Memoria, racconto e tecnologia al Festival Transamériques di Montréal

Rouge décanté di Guy Cassiers e Lipsynch di Robert Lepage

Pubblicato il 19/09/2007 / di / ateatro n. 112

Nel programma decisamente contemporaneo e tecnologico dell’ultima edizione del Festival Transamériques, che si è tenuto a Montréal dal 23 maggio al 7 giugno, si dipana un filo rosso all’apparenza di segno opposto, ma in realtà profondamente legato alle problematiche instaurate dai nuovi media: il teatro come luogo di esplorazione della memoria e di reviviscenza del ricordo. Tre gli spettacoli che, con segni diversi, interrogano i meccanismi che sottendono il depositarsi delle esperienze nella coscienza e il loro ruolo nella formazione dell’identità individuale : Mnemopark della compagnia svizzera Rimini Protokoll, Rouge decanté del regista fiammingo Guy Cassiers, e infine, anche se in maniera differente, l’ultima creazione di Robert Lepage, Lipsynch.
Nel primo, a cui purtroppo non ho avuto la possibilità di assistere, dei pensionati con la passione del modellismo e un’attrice che interpreta se stessa guidano lo spettatore in un universo in miniatura attraversato con una videocamera, componendo con i loro racconti personali la storia di una Svizzera inedita, solitamente camuffata sotto gli stereotipi e le immagini da cartolina. Anche negli spettacoli di Cassiers e Lepage le vicende personali assumono una dimensione più vasta, in Rouge décanté, subendo la collisione con gli sconvolgimenti della Storia, in Lipsynch, entrando in relazione con le vite di altri individui, con cui formano reti invisibili, ma determinanti.
Cassiers, artista che ha iniziato la sua carriera fra i Paesi Bassi e il Belgio fiammingo negli anni Ottanta, compagno di viaggio di Jan Fabre e Jan Lauwers, ha dedicato numerosi dei suoi spettacoli multimediali, spessp tratti da opere letterarie, all’esplorazione dell’interiorità e dei meccanismi della memoria. Con Rouge décanté, realizzato in una doppia versione olandese e francese, si accosta ad uno dei maggiori scrittori viventi di lingua olandese, Jeroen Brouwers, in particolare al romanzo autobiografico che dà il titolo allo spettacolo (il testo è stato tradotto in italiano e pubblicato dall’editore Ila Palma di Palermo nel 1998, ma è quasi introvabile). Nelle pagine del romanzo, l’autore racconta la vicenda che lo ha colpito da bambino e che, nonostante il tentativo di una rimozione totale, ha segnato il corso della sua vita: la reclusione in un campo giapponese durante l’occupazione dell’Indonesia olandese avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Un evento considerato “minore” nella storia del conflitto, raramente riportato nei manuali e coperto da un pesante velo di autocensura e di pudore dagli stessi olandesi, convinti di non avere patito atrocità paragonabili a quelle subite dagli ebrei in Europa e di non avere quindi il diritto di raccontare. La reticenza, lo sforzo di minimizzare e cancellare sono anche al centro dell’opera di Brouwers : dopo una vita trascorsa nel silenzio, la morte della madre con cui da anni non intratteneva nessuna relazione, sconvolge il suo artificiale equilibrio e lo spinge ad addentrarsi in un faticoso e doloroso percorso attraverso le esperienze vissute all’epoca, quando, a cinque anni si trovò a testimone di episodi di quotidiana crudeltà. L’incisione della piaga infetta dei ricordi produce un racconto frammentario, in cui la ricostruzione del passato si intreccia con l’analisi di vicende recenti, legate in particolare al rapporto con la madre con le donne, e con l’esplorazione degli anfratti più oscuri di se stesso.
L’opera di Brouwers è un colpo di fulmine per Cassiers, che, insieme alla sua equipe di collaboratori, decide di portare il romanzo sulla scena. L’adattamento, curato anche da Corion Baart, nasce dalla strettissima complicità con l’attore Dirk Roofthooft, che incarna la figura del narratore protagonista. Come i tre spiegano al pubblico alla fine della rappresentazione canadese, con una modestia ed una disponibilità sorprendenti, il copione non è stato fissato a tavolino, ma è scaturito dal coinvolgimento dell’attore in un processo di verifica continua della parola nel passaggio dalla scrittura all’oralità. Cassiers et Roofthooft si sono attenuti fedelmente alla lingua di Brouwers, e hanno deciso di presentare dei brani nella loro integralità, limitando le modifiche a dei tagli sulla macrostruttura del romanzo, ma senza intaccare, per quanto possibile, il suo sviluppo e la sua organizzazione lessicale e sintattica.
Roofthooft incarna sulla scena il percorso di conoscenza della scrittura, presentandoci un uomo tentennante, sfuggente, afflitto da una serie di piccole manie, cui riesce a dare spessore con una gestualità minima ma ripetitiva, e con l’esitazione e l’imperfezione nella dizione, accentuati nel caso della versione a cui ho assistito dall’uso della lingua francese. Questi elementi – la difficoltà nell’esprimersi e nel comunicare, il rapporto ossessivo e maniacale con la realtà – sono da subito concentrati nell’incipit dello spettacolo : nella semi oscurità della scena, si percepisce inizialmente solo uno rumore ritmico, come uno strofinamento, che sembra durare qualche minuto; progressivamente, si distingue il personaggio, seduto, completamente assorbito nell’eliminazione delle callosità dei piedi. Senza tralasciare la pedicure, i cui rumori diventano una sorta di accompagnamento armonico del pensiero, inizia a consegnare al pubblico frasi, frammenti di riflessioni e racconti che a lentamente andranno a comporre la sua storia. L’alter ego di Brouwers risulta inizialmente antipatico, molto antipatico. Ma quest’uomo egoista, cinico, sgradevole, che ha sepolto la madre in una casa di riposo, si trasforma mano a mano che avanza nel recupero e nella rivelazione del suo passato, e mostra il suo volto fragile, ferito, umano, instaurando con gli spettatori una relazione dinamica, che sottilmente passa dalla repulsione all’empatia e alla commozione. Con la sua sola presenza Roofthooft, senza mai cedere al patetismo e al sentimentalismo, serra l’attenzione degli spettatori in un silenzio teso e partecipe, che immobilizza la sala nel corso della rappresentazione, pur difficile e impegnativa.
In realtà, non è del tutto esatto affermare che l’attore sia solo sulla scena : Cassiers lo inserisce infatti in un dispositivo tecnologico, all’apparenza statico ed essenziale, assolutamente non spettacolare, ma che lavora insieme a Roofthooft, lo accompagna e ne forma la recitazione. Sei telecamere circondano il palcoscenico come se fosse un ring, simmetricamente e perpendicolarmente poste sui quattro lati del palco. Le loro traiettorie sono unite da strisce rosse che formano una rete regolare sulla superficie nera e liscia del palcoscenico, su cui sono collocate inoltre alcune basse vasche d’acqua rettangolari e delle mattonelle bianche parallele alla linea del proscenio. Il Giappone è così evocato attraverso i colori – nero, rosso e bianco –, la geometria essenziale degli elementi scenici, che ricordano i giardini dell’Oriente, ed infine dall’enorme veneziana a pannelli mobili che ricopre interamente la parete di fondo. Un tavolino, una sedia ed una veneziana più piccola, di vetro opacizzato, spezzano l’ordine quadrangolare del palco, e suggeriscono il luogo reale, quotidiano, della vita del personaggio, spiato anche qui da una telecamera.

Roofthooft si muove in questo spazio sorvegliato. Con estrema precisione segue le traiettorie dello sguardo delle telecamere, come imprigionato dal suo passato e dalle sue stesse strategie di difesa. Per tutta la durata dello spettacolo, la sua immagine, ora in primo piano, ora in piano americano, ora in dettaglio, viene proiettata sulla parete di fondo o della veneziana intermedia, ingigantita, trattata a volte in diretta con effetti di colorizzazione o di ralenti. L’immagine elettronica declina differenti articolazioni della visione e del rapporto reale/virtuale: può duplicare e amplificare la visione della scena, offrirne un punto di vista eccentrico, mostrando il viso dell’attore quando dà le spalle al pubblico ad esempio, o infine incrostarsi sul suo corpo, straniando e complicando la percezione, come nella sequenza in cui la proiezione dell’occhio incrocia il petto dell’attore in piedi sulla linea del proscenio. Ogni frammento narrativo, ogni momento di rivelazione si concretizzano sulla scena in una posizione specifica che Roofthooft assume rispetto al dispositivo e in un gesto ripetuto con i pochi oggetti presenti sul palco quasi nudo. Come lo sguardo dello spettatore è moltiplicato e conteso da diversi punti di attrazione, così lo sguardo dell’attore è duplicato e diviso fra la platea e la telecamera. In questo modo, Cassiers problematizza la comunicazione fra attore e spettatore, e tende intorno al dispositivo scena-sala una rete che ora avvicina e ora distanzia i due poli fondanti dell’evento teatrale. Oltre alla visione, anche il suono gioca un ruolo determinante in questa dialettica. Non solo la voce di Roofthooft è amplificata da un microfono, ma anche i rumori del suo corpo e degli oggetti che si trova a manipolare. Il respiro, i battiti, i fruscii, gli scricchiolii sono diffusi tramite un sistema di spazializzazione, che avviluppa lo spettatore e ne complica i punti di ascolto. La “gabbia-maschera” multimediale di Cassiers conduce lo spettatore nello spazio dell’interiorità, dentro i processi mentali e delle reazioni emozionali del personaggio. Questo palcoscenico mediatizzato diventa il luogo in cui non solo viene restituita la parola a chi è stato escluso dalla storia, ma in cui ci si immerge all’origine di questa parola e se ne segue il difficoltoso affiorare da una memoria vanamente rimossa.

Anche in Lipsynch di Lepage, seconda tappa di cinque ore di un work in progress ancora in corso, troviamo la storia di una vittima dimenticata, inserita però in un montaggio caleidoscopico di altre storie ad essa inconsapevolmente o meno legate. Prima di affrontare lo spettacolo, devo però dire due parole sull’atmosfera che lo circonda: assistere a una creazione di Lepage in patria è già di per sé un’esperienza interessante, che induce a interrogarsi sulla posizione che il teatro può assumere nella società contemporanea. Come prevedibile, il teatro è colmo, ma, cosa più interessante, di persone di tutte le età, fra cui molti giovani e giovanissimi, e all’apparenza di diversa estrazione. Già nel foyer si respira una tensione particolare, una specie di frenesia che sprizza dal chiacchiericcio vivace e che non si trasforma nel silenzio concentrato dei grandi eventi teatrali una volta entrati in sala. Al contrario, il pubblico continua a rumoreggiare, e un attimo prima dell’inizio dello spettacolo, esplode in un applauso.
Nella particolarissima situazione del Québec, provincia francofona nel cuore della cultura anglosassone che domina il mondo, Lepage ha acquisito con i suoi spettacoli un posto di beniamino nel cuore del pubblico, diventando quasi una sorta di star popolare nei confronti della quale la considerazione critica ed estetica si mescola ai reagenti più irrazionali dell’affetto e dell’identificazione. Se il rapporto fra il regista e il suo pubblico si articola secondo queste coordinate, l’evento teatrale e lo spettacolo subiscono anch’essi una trasformazione? In effetti, il teatro sembra ritrovare la spontaneità e il carattere festivo, liberandosi dall’etichetta polverosa di prodotto culturale d’elite che, almeno per quanto riguarda la situazione europea, rischia di soffocarne la vitalità e di porne in discussione la stessa necessità. Nell’ottica québecois, forse più libera da pregiudizi culturali e da rigide partizioni di generi, il teatro, anche quello artisticamente valido e sperimentale, mi sembra non perda completamente un certo valore spettacolare di intrattenimento – anche se, ammetto, la parola non mi piace – il che non significa a priori superficialità di argomenti, rifiuto della riflessione e routine estetico-formale. Condividendo l’esperienza di Lipsynch con il pubblico québecois, ho avuto l’impressione di capire meglio il teatro multiculturale e multimediale di Robert Lepage, che, come un funambolo, è capace di coinvolgere completamente lo spettatore nelle storie che racconta, avanzando sospeso in equilibro fra semplicità e complessità, ironia e pathos, narrazione e lirismo.
L’incipit dello spettacolo appartiene a quest’ultimo registro. Sulla scena spoglia, illuminata da una fredda luce blu, entra la soprano Rebecca Blankenship, la cui imponente figura bionda crea un immediato collegamento con I sette rami del fiume Ota, e canta l’aria struggente della sinfonia n° 3 di Henryk Mikolaj Górecki, le cui parole introducono al tema fondamentale della maternità, dell’origine dell’essere umano e della sua identità. Lepage non ci colpisce con un’immagine scenica, ma con una voce intensa, le cui vibrazioni sono ulteriormente amplificate e potenziate da un microfono, e ci introduce allo spettacolo attraverso una soglia profonda, che ci lascia come sospesi prima del teatro. La voce umana è infatti il cuore di Lipsynch, l’elemento conduttore le vicende dei sette personaggi raccontate nello spettacolo, organizzate in sequenze autonome il cui senso complessivo viene svelato nell’ultima parte dello spettacolo: Ada, cantante lirica si trova in un aereo a tenere fra le braccia il neonato Jeremy alla morte della madre, e decide di adottarlo; Thomas, compagno di Ada, neurologo di chiara fama è tormentato da dubbi religiosi e esistenziali; Marie, doppiatrice canadese, viene operata al cervello da Thomas, e dopo un periodo di convalescenza in cui perde l’uso della parola, si consacra alla ricerca del ricordo della voce del padre defunto; Jeremy, cresciuto, diventa regista cinematografico, e durante la realizzazione del suo primo film, vive un amore sfortunato; Sebastiàn, fonico impegnato nel montaggio sonoro del film di Jeremy, alla morte del padre torna in Spagna e si trova a fare i conti con il suo passato; Elizabeth, anch’essa doppiatrice, ex-prostituta dal passato oscuro, è accusata della morte di Toni, attore inglese amico di Sebastiàn; infine Lupe, madre biologica di Jeremy, è la vittima silenziosa all’origine di questi destini incrociati, giovane del Nicaragua venduta dalla zio a trafficanti tedeschi, violentata e costretta a prostituirsi ad Amburgo, città da cui sta sfuggendo proprio su quell’aereo dove invece trova la morte all’inizio dello spettacolo.
Come si capisce anche da questi brevi cenni, che non rendono certamente la complessità della trama, Lepage torna con Lipsynch al tipo di composizione caratteristico in particolare della grande epopea I sette rami del fiume Ota, riprendendo l’organizzazione combinatoria della narrazione, in cui le vicende individuali di diversi personaggi in epoche e luoghi diversi, che sembrano scorrere parallele, sono in realtà intrecciate in nodi invisibili che ne determinano il corso. In questo caso, a differenza della creazione su Hiroshima, non è la Storia a costituire il filo conduttore di queste tranches de vie, ma l’esplorazione del linguaggio, e, per citare l’assonanza francese voix/voie evocata nel programma di sala, la ricerca della propria voce e della propria strada nel mondo. Poiché la Storia non è il fulcro della narrazione, la collocazione cronologica delle varie sequenze non è specificata, ma esse slittano senza indicatori dal passato ai giorni nostri. Tutto si svolge in una temporalità particolare, una sorta di presente sospeso che procede per sussulti, quasi traducendo anche nell’organizzazione dell’azione scenica il décalage fra parola detta e riprodotta, immagine e suono, suono e senso, pensiero e linguaggio che accomuna le differenti vicende.
L’effetto di sospensione che abbiamo sottolineato riguardo all’incipit costituisce infatti una cifra dello spettacolo, legata anche al dispositivo scenografico ideato da Lepage e Jean Hazel. A partire da tre strutture mobili e modulabili, dotati di pareti scomponibili e schermi trasformabili, Lepage costruisce sul palcoscenico gli ambienti più differenti – aeroplani, treni, appartamenti, strade, metropolitane – unendo però in questo meccano in metamorfosi continua la complessità tecnologica della progettazione alla semplicità ludica di alcune soluzioni : l’atterraggio dell’aereo è reso dall’inclinazione repentina dei passeggeri e dal lampeggiare di luci stroboscopiche, le fermate della metropolitana dallo scorrere sul fondo scena del logo proiettato delle varie stazioni e dal passaggio dietro i finestrini di figure poste su carrelli. La scenografia viene trasformata a vista alla fine di ogni microsequenza narrativa, grazie all’intervento di numerosi tecnici : in questi silenzi, riempiti solo nella vicenda di Jeremy, in cui i servi di scena diventano i macchinisti del set cinematografico, guidati da una petulante e assai poco femminile direttrice, la rappresentazione si ferma, il flusso si interrompe, e rimane solo il rumore del lavoro teatrale. Un effetto così marcato, che ha disturbato alcuni spettatori, forse è imputabile ad un difetto di rodaggio dello spettacolo, visto che si tratta solo di una seconda tappa, ma credo che, benché perfettibile, il ritmo sincopato dell’azione faccia parte del senso d’insieme dello spettacolo. A questo proposito, non possono non venire alla mente gli ultimi due spettacoli di Ariane Mnouchkine, Le dernier caravansérail e Les éphémères, che, come la creazione di Lepage sono nati da un lavoro collettivo intorno a vicende individuali inserite in una riflessione più ampia sul fenomeno contemporaneo dell’immigrazione e sul valore universale delle piccole esperienze umane. Anche in questi casi, gli intermezzi fra una scena e l’altra, in cui gli attori si avvicendano a pulire, sistemare e preparare il palcoscenico, sono una maniera per rendere palpabile il teatro nel suo farsi e nella sua concreta materialità.

Lepage svela la costruzione della rappresentazione, e mostra gli artifici tecnologici di cui egli stesso si serve come regista, ma di cui si servono anche i personaggi all’interno delle loro vicende. Lo spettacolo mette in scena la difficoltà di comunicare e di ricordare che affligge in maniera sempre diversa i differenti personaggi, in un universo contemporaneo globalizzato, dove il viaggio, la comunicazione a distanza e la riproducibilità determinano non solo lo svolgersi dei destini individuali, ma modificano le modalità del pensiero, dell’azione e del racconto. Fra i tanti momenti significativi, mi limito a ricordarne due, che mi hanno particolarmente toccato. La prima è un’intervista a una donna che Thomas guarda sullo schermo del televisore, mentre sul lato del palco la scena viene ripresa in diretta con una telecamera. La donna, anziana, su una sedia a rotelle, con un marcato accento inglese e con una chioma che ce la fanno immaginare nelle campagne di oltremanica intenta a vendere torte a una festa di beneficenza, imbastisce un racconto di vari episodi della sua giovinezza, che ottiene inizialmente un effetto piuttosto comico. Ma a poco a poco, le continue precisazioni, gli inciampi nella testimonianza e le inesattezze linguistiche sempre più frequenti, spengono il sorriso e lo trasformano in compassione e soprattutto in una sorta di senso di colpa per non avere compreso : la donna è affetta dal morbo di Alzheimer, che sta stracciando in brandelli la memoria della sua vita, sta distruggendo la sua coscienza e la sua capacità di pensare e di comunicare.

In un altro racconto affidato ad una telecamera nella finzione, ma in realtà realizzato sul palcoscenico, la parola riesce invece a ricostruire il passato e a preservarne il ricordo. Lupe racconta a una giornalista il rito di iniziazione alla prostituzione coatta : lo stupro collettivo. Seduta su una sedia, Lupe mette insieme con fatica le parole, mentre dall’altra parte della scena, un uomo incappucciato, seduto anch’egli, si leva la camicia e passa le mani sul petto davanti a una telecamera. L’immagine del petto viene proiettata sull’abito bianco di Lupe, e mentre il suo racconto avanza, guardiamo con un disgusto che diviene insopportabile queste mani toccarla, mentre lei rimane impotente e noi spettatori muti testimoni dell’orrore. Come in Rouge décanté, il racconto mediatizzato, affidato alla telecamera o completato dall’immagine elettronica, acquista potenza ed intensità.

Lipsynch è una creazione ancora in formazione, che potrà svilupparsi in futuro secondo variazioni, metamorfosi e ampliamenti imprevedibili, e che probabilmente non ha ancora raggiunto la perfezione di funzionamento di un ingranaggio ben oliato. In ogni caso, come del resto gli spettacoli maggiori di Lepage, affascina già per la capacità del regista canadese di muoversi fra i registri, di raccontare il mondo di oggi fra iperrealismo e stilizzazione, in un intreccio necessario fra i temi e le storie affrontate, e le forme e i linguaggi convocati per metterle in scena. I due spettacoli presentati al festival di Montréal, pur nell’evidente e radicale diversità delle loro atmosfere e delle loro soluzioni, danno la misura di quanto il teatro oggi possa essere potente, e di come le ibridazioni intermediali offrano strumenti e metodi per inventare nuove forme, raccontare e svelare a se stessa l’umanità contemporanea.

Erica_Magris

2007-09-19T00:00:00




Tag: Robert Lepage (26)


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