Caro Rutelli, i festival non si inventano

L'’elzeviro su "Liberazione" del 10 febbraio 2007

Pubblicato il 10/02/2007 / di / ateatro n. 106

Leggo la notizia di un prossimo festival di teatro in Italia «tipo il festival di Avignone o Edimburgo» proposto dal ministro per i Beni e le attività culturali, Francesco Rutelli.
Già l’idea di fare qualcosa che deve assomigliare a qualcos’altro mi sembra improbabile. Conosco il festival di Avignone abbastanza bene. Sono stato invitato e prodotto diverse volte nella sezione “in”, dove vengono presentati spettacoli scelti da una direzione che, nei 60 anni di vita, ha creato una fortissima équipe di persone, le quali mettono tutto il tempo, la passione, la competenza, a far sì che l’evento, con un pubblico di migliaia e migliaia di persone, diventi una vera, grande presentazione delle esperienze più importanti del panorama teatrale internazionale.
Ma tutto questo succede in Francia. In una Francia dove da moltissimi anni la cultura è stata messa al centro delle priorità dello Stato, dove un lungo e appassionato progetto di decentramento culturale ha fatto si che importanti teatri nazionali siano stati creati anche in piccoli paesi. Questa politica ha permesso di attirare migliaia di persone e, soprattutto, di mostrare negli spazi pubblici un teatro che parla con linguaggi diversi: con la danza, la musica, con incontri tra pubblico e artisti.
Succede così che, grazie a questo forte fermento culturale creato in tanti anni di lavoro, d’estate molte persone decidano di andare ad Avignone spinte da un reale desiderio di cultura, di conoscenza. Ma in un paese come l’Italia dove c’è stato un appiattimento culturale totale, dove la televisione ha ridotto tutto alla riconoscibilità o meno del viso famoso che appare sul piccolo schermo, dove un’oligarchia di potere culturale tiene in mano tutto, dove di teatro non si parla più nei giornali, nella tv, se non in una maniera totalmente salottistica e inutile (“mi è piaciuto, bravo lui, intensa lei, serata piacevole, la parola al critico …”), fare un festival di teatro “tipo…” cosa vuol dire?
Ridare agli stessi padroni le redini di altro potere? Essere costretti a chiamare visi noti della televisione perché altrimenti un pubblico inesistente o comunque reso morto sia attirato? Parliamo di un paese dove i pochi festival sono stati fatti morire, dove sono stati fatti morire i teatri, i gruppi, dove antichi baroni hanno creato lobby di potere non per fare cultura, nel profondo, ma per mantenere salde le loro poltrone: hanno confuso il senso di fare cultura con il bisogno esclusivo e anche patetico di mantenere “per sempre” quel potere.
Non sarebbe forse meglio iniziare a prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati, ripartire da un livello zero, dare nuova linfa a tutto quell’humus sotterraneo, a quel fondamentale e vitale ricambio culturale, per costruire veramente un nuovo luogo, fregandosene di averne i meriti personali, un luogo dove la cultura ci ridarebbe gli occhi per vedere con più lucidità il mondo? E forse a quel punto, da quelle nuove radici, scoprire che potremmo fare un festival non “come…”, ma più bello, più vero di quelli presi a modello, perché sarebbe effetto di un autentico cambiamento culturale di questo paese. Siamo davanti a un bivio: o ci si ribella o si rischia di lasciarsi morire culturalmente.

Pippo_Delbono

2007-02-10T00:00:00




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