La fine del (nuovo) teatro italiano

E allora val la pena di continuare con ateatro e di rifare le buone pratiche?

Pubblicato il 08/08/2008 / di / ateatro n. 117

Questo intervento a gamba tesa probabilmente apparirà a molti assai irritante, oltre che poco rispettoso del lavoro, delle storie personali e del generoso impegno di molti artisti e operatori. Tuttavia l’esito delle recenti elezioni politiche (e delle successive amministrative) segna un cambiamento radicale del nostro paese: una mutazione culturale prima ancora che politica, di cui dobbiamo tener conto.
In una prospettiva storica, le elezioni del 13-14 aprile 2008 possono ricordare quelle del 18 aprile di sessant’anni prima, che posero fine alla stagione dell’unità nazionale nata dalla Resistenza. Allora la sconfitta del Fronte Popolare diede inizio alla lunga egemonia democristiana. Oggi la prospettiva è forse diversa, e nessuno sa quanto potrà durare l’egemonia della destra. Pare tuttavia irrimediabilmente concluso il ciclo della “seconda Repubblica”, ovvero il quindicennio seguito a Mani Pulite e al crollo del sistema dei partiti, caratterizzato dall’alternanza al governo tra polo berlusconiano e centro-sinistra prodiano. Alla fine ha vinto e quasi stravinto la destra, mentre la sinistra non c’è praticamente più (mentre il vecchio centro democristiano era subito stato sepolto dal bipolarismo): implosa sulle proprie contraddizioni e velleità la sinistra radicale, incerto sulla propria identità e prospettive il Pd, nato frettolosamente da un’operazione dei boiardi di partito ma senza un autentico radicamento e privo di un credibile orizzonte culturale. Peraltro la crisi della sinistra nell’era della globalizzazione non è solo un problema italiano: basti pensare ai socialisti francesi e al labour britannico (su questo, vedi anche Raffaele Simone, Il mostro mite, Garzanti, Milano, 2008).
Qualunque siano gli sviluppi futuri del quadro politico, questo dato di fatto impone una riflessione che può risultare dolorosa, ma che va condotta con il massimo rigore, senza fare sconti: perché senza capire a che punto siamo arrivati, è ancora più difficile proseguire il cammino. Perché la crisi politica della sinistra è il riflesso di una crisi culturale, e viceversa.
Una diagnosi realistica dell’attuale scenario è anche il presupposto necessario per immaginare quale possa essere il futuro di una realtà come ateatro, che (nel suo piccolo) in questi anni ha lavorato in diverse direzioni, riconducibili tuttavia a un orizzonte genericamente di sinistra (ferma restando la totale indipendenza e autonomia della testata). In questi anni questo sito ha lavorato soprattutto per studiare e far conoscere, sul versante critico, le esperienze più vivaci e innovative della scena teatrale e internazionale; sul versante della politica culturale, ha denunciato alcune clamorose storture (come quella bipartisan di Arcus spa); ha lavorato al rinnovamento del sistema teatrale, con una funzione insieme di controllo, denuncia e proposta, rivolgendosi soprattutto alle strutture politiche e culturali della sinistra. A volte abbiamo ottenuto ascolto (come dimostrano alcune delle presenze istituzionali alle Buona Pratiche del Teatro), ma gli effetti pratici sono stati scarsissimi (o così almeno ci pare).
Sul versante critico e del rapporto con la pratica teatrale, ateatro ha rivolto la sua attenzione in diverse direzioni, nella consapevolezza delle radici storiche della scena italiana del dopoguerra e delle successive evoluzioni (e forse delle sue piccole rivoluzioni estetiche). E’ innegabile che queste rivoluzioni abbiano trovato ispirazione e forza soprattutto in una cultura che possiamo definire genericamente “di sinistra”. I suoi valori fondanti sono stati la diffusione dell’istruzione, della cultura e dell’arte a tutti i cittadini (a cominciare dalla messa a punto dell’ideologia della cultura come servizio pubblico, che dunque deve essere sostenuto dalla collettività), la solidarietà e il rispetto delle differenze, l’idea che la cultura sia anche un atto civile e politico (ferma restando la sua necessaria autonomia da ogni ideologia), l’apertura al diverso e il rispetto delle varie esperienze umane, sociali e culturali (a cominciare dall’attenzione per le culture popolari), la resistenza all’appiattimento e all’omologazione imposti dalla globalizzazione, una pratica costante dell’incontro e del dialogo e non dell’esclusione…
Si potrebbe continuare, con un elenco di posizioni forse generico ma che tuttavia evoca un comune sentire, declinato in maniera diversa nel corso dei decenni. Tenendo tuttavia al centro l’idea che il teatro potesse e dovesse essere uno degli elementi che all’interno della polis producono democrazia. Non è un caso, per esempio, che tutte queste esperienze abbiano sempre guardato con un certo sospetto a qualunque forma di divismo (persino quello dei maestri della regia).
La prima fondamentale rivoluzione ha visto, subito dopo la guerra e la catastrofe del fascismo, la nascita dl Piccolo Teatro di Milano e degli stabili: l’obiettivo era quello di democratizzare la cultura “alta”, fino ad allora appannaggio dei ceti più abbienti, per offrire alle classi popolari la possibilità di accedervi: “Un teatro d’arte per tutti”, secondo il fortunato slogan strehleriano. Ma già negli anni Sessanta, con la lottizzazione politica del consigli d’amministrazione e l’ingerenza dei partiti da un lato; e dall’altro con l’irrompere della cultura di massa (e di una televisione in fondo pedagogica come la prima Rai), questo modello di impronta nazional-popolare è entrato in una crisi da cui non si è mai risollevato. Negli anni Settanta quelle istanze democratiche (sia nel rapporto con il pubblico, sia all’interno delle compagnie) sono state generosamente rilanciate dal movimento delle cooperative, poi riassorbito e sostanzialmente neutralizzato dal riflusso degli anni Ottanta e Novanta.
Come ateatro, abbiamo in diverse occasioni tentato di rilanciare la discussione sugli stabili, e in generale sulla funzione del teatro pubblico (la webzine è nata anche intorno alla querelle Martone-Teatro di Roma), ma senza particolare eco. Evidentemente il sistema di potere che si è sedimentato intorno a questi enti (così come all’ETI) è troppo attento a difendere i propri ruoli e privilegi per poter pensare di riformarsi.
Un secondo filone a cui il sito ha guardato con interesse è da sempre il nuovo teatro, legato invece all’esperienza delle avanguardie artistiche (ma anche politiche) del Novecento. In Italia sono state rilanciate sulla scena con particolare vigore a partire dagli anni Sessanta, da Carmelo Bene in poi, attraverso quelle che sono state definite “le tre onde” del nuovo teatro: i padri fondatori negli anni Sessanta, il teatro dei gruppi dalla fine degli anni Settanta, i Teatri 90. Tra i presupposti di queste esperienze (molto diverse tra loro e interessanti anche per questa varietà) ci sono: una società più frammentata e articolata, e dunque per certi aspetti più libera; la possibilità di costruirsi un’identità (anche culturale) partendo dalle proprie esigenze, affinità, interessi, desideri, a prescindere alla propria origine geografica, religiosa, sociale, culturale; la pluralità e la dinamicità dei linguaggi e della comunicazione. Anche qui entra in gioco un forte elemento democratico: non certo la spinta verso un egualitarismo omologatore, ma il riconoscimento delle diversità presenti nel corpo sociale; da questo punto di vista, queste esperienze hanno offerto una straordinaria “sonda” per cogliere alcune dinamiche via via emergenti all’interno della polis.
Tuttavia da qualche tempo anche questo filone pare subire uno stallo. Sembra rinchiuso in una sorta di ghetto: un’isola felice, e culturalmente ed esteticamente assai vivace, ancorché sempre al limite della sopravvivenza economica. Certo, ci sono state le pesanti resistenze del sistema teatrale, che non ha mai voluto far crescere queste realtà, coinvolgendole nell’indispensabile ricambio generazionale, responsabilizzando i più capaci portavoce del nuovo nella gestione dei singoli teatri e dell’intero sistema (tanto da ispirare per il settore la formula “teatro bonsai”). Al di là delle modalità creative e produttive, assai diverse da quelle degli stabili e dunque difficilmente integrabili in un sistema ormai sclerotizzato, questo tipo di esperienza prende peraltro atto della natura ormai elitaria del teatro rispetto ai mass media (dal cinema alla televisione) e tende dunque a porsi come comunicazione di piccoli gruppi a piccoli gruppi: una faccenda di microcomunità. Da un altro punto di vista, tuttavia, questa frammentazione di esperienze e di poetiche finisce per riflettere quella dell’attuale società dei consumi, con una polverizzazione di gusti e identità che la pubblicità (e la produzione on demand) intercettano ormai alla perfezione, per non parlare della polverizzazione della rete. Quella che era una esperienza d’avanguardia, opera di piccole élite (o avanguardie) culturali, è diventata l’orizzonte dei consumi di massa, per quanto spesso non condiviso consapevolmente. D’altro canto la difesa della propria identità e integrità artistica alla lunga rischia sempre di richiudersi su se stessa, in un circolo narcisistico. Non a caso, il nuovo teatro è sempre più un teatro di festival, seguito da tribù di pubblico nomade fatto di aficionados e addetti ai lavori, e sempre meno un teatro fertile, che vive la normale vita della poli: trova difficoltà a incontrare un pubblico “normale” all’interno delle stagioni cittadine, per incidere sulla realtà “feriale”. La crisi ormai cronica del festival di Santarcangelo, luogo simbolo di questo movimento e da sempre capitale morale del vivacissimo “distretto teatrale” romagnolo, è un sintomo di questo avvitamento: e non possono essere i volontaristici e generosi tentativi di restituirgli energia a ridargli senso e prospettiva.
Un terzo filone centrale nelle curiosità di ateatro, per certi versi affine a questo (e non a caso nato spesso dalle sue costole), è quello che possiamo raccogliere sotto l’etichetta dei “teatri della diversità”. Ovvero quelle esperienze che hanno dato voce e corpo teatrale a fasce in vario modo marginali, fino a quel momento escluse dal discorso comune; per loro il teatro è stato strumento di costruzione della propria identità (e dunque occasione di autoconsapevolezza); e insieme, nel momento in cui è diventato pubblicamente visibile sulla scena, li ha immessi nel discorso della polis.
Ma se pensiamo alle recenti devastanti campagne sulla schedatura dei bimbi rom (il grande allarme criminale nel paese della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta), se guardiamo all’atteggiamento nei confronti della diversità di troppi italiani (e di buona parte dei membri dell’attuale governo), verrebbe da pensare che quella dei teatri delle diversità è stata – nella migliore delle ipotesi – un’ottima pratica e una nobile testimonianza, ma che la pancia del corpo sociale sta purtroppo andando in tutt’altra direzione, con la benedizione di molti leader politici. Non si tratta di un problema astratto, di una questione meramente accademica: perché la controparte istituzionale di esperienze di questo genere è rappresentata ormai da amministrazioni locali e da un governo centrale che hanno presupposti ideologici e pratiche del tutto diversi e incompatibili con gli obiettivi di qualunque “teatro delle diversità” e in genere di qualunque “arte della diversità”: basti vedere la lite Sgarbi-Moratti sulla rassegna di teatro omosessuale, che pochi mesi fa ha ridicolizzato Milano.
Un ultimo filone teatrale etichettabile “a sinistra”, e osservato con attenzione critica da ateatro, riguarda i comici e i satirici, o meglio la strenua resistenza di molti di essi alle derive populiste e antidemocratiche del nostro paese. Beppe Grillo è l’esempio più clamoroso di questo filone (anche se lo stesso Grillo costituisce una risposta populista e non troppo democratica ai suoi bersagli polemici). Tuttavia lo spassoso antiberlusconismo, che si è fatto carico delle esilaranti e documentate denunce di tanti straordinari attori non sembra aver scalfito il carisma dello”Psiconano”: è anzi accaduto il contrario, almeno a giudicare dai risultati elettorali e dai sondaggi.
Un ulteriore elemento, a completare questo quadro sconfortante: la devastante sconfitta del centro-sinistra alle comunali di Roma implica anche la bocciatura della politica culturale del precedente sindaco, Walter Veltroni, che proprio su questo fronte si era impegnato con grande energia: da un lato con una politica di grandi eventi non solo teatrali (dalla Notte bianca al Festival del Cinema, dallo slancio dell’Auditorium e del Parco della Musica al festival letterario di Massenzio, fino ai mega-concerti gratuiti dei grandi divi pop), dall’altro con una politica di decentramento culturale e teatrale nei quartieri. Al crollo della sinistra ha certamente contribuito la deriva demagogica secondo la quale il teatro e la cultura sono uno spreco quando ci sono le buche nelle strade e gli ospedali non funzionano. Ma essa è anche il frutto di una certa insofferenza (anch’essa demagogica, per molti aspetti) nei confronti di un ceto intellettuale considerato in qualche modo affine e organico alla “casta” dei politici stigmatizzata dal pamphlet di Rizzo e Stella (che poi la destra, per garantirsi un minimo di credibilità sul versante culturale, peschi tra vecchi notabili democristiani e socialisti, organici alla casta da decenni, risulta paradossalmente irrilevante).
Su questo versante, ateatro ha continuato a denunciare i soprusi più clamorosi, gli abusi più evidenti e scandali spesso assolutamente bipartisan: basti pensare alle nomine spesso vergognose in certi cda (stabili ed ETI) o nella Commissione ministeriale. Senza particolari effetti pratici, va ancora precisato…
ateatro non è riuscita nemmeno a incidere su un aspetto elementare, e pre-politico nel rapporto tra cittadino ed istituzioni: ovvero a imporre quel minimo di trasparenza nelle scelte e nelle decisioni in materia di cultura in generale e di teatro in particolare. Perché, inutile negarlo, il teatro italiano è governato anche da meccanismi clientelari e di casta: il nostro teatro, così come il paese, continua a essere gestito da pochi inamovibili, di sinistra e di destra, che se proprio devono muoversi si limitano a scambiarsi le poltrone più importanti, in un accrocchio di complicità e ricatti incrociati. (In questo scenario, che deve fare una testata come ateatro, e in generale chi fa informazione? Ovviamente continuare a denunciare gli scandali e i malfattori di destra e di sinistra (e possibilmente mandarli a casa, cosa che nel nostro paese non avviene. Ma non basta: sarebbe anche necessario disegnare un nuovo quadro di riferimento, e trovare le persone in grado di metterlo in moto.)

Ci troviamo a rimirare un panorama di rovine, verrebbe da dire. Un teatro pubblico imbalsamato e sclerotizzato. Un nuovo teatro autoreferenziale e asfittico, Un teatro delle diversità che rischia di essere azzerato dall’incultura dell’identità e dell’intolleranza. I buffoni di corte che paradossalmente alimentano il carisma del sovrano e finiscono per renderlo immune da qualunque critica. I circenses che invece di creare consenso irritano il “popolo”. Una casta di funzionari della cultura e dello spettacolo che ha come unico obiettivo la propria sopravvivenza. Solo vicoli ciechi, ormai.
A questa provocazione viene subito da replicare che esistono e funzionano nel nostro paese diversi artisti, che proprio in questi vicoli (non ancora ciechi) si sono formati e hanno trovato forza e bellezza, con grande successo sia in Italia sia all’estero. Sull’esistenza e sulla qualità di queste eccellenze, siamo assolutamente d’accordo, da sempre, e abbiamo fatto di tutto per valorizzarle. Tuttavia difendere questi fiori all’occhiello non può bastare.
Perché quello che hanno fatto in questi anni le anime belle del teatro (e in generale della cultura e della politica), compreso ateatro, è stato sostanzialmente resistere: tener saldi alcuni punti fermi (in primo luogo la propria sopravvivenza e autonomia), continuando a procedere controvento. Alcuni si sono fortificati, tanti si sono logorati in questa lotta. Ora questa resistenza, al di là del suo valore di testimonianza, pare aver perso il suo senso, perché il fronte è stato sfondato. L’attuale orizzonte della politica culturale prevede un sostanziale disinteresse da parte dell’attuale governo per l’investimento nella cultura, e dunque una progressiva erosione dei finanziamenti al settore (con un’inevitabile tentazione di privatizzare); l’effetto sarà quello di salvare alcune inattaccabili punte di eccellenza e lasciar languire il resto; forse potranno essere lanciate o rilanciate due o tre grandi istituzioni e festival (basti pensare al robusto sostegno finanziario bipartisan che hanno ottenuto i festival di Napoli e Spoleto).
Tuttavia, per reagire a questo stato delle cose, al di là della resistenza a oltranza, che cosa può dirci oggi il teatro, di nuovo e di necessario? Quale può essere oggi un teatro per il quale val la pena di impegnarsi – mente, corpo e anima? Una prima certezza: se fossimo in guerra, quasi certamente non ci sarebbero le forze (in primo luogo di fantasia e di immaginazione culturali) per un contrattacco. Restano però diverse alternative, oltre alla resa senza condizioni e al silenzio. La prima è quella di pensare a consolidare un fronte più arretrato, con l’obiettivo di compromessi possibilmente dignitosi (del resto, è sempre affare di incontri tra singole persone). La seconda è quella di tentare di salvare e difendere alcune isole felici, “zone temporaneamente liberate”, in una prospettiva di guerriglia culturale. Con il rischio che vengano semplicemente tollerate come opportune valvole di sfogo, e al momento opportuno spazzate via, o solo logorate dal tempo.
Da diverso tempo i teatranti italiani tacciono, in attesa di eventi che probabilmente molti di loro temono (pur ritenendoli inevitabili). Anche ateatro ha taciuto, per vari motivi: vicissitudini personali, crisi del gruppo redazionale, e anche di oggettiva difficoltà a dare un senso al nostro lavoro, a cogliere i suoi effetti pratici in uno scenario come quello che abbiamo appena delineato.

A questo punto, che fare?
Andare avanti come prima? Potremmo forse farlo, ma ci pare inutile, e abbastanza insensato. E dunque prima o poi ci mancherebbero le forze. Possiamo tacere subito, archiviando un’esperienza di per noi molto bella e interessante, che che come tutte le faccende umane ha un inizio a una fine? (in fondo ateatro esiste già da otto anni, è un piccolo miracolo…)
In alternativa, possiamo provare a rilanciare la discussione, nel prossimo (auspicabile) incontro delle Buone Pratiche? Ma questo, ovviamente, non dipende solo da noi della redazione di ateatro, ma da tutti i nostri amici, a voi che in questi anni avete seguito il nostro lavoro.
E’ una porta stretta, molto stretta, ma è l’unica da percorrere, se non vogliamo che il teatro si riduca a museo o a puro intrattenimento.

Per approfondire vedi anche Gianandrea Piccioli e Oliviero Ponte di Pino,




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