirano a meditare e lavorare tra i monti della Val Varaita o a San Benedetto del Tronto, in riva all’Adriatico.
Lui è prima di tutto poeta, e ribadirà più volte la sua fede ambigua nella Parola:

I cardini della nostra ricerca sono sempre stati la Parola, il Verbo, il Significato, la Significazione: tutto secondo me è racchiuso nella Parola.
(Marco Isidori, intervista di Christopher Cepernich, “Corriere dell’Arte”, 22 giugno 1996)

Lei nasce invece pittrice. Ogni tanto li incontro, a Torino, a Milano o chissà dove, e facciamo quattro chiacchiere. Anno dopo anno, gli ho ripetuto di tenere duro anche se i loro spettacoli giravano poco e la critica latitava, che erano bravi anche se non capivo tutto, e dunque di non preoccuparsi troppo se il loro lavoro non lo capiva quasi nessuno.
Ho scoperto che Daniela Dal Cin – più spesso delegata alle missioni diplomatiche – ha una voce levigata come i ciottoli che si trovano sui greti dei fiumi. Spesso parla con un volume qualche decibel più alto del giusto e per questo, quando ci incontriamo nei bar vicino alle stazioni, gli altri avventori ci guardano un po’ strano. Lui invece ha sempre quel modo brusco, i gesti e la voce che ogni tanto hanno come uno strappo. È sempre molto sicuro di quello che dice, come se fosse una questione di vita o di morte, e capisci che è meglio non contraddirlo troppo, altrimenti si potrebbe infuriare. Infatti quando discutiamo cerco di non contraddirlo troppo: lui e Daniela si fidano un po’di me (ulteriore aggravante, per quei due…), e per fortuna Marco non si arrabbia nemmeno se lo prendo un po’ in giro. Anzi, ogni tanto esplode in una gran risata, anche se a volte non capisco bene il motivo: e allora quella bocca che gli taglia la faccia si spalanca, ed è insieme dolce e crudele. Naturalmente quando ride così nei bar gli altri avventori ci guardano un po’ strano, ma non me ne importa niente.

Il sipario della Locandiera.

Non esiste in Italia chi abbia un’idea di teatro forte, coerente e ostinata come Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. E che l’abbia praticata con tanta forza, coerenza, ostinazione e disciplina per decenni, nell’arco di una ventina di spettacoli, contro tutto e tutti. Una coerenza, va aggiunto, che non è mai monotona, perché vi fiorisce rigogliosa la “pianta del barocco” e dunque è sempre colorata, inventiva, sorprendente. E insieme ossessiva e feroce: loro dicono che è “protetta solo dallo scudo fatato del suo gentile anacronismo”, e dunque la difendono con una verve polemica lucida e acuminata.
Perché – e anche questo è notevole – questa idea di teatro non si è mai evoluta, almeno nelle sue linee portanti: è sempre rimasta la stessa, matura e definitiva fin dagli esordi, come risulta evidente dalle quattro “comunicazioni” inaugurali, redatte nel 1984 da Marco Isidori mentre lavorava alle Serve. In fondo i Marcido hanno sempre fatto la stessa cosa: “Siamo andati a caccia del Palcoscenico Elementare!”, come proclama l’Isi nelle note di regia del suo Pinocchio.
È chiaro, ci sono state variazioni sul tema, diverse combinazioni degli ingredienti, e dunque un costante gusto della sperimentazione e della sorpresa, un affinamento di certe tecniche, e a volte – ma molto di rado – qualche soldo in più da investire nella produzione. Ma quello che colpisce è la costanza, l’ostinato ardore del duo e l’entusiasmo che riescono a trasmettere ai loro allievi, sempre nuovi (si intuisce che non è facile restare a lungo in compagnia: pochi soldi e una disciplina troppo dura, una dedizione al teatro che può sfociare in un moralismo fondamentalista…).
Ancora più sorprendente è un altro dato: in fondo la poetica del gruppo è basata su un principio molto semplice, che dovrebbe essere alla base di ogni opera spettacolare. Ma i Marcido lo spingono alle conseguenze più radicali, estreme (o meglio logiche), e così sembra che gli altri si limitino a enunciarlo, quel principio così chiaro e importante, senza tradurlo davvero in pratica.

Qui è la radice profonda del Teatro, l’origine della sua stessa specificità estetica: il carattere unitario di tutto quanto in esso concorre alla costruzione drammatica, la pertinenza di acconciature e costumi, della recitazione, della scenografia e della musica, pertinenza propria dell’atto liturgico che non consente alcunché di interscambiabile.
(Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, Una giostra: l’Agamennone, Edizioni del Noce, Camposampietro, 1991, p. 3)

Il principio fondamentale, il primo postulato del Teatro Elementare dei Marcido, è dunque banale: i diversi elementi costitutivi dell’evento spettacolare – gli attori e i loro corpi, le scene, gli addobbi e i costumi, le luci e le ombre, la voce e la musica, le parole, i gesti, il respiro e il canto, e naturalmente anche gli spettatori – fanno parte di un tutto unico, una macchina-corpo dai molteplici organi. I punti di riferimento sono quelli della grande tradizione delle avanguardie del Novecento, primo tra tutti “A. A. (…) l’animo furioso di Antonino”. E poi

una valanga di molti bei nomi d’epoca: dal grande Craig, al gesuino Grotowski, dal tonante Mejerchol’d, al malinconico Appia, e profondendosi via via fino all’ultimo bagliore che soffiò Carmelo sullo sguardo del mondo qualche lustro addietro.
(dal programma di sala di Happy Days in Marcido’s Field)

Siamo insomma nel gran fiume del teatro come opera d’arte totale: ma in questo caso praticata con una coerenza d’acciaio, ispirata da una fiammeggiante fede nel teatro e nelle sue capacità di fascinazione e trasformazione. Con la consapevolezza che solo la pratica teatrale – più precisamente “le modalità con le quali tratteremo ‘l’attore’” – può davvero liberare la scienza di quei “Nomoni (…) inscatolata nei libri!” (dal programma di sala di Happy Days in Marcido’s Field). Evitando naturalmente di cercar “scampo o facile approdo nella gran carosellata dei ludi sommatori” (dal programma di sala del Cielo in una stanza). Insomma, si cerca un’unità organica, essenziale.
Questa visione del teatro spazza subito via ogni idea di rappresentazione: la Marcido, lontanissima da ogni realismo, per non abortire nel “verosimile immondo” cancella introspezione e psicologia privilegiando azione e gesto. Trascura la mimesi e cerca la catarsi. Questo postulato antinaturalistico è subito sancito da una delle due citazioni poste in esergo alla inaugurale “Prima comunicazione per Le serve” (1984), rubata a un maestro di esacerbata teatralità:

Senza sapere di preciso che cosa sia il teatro, so quel che gli nego d’essere: la descrizione di gesti quotidiani vista dall’esterno.
(Jean Genet)

In secondo luogo la fusione di elementi e corpi diversi, animati e inanimati, porta con sé una potente tensione erotica, o meglio erotizza corpi, oggetti e organi (e qui il punto di riferimento teorico potrebbe essere il “corpo senza organi” di Artaud riletto da Deleuze e Guattari). La riemersione del dionisiaco passa anche da qui, attraverso la creazione di un inquietante codice pornografico, di un perturbante alfabeto sadomaso, di una regola orgiastica.
Nei confronti dei testi, il “metodo Marcido” prevede una personale forma di appropriazione, spesso gioiosamente esplicitata nei sottotitoli: ci sono una Sirenetta di Andersen intrappolata “nel gioco della Marcido” e una Locandiera che negli stessi Marcido “inciampa”, un Isi (alias Marco Isidori) che “fa Pinocchio” (anche se desidererebbe “sfar lo Mondo”), Beckett che si perde “in Marcido’s Field” e che poi ispirerà “Marcido’s Love”, una “solenne funzione del Prometeo incatenato di Eschilo”, un Macbeth “che l’Isi ha potuto leggere soltanto per come il suo strabismo glielo permise”, e ancora i Giganti pirandelliani senz’altro da “far nostri”.
Oggetto di queste appropriazioni – un programmatico e sistematico stupro – sono miti classici e moderni, dalle Serve omicide di Genet ai sanguinari Atridi dell’Orestea, dal dio ribelle Prometeo a Suzie Wong in quanto “monumento all’alterità la più direttamente conclamata”, da un fremente Macbeth ibridato con la sua Lady alla logorroica Winnie di Beckett, da Fedra a un’altra chiacchierona come Molly Bloom. Al fuoco teatrale si glorificano, cantano e bruciano gli eroi e soprattutto le eroine di un Olimpo della diversità, spesso ibridi e comunque con più d’una traccia del Mostro. Protagoniste sono dunque

combinazioni dell’energia fatale, (…) Loro (…), i Regali, le celebrità affermatesi per esser vispe scatenatrici della Grande Occasione Epifanica del Signor Dioniso.
(dal programma di sala di L’Isi fa Pinocchio)

L’Occasione Epifanica è naturalmente ciò che i Marcido cercano disperatamente ogni volta di resuscitare sul loro Palcoscenico Elementare.
Tra gli antecedenti di queste riscritture ci sono le sintesi futuriste, a partire dalla funzione dinamizzatrice evidenziata da titoli che evocano danze di guerra, giostre e vortici, party, tiri a segno (Bersaglio su Molly Bloom), perché

il mondo del Circo, dei divertimenti viaggianti e degli antichi stadi (…) sono, per noi, luoghi autentici dell’epifania dionisiaca.
(Una giostra, cit., p. 4)

Ma il modello sono soprattutto le folgoranti reinvenzioni di Carmelo Bene, con la loro capacità di decostruire i testi, di smontarne il senso e svuotare la stessa logica della rappresentazione; anche se – va aggiunto – i Marcido cercano di superare la dimensione dell’assolo a favore della coralità, e impostano un rapporto più complesso e articolato con il pubblico.
In effetti l’appiglio più semplice per penetrare la poetica dei Marcido è proprio la posizione dello spettatore nei loro corpi-macchina. Nello spettacolo d’esordio, lo Studio per le Serve, la scena è una sorta di cassaforte-armadio, una placenta-vagina foderata di stoffa rossa, metafora semplice ed esplicita sia in rapporto al testo di Genet sia nell’esemplificazione di una certa idea del teatro. Al pubblico è imposta la tradizionale posizione di osservatore della scatola scenica – con le ante dell’armadio a fungere sipario e quarta parete – ma questa funzione è per così dire iperdeterminata dalla metafora, ironicamente sottolineata, e insomma subito svuotata di senso.
L’incognita dello sguardo dello spettatore verrà poi risolta in diverse maniere, con ulteriori spostamenti. Nella tappa successiva la scatola-palcoscenico ingloba il pubblico, che diventa così anche elemento scenografico e drammaturgico di cui esplorare le diverse potenzialità (e in questi teatri-tempio s’avverte l’eco di certe invenzioni di Grotowski e Barba, ma filtrate e razionalizzate in macchinerie barocche di sapore ronconiano). Nelle Serve, una danza di guerra i venti-venticinque spettatori-voyeur vengono infatti sistemati sulla panca che corre tutto intorno a una struttura ovale di ferro e legno, chiusa o meglio sigillata da siparietti di stoffa rossa. I curiosi possono sbirciare all’interno solo attraverso una fenditura orizzontale alta una dozzina di centimetri che corre all’altezza dello sguardo. Lì dentro, in quell’arena claustrofobica, le serve assassine Claire e Solange danzano per questi occhi una guerra di crudele raffinatezza. Il pubblico si fa attivo protagonista, fin dagli esordi:

Sono gli sguardi del pubblico moltiplicati dalla geometria, a cingere l’azione, la loro presenza a ridosso della scena e di sé stessi, creerà nell’attore, una nervosità leggera, un sentirsi scrutato da occhi che scrutano, molto favorevole a portare nella recitazione quella lieve componente isterica, sufficiente, a “sospenderne” i gesti (Genet).
(Le serve, Prima comunicazione)

La scena di Una giostra: l’Agamennone.

Una giostra: l’Agamennone porta questo rapporto alla logica evoluzione: i settanta spettatori penetrano ora in una versione riveduta e ampliata di questo teatro-scenografia – l’ovale si è ingrandito fino a misurare una decina di metri sul lato maggiore – e siedono addossati alla parete della Reggia degli Atridi. In un’acrobatica coreografia tridimensionale, gli attori esplorano lo spazio, ne percorrono le linee di forza, circondano e aggrediscono il pubblico da ogni lato (sembra un sogno di Mejerchol’d fatto realtà).
Il meccanismo del coinvolgimento può farsi ancora più radicale. Il cielo in una stanza ha un unico spettatore: dove “unico” vuol dire certo privilegiato, ma forse anche ultimo della specie; o meglio un esemplare di laboratorio su cui verificare, con sana e ingenua radicalità, l’efficacia della comunicazione teatrale. Lo spettatore-cavia si ritrova chiuso in un appartamento, in balia di dieci attori. A un certo punto diventa addirittura Gengis Kahn e gli tocca sedere in groppa a una tigre di nome Ma (in realtà due attori-portatori nascosti sotto il coloratissimo mantello dell’animale) che lo scorazza di qua e di là nella stanza: come in un folle rodeo, deve addirittura domare la belva dell’immaginario.

La Torre del Teatro Rosso.

Al vertice della megalomania scenografica di Daniela Dal Cin si pone (per ora) la Torre del Teatro Rosso, pensata nel 1993 per un Gengis Kahn mai realizzato (vedi Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. disegni, costumi, scenari, con introduzione di Franco Quadri, catalogo della mostra, Torino, Piemonte artistico e culturale, 4-21 aprile 1996). La Torre, edificata un decennio dopo per il Vortice del Macbeth, è un impressionante cubo di nove metri di lato, dove la funzione di sipario è affidata alla superficie esterna (tre anni di lavoro per 27 grandi tele), interamente percorsa da una rossa decorazione di carattere esplosivamente erotico, un corteo danzante di corpi nudi impegnati in amplessi d’ogni sorta, un trionfo di satiri e menadi infoiati, di centauri e ninfe che esibiscono i genitali, e coinvolgono persino gatti, cammelli, serpenti e coccodrilli in un folle e interminabile girotondo orgiastico punteggiato da demoni maliziosi e compiaciuti. Il pubblico – questa volta un’ottantina di testimoni-complici – penetra nella Torre salendo una passerella-ponte levatoio e si pigia su tre pareti, in due file serrate di panchette. La fortezza è un buco, il fallo si rivela vagina (per i Marcido il teatro non è mica una bocca, come teorizzava Richard Schechner…). Gli attori – a cominciare da un Marco Isidori in sottoveste e scarponi, che è insieme Macbeth e la sua Lady – si muovono soprattutto al centro, in fondo al pozzo nero del teatro: gli spettatori li guardano dall’alto, ma spesso si ritrovano anche circondati e sovrastati dalle azioni dei coreuti-acrobati.
Inutile sottolineare la follia economica di queste imprese di carpenteria: ma i teatrini-Marcido – vere e proprie architetture, frutto anche dell’abilità artigianale di fabbri e falegnami – sono necessari altari sacrificali che arricchiscono il significato della parola “teatro” restituendogli il senso del rito.
Il pubblico può dunque essere inglobato nello spettacolo, ne fa sempre organicamente parte, a volte in maniera imbarazzante, superando il confine dell’intimità. Tuttavia non si creano mai confusioni di ruoli o superficiale coinvolgimento. Allo spettatore, masochisticamente inchiodato alla sua posizione, non si chiede di agire e interagire con gli attori, ma solo di essere uno sguardo – il più possibile acuto, e al limite voyeuristico.
Nel Palcoscenico Elementare dei Marcido attore e spettatore incarnano due poli, ovvero due ruoli distinti e individuabili. Nel riflettere su questa separazione, i sipari assumono un ruolo insieme funzionale e simbolico, grazie a una variantistica provocatoria e pedagogica, oltre che baroccamente sorprendente. I sipari condensano e tematizzano infatti la dialettica tra théatron e skené:

La prima rimanda all’atto del guardare, la seconda a quello del nascondere. Mettendole in relazione si dovrebbe concludere che teatro significa: sottrarre qualcosa allo sguardo.
(Fernando Mastropasqua, Teatro provincia dell’uomo, Edizioni Arti Grafiche “Federico Frediani”, Livorno, 2004)

In Una canzone d’amore c’è “un potente sipario di carta, vasto, teso, tirato a far da pancia sonora sulle costole di una struttura poligonale ad arco (Il Mondo! sì, il Mondo!)”, e nei disegni preparatori si precisa “raggio metri 2,5 altezza metri 4”: il “Gran Sipario di carta cinese” verrà naturalmente sfondato dalla “Pallaceppo” alla quale è incatenato Prometeo.

La scena di Palcoscenico ed Inno.

Per Palcoscenico ed Inno circa ventimila bottoni di seta colorata simulano in un maniacale arazzo i pixel di un monitor video, dentro una cornice-scatola-boccascena di falso legno con gli appositi pulsanti. Come in un quadro di Seurat, da quel fluttuare di punti, curve e sinuosità emerge una figura femminile, quasi crocifissa allo schermo: è la Sirenetta, pura immagine alla ricerca di un’anima, sospesa tra il fantastico mondo sottomarino e la realtà. Così il teatro gioca a scimmiottare, con l’ingenuo e maniacale illusionismo del bricoleur, l’attrazione dello schermo elettronico, ma risponde esaltando la terza dimensione, fino a chiamare in scena un grottesco, surreale e rotolante “uomo-palla”.
Attraverso il sipario, il gioco del gran teatro della meraviglia e della sorpresa si può rivelare ora seduttivo ora minaccioso. Happy Days in Marcido’s Field si presenta con una clamorosa cortina di corpi nudi, vivi e pulsanti a pochi centimetri dal pubblico: penzolano nel vuoto uno accanto all’altro, appesi per le braccia, a chiudere il boccascena prima di dar vita al coro che incarna Willie (che nell’originale beckettiano è il muto compagno di scena della loquacissima protagonista, e ora viene frantumato, moltiplicato e distribuito nell’ennesimo Coro Marcido). Ma la provocazione erotica può ribaltarsi in segnale di pericolo.

La locandina di A tutto tondo.

A tutto tondo si apre con un’immagine ancora più scioccante: la scena è una gabbia chiusa da una palizzata “che sfoggia conficcata al sommo una chiostra di ‘testine’ umane mummificate”: sono le repellenti teste mozze di chi si è avvicinato al mistero e non ha superato la prova. All’inizio dello spettacolo la grata cala verso il pubblico, a segnalare una zona di pericolo; poco dopo la sagoma del mansueto gorilla che s’intravedeva subito dietro viene smembrata per consentire l’apparizione della protagonista della serata, la sensuale e terribile Suzie Wong: quella lugubre palizzata-sipario dà accesso a

una vera e propria “Camera di Demenza”; un’alcova, sommata ad una gabbia, sommata ad una pista di circo; tutto, il tutto, attrezzato con sottopalchi, altalene, trabocchetti e un’infinità di gogne.

In Spettacolo c’è addirittura un sipario (detto “del Mostro”, come informa l’opportuna didascalia) che ribalta il senso della comunicazione teatrale e restituisce allo spettatore il suo sguardo: al centro di un ciclone azzurro di cieli, nubi e velocità, appare un occhio gigantesco che guarda minaccioso ma non vede (un altro occhio ugualmente inquietante e surreale, in forma di enorme scultura, campeggerà anche nel Prometeo, nella scena di Io e perciò sormontata da due enormi corni bovini. Si trovano altri occhi, in scena e nelle locandine, a testimoniare un rincorrersi coerente di riflessioni, temi e metafore – insomma il sedimentarsi d’un immaginario o di una mitologia).

Il programma di sala di Musica per una Fedra moderna.

Questi sipari, così come quei prototipi di teatro ovali o turriti, sono autentici capolavori. Così come lo sono molti dei costumi, delle acconciature e degli attrezzi disegnati e prodotti con artigiana pazienza da Daniela Dal Cin. Anche se, a ben guardare, è molto difficile scindere l’attore dalle scene e dagli oggetti di scena: spesso formano un tutto organico, attraverso protesi e cinghie, “appoggiature, altalene, cappi e trapezi (…) che noi s’eleggerà a praticabili” (e qui la memoria va al Sogno di una notte di mezza estate circense di Brook).
Quello dell’attore e della scena è un rapporto simbiotico, fin dal primo Studio per le Serve. Il costume di Madame diventa una raggiera di fili perlati a formare una rete che incatena l’attrice alla scena, “una meravigliosa trappola finale, un gioiello, ardito per concezione e splendore nero” (Le serve, Comunicazione numero due): l’attrice-ragno è prigioniera nella cassaforte-vagina, e al tempo stesso potenziale cacciatrice che seduce gli spettatori e la loro attenzione.
L’ambiguo meccanismo verrà spesso ripreso in seguito, lungo il sentiero ripetitivo della coazione nevrotica e quello sacrale del rito. Troverà altre apoteosi, a cominciare dalla Cassandra-ragno dell’Agamennone. In Spettacolo la ritualità della tragedia si ribalta in un esibizionismo vagamente sadomaso: la belva-protagonista Fedra, estranea e diversa fin dal suo primo apparire, viene ingabbiata in costumi scultorei, issata su alte pedane, esposta seminuda a mezz’aria con l’unico sostegno di un palo orizzontale, intrappolata da abiti e macchinari che la trasformano in un’icona in bilico tra ieraticità e feticismo; la sua declamazione è sempre enfatica, ricca di sottolineature ed eccessi, a volte strozzata, singhiozzante e gutturale, a volte melodrammaticamente intensa, ripiena e arrotondata. “È finita l’epoca dei mostri”, si lascia sfuggire la Nutrice: perché questa Fedra si rivela l’ultimo mostro che può infrangere le leggi dell’umanità, l’unica creatura ancora in grado di farsi travolgere dalla sua animalità e già pronta come un ibrido cyberpunk alla contaminazione con la macchina. Dunque è creatura intrinsecamente teatrale, attraente e repellente, irrimediabilmente diversa, ultimo residuo di un passato cancellato dall’avvento dell’Io e delle sue miserie, e insieme anticipazione di una spettacolarità inquietante e scandalosa.

Happy Days in Marcido’s Field.

In Happy Days in Marcido’s Field la protagonista resta incastonata per tutto lo spettacolo come un’ape regina al vertice d’una piramide di legno, che reinventa il monticello di sabbia immaginato da Beckett. Questa gabbia-trono occupa l’intero palcoscenico: quando si scioglie il sipario di corpi nudi che la nasconde alla platea, al sommo vi appare Winnie, bloccata e quasi infilzata sulla cima di queste travi, la pelle arrossata e annerita dal fuoco, come scorticata e sanguinolenta, in un sacrificio erotico alla Bataille. Sotto un’enorme ma ingrigita parrucca anni Sessanta, inguainata in un bustino decorato di rose, Winnie sferza con il suo stravolto monologo il monte di nudità che nel frattempo si sono avvinghiate allo scheletro ligneo, come in un affresco dell’Inferno; e sferza gli spettatori, nei loro abiti “civili”: come se per avere il “teatro” e catturare lo spettatore (e non solo il suo sguardo) fosse necessario prima questo denudamento, e poi andare ancora oltre, fino alla carne viva.

La “Palla che recita” di Una canzone d’amore.

In Una canzone d’amore Prometeo, il dio che ha liberato per gli uomini le forze della natura – il fuoco – si ritrova imbragato al centro di una gigantesca sfera di ferro, quasi a parodia del celeberrimo uomo vitruviano disegnato da Leonardo, inchiodato alla propria abnorme individualità. Intorno a questa gabbia-prigione si erge in forma di cornice un arco, sempre di ferro, largo nove metri e alto sei, che indica un ulteriore orizzonte, quello del boccascena-Mondo. Per tutto lo spettacolo Prometeo-Isidori, “Corpo Magico, insieme metallico ed umano”, verrà sballottato e centrifugato, autentica “Palla che recita” sospinta per la scena in un folle inesausto giravoltare, con l’attore costretto a declamare faticosamente e innaturalmente il testo in ogni posizione, sospeso nel vuoto con varie inclinazioni e spesso a gambe all’aria.
La scena diventa un ambiguo teatrino sadomasochistico a cui l’attore si fa legare per il piacere voyeuristico di chi lo guarda (peraltro analogamente inchiodato al suo posto e ruolo, come s’è visto), e che naturalmente diventa l’oggetto da sedurre. In un lavoro per certi aspetti minore, La locandiera, si fa esplicito il rimando a Kleist e Craig: per tutto lo spettacolo gli attori agiscono come marionette mosse da fili ben evidenti, in un abnorme teatrino per bambini.

La Grande Conchiglia di Bersaglio su Molly Bloom.

La strepitosa scenografia di Bersaglio su Molly Bloom moltiplica il meccanismo sadomasochistico della legatura su un’enorme struttura-sipario in ferro, illuminata da cento lucine, che occupa l’intero boccascena. Gli undici “cantanti Marcido” – alcuni raddoppiati da sagomati in cartone per riempire tutte le nicchie di questo gran retablo – sono imbozzolati all’interno di altrettanti costumi-conchiglia bianchi, a loro volta collegati da tiranti alla Grande Conchiglia che fanno risuonare di voci soliste e contrappunti corali.
Come abbiamo visto, attore e scena sono collegati spesso inestricabilmente in un tutt’uno da legacci e corregge, funi e carrucole, protesi e ceppi, che sospingono il corpo vivo, con la sua carne pulsante e il suo respiro, verso la macchina e la cosa. Costumi e acconciature possono evocare anche la materia o l’animale. Esemplari e memorabili restano i costumi dell’Agamennone, che intrecciano l’umano con il minerale, il vegetale, l’animale, e che al tempo stesso fungono da sorgenti ritmiche e rumoristiche, come mantelli sciamanici: le scaglie di rame dello strascico di Clitennestra-serpente, le lance di legno che si dipartono da Agamennone-istrice e – già citato – l’abito pesantissimo e interamente ricamato di anelli d’ottone con corona-lampadario a raggiera d’alluminio al cui centro campeggia una Cassandra-ragno. In un’“opera d’arte totale” ossessiva e claustrofobica, l’elemento umano resta così angosciosamente sospeso tra la dannazione e la redenzione, tra la regressione nella materia e la sublimazione nello spirituale.
L’ibridazione tra umano e non umano resta peraltro una costante a cui attingere, non appena se ne presenta l’occasione. A volte – e con i Marcido accade spesso – si condensa in esperimenti che generano efficaci metafore sceniche.

La Grande Ballerina protagonista di Canzonetta.

In Canzonetta – presentato come “studio dai Persiani” – protagonista è la Grande Ballerina (in Eschilo era la regina Atossa, vedova di Dario e madre di Serse), essere “finto naturale”, chimera che nasce dalla fusione di due corpi, sormontata da un ennesimo grande occhio cieco e da una beffarda corona-aureola decorata di mollette da bucato; anche le mani sono riproporzionate grazie a due protesi di legno che alludono ai remi della battaglia navale di Salamina, intorno a cui ruota il testo. A creare il mostro è il tutù rosso che inguaina due corpi impilati e incastrati uno sull’altro, quelli “dell’attore che verso il basso preme seguendo gravità e del danzante che alla gravità si oppone e verso l’alto spinge”, come annota Ferdinando D’’Agata: alle sue gambe muscolose tocca, in un exploit atletico, il ruolo del “danzante”, mentre la voce dell’attore “che verso il basso preme” è quella di Maria Luisa Abate. Proprio nel contrasto tra queste due energie contrapposte, tra voce e corpo, sta il senso di una sperimentazione quasi agonistica: secondo le note di regia, “lo stridere delle giunture mentre è in atto lo sforzo per dare esistenza al progetto chimerico, fonderà lo spettacolo”.
In questa colorata sarabanda di ibridi e chimere s’intrufolano animali totemici, che campeggiano su grandi pannelli o in enormi sculture: il Gatto e la Volpe per Pinocchio

Oliviero_Ponte_di_Pino

2007-01-09T00:00:00




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