Il grande romanzo teatrale di Robert Lepage sulle “Prime Nazioni” del Canada ieri e oggi: le polemiche, lo spettacolo

Kanata in scena con la compagnia del Théâtre du Soleil alla Cartoucherie de Vincennes

Pubblicato il 07/02/2019 / di / ateatro n. 167

1. La polemica

Il progetto è nato tra le polemiche. Per un autore come Robert Lepage, che ha fatto del dialogo tra le cultura uno dei temi portanti della sua poetica (a cominciare dalla Trilogie des Dragons sull’immigrazione cinese in Canada), l’accusa di essere politicamente scorretto perché nei suoi spettacoli non ci sono interpreti neri o inuit deve essere stata particolarmente dolorosa.
La bomba è scoppiata ai primi di luglio 2018, al Montreal International Jazz Festival. Slav. A theatrical odissey based on slave songs, la produzione di punta della rassegna, era stata cancellata dopo le prime repliche. L’accusa era partita da alcuni musicisti di colore. Per l’attivista nero Vincent Mousseau, “quello di Montreal è il più grande festival jazz del mondo e abbiamo ritenuto gravemente irresponsabile da parte del festival allestire lo show senza sentire le voci delle persone coinvolte”. C’erano state rumorose proteste fuori dal teatro: “Abbiamo visto alcune comunità nere e i loro alleati alzarsi per dire che non siamo d’accordo sul modo in cui la cultura nera è stata espropriata e messa sulla scena da gente diversa da noi”.
Dopo la censura Lepage aveva provato a ribattere all’accusa di appropriazione culturale: “Quello che mi ha colpito di più è l’intolleranza dei discorsi sia nelle strade sia in alcuni media. Qualunque cosa abbia portato a questa cancellazione è un attacco diretto alla libertà d’informazione”. Aveva contrattaccato: fare teatro significa “entrare nei panni di un altro per cercare di capirlo e – nel corso di questo processo – cercare di capire meglio anche noi stessi. Questo antico rituale richiede che noi prendiamo in prestito, per tutta la durata dello spettacolo, l’aspetto, la voce, l’accento e a volte anche il genere di qualcun altro”. Quando questo non ci è più permesso, concludeva, “si nega la natura stessa del teatro, Gli si impedisce di svolgere la sua funzione primaria e dunque lo si priva di significato”.
La cancellazione di Slav aveva messo in discussione anche il successivo progetto del regista canadese, centrato sulla storia, la cultura e la situazione attuale degli Inuit. Lo spettacolo era stato inserito nel programma del prestigioso Festival d’Automne a Parigi (dal 15 dicembre al 17 febbraio), ma il 14 luglio 2018 una lettera aperta di numerosi artisti e intellettuali canadesi sul quotidiano “Le Devoir” ne chiedeva la cancellazione: “La nostra invisibilità nello spazio pubblico e sulle scene non ci aiuta. E di questa invisibilità la signora Mnouchkine e il signor Lepage sembrano non tener conto, visto che nessun esponente delle nostre nazioni prende parte allo spettacolo”.
Il 24 luglio 2018, in un’intervista telefonica al quotidiano canadese “La Presse”, la fondatrice del Théâtre du Soleil Ariane Mnouchkine aveva ribattuto che “gli artisti, se sono davvero tali, non possono trasformarsi in commissari politici gli uni degli altri”. Del resto “l’arte dell’attore consiste proprio nel farsi altro”. Di questa capacità di “farsi altro”, incontrando culture diverse, nel corso degli ultimi decenni il Théâtre du Soleil ha fatto un metodo di lavoro e una poetica dalle forti implicazioni politiche.
Ariane Mnouchkine non si è limitata a difendere Lepage e il suo progetto. Per la prima volta ha affidato uno spettacolo “ammiraglio” della compagnia da lei fondata nel 1964 a un altro regista: “La rivalità non esclude la collaborazione. L’ammirazione provoca una gelosia lucida e stimolante. Kanata è il frutto di questa ammirazione. Di una parentela da tempo evidente, e oggi scelta, tra Lepage e me”, ha scritto in una lettera al pubblico il 22 ottobre 2018.

2. Lo spettacolo

Come è accaduto per altri grandi spettacoli-viaggio della compagnia parigina, Kanata è il frutto di una lunga preparazione: tutti gli attori e la compagnia hanno soggiornato nel Quebec e a Banff, hanno incontrato autori come Margo Kane, ma anche autoctoni (spesso sottratti alle famiglie e internati nelle Indian Residential Schools) e mediatori culturali.
Il risultato del lavoro di Lepage e della compagnia – accompagnato nei mesi successivi dal basso continuo della polemica – è uno spettacolo di quasi tre ore, complesso e stratificato, che si presenta come un frammento di un progetto più ampio: Kanata. Episode I. La controverse.
Il nodo intorno a cui ruota lo spettacolo in scena alla Cartoucherie de Vincennes è la situazione dei cittadini delle Premières Nations (le “Prime Nazioni”) e oggi del Canada, a partire da una situazione emblematica: il degrado di Hastings Street a Vancouver, rifugio di homeless e zona di spaccio e prostituzione, con una forte presenza di autoctoni, sradicati ed emarginati. Intorno al nucleo tematico e alla localizzazione, Lepage costruisce un complesso meccanismo romanzesco, con una serie di personaggi esemplari.
Ci sono Leyla Farrozhad (Shaghayegh Beheshti), restauratrice del Museo delle Belle Arti, e il curatore della mostra, Jacques Pelletier (Vincent Mangado), che nella prima scena illustrano il background culturale della vicenda e le sue radici storiche. Ferdinand (Sébastien Brottet-Michel) è attore e vuole sfondare a Hollywood, Miranda (Dominique Jambert) vorrebbe fare la pittrice: due giovani affittano un loft da un’imprenditrice cinese (Man Waï Fok). C’è Rosa (Eve Doe Bruce), assistente sociale del centro di recupero, e ci sono i tossici della zona, tra cui spicca la protagonista della vicenda, Tanya (Frédérique Voruz), la figlia di Leyla: se la madre in quanto Inuit è stata strappata ai genitori e affidata a una coppia di iraniani, la figlia è sprofondata nella tossicodipendenza. Tobie (Martial Jacques) è un giovane documentarista gay (anche lui ha sangue nativo).
In Hastings Street passa anche il serial killer (Maurice Durozier) che fa strage delle giovani tossicomani che si prostituiscono. Poi ci sono poliziotti come Marcello (Duccio Bellugi-Vannuccini) e i suoi colleghi (Omid Rawendah, Taher Baig, Aref Bahunar, Jean-Sébastien Merle, Saboor Dilawar ) e il farmacista di strada, l’ebreo Ariel (Arman Saribekyan) che ricicla siringhe dalla sua roulotte. Poi gli amici e i camerieri, in un cast che comprende 26 nazionalità diverse: multiculturale non per scelta, ma semplicemente perché così è accaduto al Soleil, e dunque era necessario che accadesse.
Le vicende di questi personaggi (e di queste coppie) si intrecciano e convergono verso un finale altrettanto complesso e stratificato, a chiudere una trama da serial televisivo. Lepage e la troupe del Soleil danno allo spettacolo la fluidità di un racconto cinematografico: sono decine i cambi di scena a vista, che concretizzano i diversi set con carrelli e scenografie mobili. E’ una sfida: costruire uno spettacolo teatrale con la ricchezza e la capacità narrativa del cinema, ma con il valore aggiunto dell’immaginazione: Lepage e la sua quadra tecnica l’accettano e la vincono da sempre, con macchinerie semplici dagli effetti complessi. Con inventiva e virtuosismo il team di Ex Machina costruisce anche in questo caso una fabbrica della meraviglia, a volte sorprendente e poetica (come nell’indimenticabile scena del trip aereo di Miranda), a volte più prevedibilmente dettata dalla trama .
Un’ulteriore stratificazione, che rende conto della necessità di teatralizzare un plot romanzesco e cinematografico, investe le immagini, sia fisse sia in movimento. Ci sono i quadri: quelli del Museo, ritratti che un attore può incarnare e animare, ma anche i quadri di Miranda, che immagina e dipinge le vittime del serial killer. C’è la cinepresa con cui Tobie sta girando il suo documentario ma anche le telecamere di sorveglianza della prigione e gli schermi dei cellulari. Ci sono le retroproiezioni che illuminano e illustrano la parete di fondo con il cielo e le montagne sopra Vancouver. Ci sono le allucinazioni di Miranda… Tutte queste immagini dialogano con quello che accade sulla scena, davanti agli occhi degli spettatori. Ci sono sequenze alle quali la presenza dell’attore dà un’energia e una potenza – nell’interazione con lo spettatore – impossibili da raggiungere su qualunque schermo. Nei loro spettacoli Lepage e Mnouchkine li cercano da sempre, questi momenti.
Un’analoga complessità riguarda le lingue che si incontrano, oltre al francese, a volte messe a confronto con ironia: come fa un attore francofono a sfondare a Hollywood se non ha un coach che ribalti accento e postura?
Questi sono solo alcuni dei temi che sottendono questo lavoro di Robert Lepage, accolto con favore dal pubblico parigino: tanto che le repliche, che dovevano terminare il 17 febbraio, sono state allungate di un mese, in attesa della trasferta in Canada nel 2020.

3. La censura

Kanata riflette anche, in un meccanismo di mise-en-abîme, le polemiche che hanno accompagnato la sua genesi. C’è la denuncia della situazione in cui versano gli autoctoni e delle sue radici storiche. Ci sono – esemplificati dalla generazione delle madri – i bambini strappati ai genitori naturali e internati a forza nei pensionati oppure affidati a famiglie ritenute “normali”. Ci sono i ragazzi di oggi, emarginati e discriminati – esemplificati dalla generazione delle figlie. E’ una storia di violenze inaccettabili e senza risarcimento, che vengono ribadite dalla violenza razzista e misogina del serial killer. C’è la faticosa, sofferta emancipazione, con l’orgogliosa rivendicazione della propria identità culturale e prima ancora umana, da parte di Tobie e Leyla. Ma c’è anche il destino tragico delle vittime.
Il doppio di Lepage, nello spettacolo, è Miranda, la giovane con una vocazione artistica ancora indefinita. Almeno finché non decide di dipingere i ritratti – veri o immaginati – delle vittime di una violenza senza nome. Anche se è animata dalle migliori intenzioni ed è in totale buona fede Miranda finisce, come Lepage, al centro di una “controversia” che non capisce. Il centro di recupero decide di censurare la sua mostra, non appena scopre che non ha chiesto il consenso per esporre le sue opere ai parenti delle vittime. Come le spiega la madre di una delle vittime: sua figlia gliel’hanno già portata via due volte, la prima strappandogliela dal grembo per darla in adozione, la seconda quando l’hanno uccisa. E adesso gliela porta via anche Miranda, esibendo l’immagine di una persona che la ragazza non ha nemmeno conosciuto e rinnovando il suo dolore. Le denuncia dell’artista è giusta, ma può ferire molte sensibilità. La strumentalizzazione è sempre in agguato (e magari porta vantaggi economici all’artista, prima che alle vittime). E poi, che ne sa Miranda dell’esperienza dei tossici, che cosa ne può capire? Ha mai provato a farsi una pera? Dunque non ha diritto di parlare.
La società sta cambiando. La nostra sensibilità sta cambiando. Il rapporto con l’altro costruisce la nostra identità. Da un lato ci sono gli imperativi del politicamente corretto e il rispetto dell’altro, la difesa della propria dignità e della propria cultura. Dall’altro ci sono i muri, la chiusura in bolle autoreferenziali, il bisogno di un nemico, il razzismo dilagante. Il virus identitario colpisce qualunque comunità, un’identità collettiva troppo forte uccide le differenze, ma senza identità siamo angosciati, perduti.
Questi sommovimenti investono l’intera società, a partire dalle viscere per arrivare alla politica, ma gli artisti – a cominciare dai teatranti che agiscono nella polis giocando sulle identità – si ritrovano in prima linea. Kanata prova ad affrontare questi problemi, senza né volere né potere offrire una soluzione, ma lavorando sulle contraddizioni, sperimentandole e cercando di condividere la propria esperienza.

Robert Lepage contro la censura aSlav

L’intervista di Ariane Mnouchkine contro la censura a Slav

La locandina dello spettacolo

La controversia sul sito del Théâtre du Soleil




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