Il bambino e l’acqua sporca

La proposta di Baricco di azzerare i fondi per il teatro

Pubblicato il 01/03/2009 / di / ateatro n. 120

“Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv”: così titolava in prima pagina il 24 febbraio 2009 “la Repubblica”, lanciando un ampio articolo di Alessandro Baricco che occupava le due pagine centrali del quotidiano.
La “brunettata” di Ba. ha colpito nel segno, scatenando una polemica che pare interminabile: ne abbiamo qualche traccia nel forum (ci sono gli interventi tra gli altri di Baricco, Doninelli, Buttafuoco, Scalfari, Scurati, Brunetta… ma se ne avete altri, il forum è lì apposta). Ma anche diversi collaboratori di www.ateatro.it come Franco D’Ippolito, Andrea Balzola e Mimma Gallina hanno sentito il bisogno di dire la loro su un tema a cui la nostra webzine è sempre stata assai sensibile.
Prima di entrare nel merito delle argomentazioni di Ba., è opportuno fare chiarezza su alcune questioni preliminari (e, proprio perché su questi temi lavoriamo e polemizziamo da sempre, attingere alla nostra poderosa ate@tropedia e alle Buone Pratiche).

1. Certamente le sovvenzioni allo spettacolo (e in generale alla cultura) vengono assegnate male. Anzi, malissimo. Scarsa chiarezza nei criteri di scelta, scarsa trasparenza delle assegnazioni. Lottizzazione e lobby. Rendite di posizione inaccettabili. Conflitti d’interesse. Nessuna seria valutazione dei progetti e dei risultati. Nessuna reale verifica sul modo in cui vengono spesi i denari pubblici. Dispersione delle risorse, sprechi. Ricorrenti sospetti di mafie e clientele. Veri e propri scandali, come quello bipartisan di Arcus spa, dove destra e sinistra si spartiscono risorse ingenti senza alcun controllo e badando sopratutto ai loro collegi elettorali…
In questi anni investire in cultura e spettacolo è stato per molti amministratori pubblici la scorciatoia più rapida ed efficace per ottenere visibilità e ritorno d’immagine. Di qui (anche) la moltiplicazione di festival, rassegne e premi dedicati agli argomenti più disparati in tutti i borghi d’Italia. Circolerebbero veri e propri tariffari in base ai quali gli assessori valutano il loro investimento in un’iniziativa culturale: il budget dev’essere giustificato dalla rassegna stampa, un tanto per un articolo sulla stampa nazionale, un po’ meno per ogni segnalazione sulla stampa locale, un po’ di più per le eventuali apparizioni sui tg nazionali, eccetera; a prescindere dall’interesse e dalla partecipazione del pubblico, e naturalmente dal valore culturale e dall’impatto a medio e lungo termine (ecco dunque gli inviti a giornalisti – con seguito di mogli/mariti o fidanzate/i, e ancor meglio amanti – in amene località, naturalmente spesati di tutto).
E’ l’aspetto più superficiale e deteriore del veltronismo – ma è anche questo che gli elettori romani hanno bocciato nelle elezioni che hanno portato la destra di Alemanno in Campidoglio.
Non sappiamo – non possiamo sapere – quanto effettivamente spendano gli enti locali nelle loro varie articolazioni in cultura e spettacolo, disperdendo le sovvenzioni in mille rivoli. Non sappiamo quando percepiscano i diversi soggetti beneficiati, che spendono le loro migliori energie a inseguire e raccogliere le mille elargizioni dei vari assessorati…
Sulla moralizzazione del sistema delle sovvenzioni, insistiamo da sempre: è uno dei filoni privilegiati dell’intervento di www.ateatro.it. Inutile ribadirlo: finché le sovvenzioni non verranno assegnate con un metodo corretto e trasparente, che permette di valutare i risultati, qualunque proclama demagogico contro gli sprechi della cultura e dello spettacolo otterrà ampio seguito. Qualunque difesa delle sovvenzioni al teatro verrà facilmente sbriciolata: basta un pizzico di demagogia stile “casta” (a proposito, avete visto i risultati del nostro sondaggio sulla casta del teatro?).

2. Un altro punto è altrettanto chiaro da tempo: le motivazioni con cui tradizionalmente veniva motivato, dal punto di vista economico e politico, il sostegno alla cultura devono essere profondamente riviste. La società è profondamente cambiata. La cultura è profondamente cambiata. I media sono cambiati. L’economia è cambiata. La politica è cambiata.
Con una premessa: da decenni un Italia il cosiddetto “teatro pubblico” (ovvero il sistema dei teatri stabili) non assolve nemmeno la sua originaria missione. Non ha mai voluto fare una serie riflessione sul proprio ruolo, preoccupandosi solo di difendere la propria posizione di privilegio. Ancora, per quanto riguarda il mercato. Ba. lo invoca, proprio nel momento meno adatto, vista la angosciante crisi del capitalismo mondiale, come angelo sterminatore che rimetterà il sistema in carreggiata. Un teatro affidato in tutto e per tutto al mercato ha il fiato cortissimo: il teatro di Broadway – gestito secondo rigidi criteri di mercato – è stato uno dei primi settori dell’economia a pagare per il crac economico di questi mesi. Forse oggi, in tempi di “Obama-mania” e di rilancio di Keynes, varrebbe la pena di ricordare il forte sostegno alla cultura del New Deal rooseveltiano dopo la crisi del 1929, che portò tra l’altro alla nascita del Group Theatre (vedi il bellissimo saggio di Ettore Capriolo pubblicato da Cappelli negli anni Sessanta); ma anche il celeberrimo Otello realizzato da Orson Welles a Harlem con i WPA Negro Theatre Project nel 1936 è figlio di quella stagione.
In Italia da sempre – ovvero dagli anni Venti – le sovvenzioni pubbliche finanziano prima di tutto proprio le compagnie private, che sono destinate al fallimento dalla concorrenza del cinema (cui poi si è aggiunta quella della televisione, e ora internet).
Per rifondare e rilanciare l’intervento pubblico nella cultura e nello spettacolo è dunque necessario ripensare l’intero sistema della cultura e la logica dell’intervento pubblico nel settore. Per considerarlo un investimento e una necessità, e non una spesa, uno spreco, un lusso. Noi di www.ateatro.it abbiamo iniziato una riflessione su questi temi qualche anno fa, nella seconda edizione della Buone Pratiche a Mira: rimandiamo dunque ad ateatro.91, datato 20/11/05 e ambiziosamente intitolato il teatro come servizio pubblico e come valore. l’1% del PIL alla cultura, nel quale cercavamo di reimpostare la questione in termini più “moderni”.

3. Era infine prevedibile che, dopo la vittoria della destra alle elezioni politiche (e in uno scenario economico difficilissimo), il mondo della cultura sarebbe finito nel mirino (se n’era accennato quest’estate parlando della “fine del nuovo teatro”).
Un po’ meno prevedibile che l’attacco partisse con questa virulenza da un giornale e da un intellettuale “di sinistra” e “colti” (o almeno considerati tali dal sentire comune), e che la più veemente difesa del sistema delle sovvenzioni pubbliche sia arrivata, a stretto giro di posta, da un quotidiano e da un intellettuale di destra” (vedi l’intervento di Luca Doninelli e la lettera di Pietrangelo Buttafuoco al direttore del “Giornale”).
(Per quanto riguarda gli attacchi alle sovvenzioni pubbliche al teatro di Giorgio Albertazzi, ex direttore del Teatro di Roma, che in questi anni ha drenato ogni genere di finanziamento, non meritano nemmeno una risposta.)
Quello che è certo, è che la “brunettata” di Ba. fornirà un ulteriore carico di munizioni a chi vuole attaccare l’intervento pubblico sul versante della cultura, con la chiosa: “Se l’ha detto anche un radical-chic come lui, che per di più con i denari pubblici ha fatto per anni gli spettacoli teatrali e le trasmissioni televisive in Rai, tipo Picnic, sì quella che parlavano dei libri, e di recente ha persino debuttato come regista cinematografico con quel documentario su un musicista importante, che mi hanno detto che era così orribile… Sì, dai, ne aveva parlato anche da Fabio Fazio”. Già la vediamo, l’onorevole Milly Carlucci che sventola quell’articolo come una bandiera nella sua campagna per una nuova legge per il teatro. E il ministro Bondi, che allarga le braccia sconsolato: “Beh, se adesso i soldi ve li vuol togliere anche lui, io che ci posso fare?”.

Insomma, i prossimi mesi non saranno semplici. Sopratutto se dovremo scegliere: da un lato difendere le indifendibili rendite di posizione dei ras delle scene nostrane, dall’altro tagliare il sostegno pubblico a tutti, bravi e cattivi. Prima bisognerebbe iniziare a distinguere, differenziare, decidere chi salvare e che cosa buttar giù dalla torre. Ma è proprio questo l’obiettivo delle brunettate: semplificare all’estremo alla ricerca del consenso immediato, buttare sul piatto una provocazione demagogica apparentemente inattaccabile, chiudere la discussione e “agire” sull’onda di questo consenso.
Per iniziare la discussione, varrebbe però la pena di riflettere sul fondamento – le premesse implicite – della provocazione di Ba. Il primo punto di partenza del suo ragionamento è che i teatri (e i teatri lirici) sono frequentati solo da ricchi snob e autocompiaciuti (un postulato che Ba. dovrebbe dimostrare: molti teatri sono gerontocomi, non tutti; molte sale sono piene di giovani). E dove va, e che cosa fa invece “la gente” e soprattutto i giovani? Oggi, ce lo dicono tutti, frequentano molto di più internet e la televisione (un secondo postulato che Ba. dovrebbe dimostrare: in realtà oggi i consumi culturali non sono esclusivi, ma sono diventati “multicanale”, cioè si passa all’uno e all’altro – dal libro a internet al cinema alla tv allo spettacolo dal vivo – con maggiore facilità e con flussi statisticamente ricostruibili).
Dunque, deduce Ba. su queste premesse, se vogliamo fare efficacemente cultura oggi, è lì che dobbiamo andare: in tv, dai giovani e dalla gente (anche qui, Ba. non si tiene contro dell’evoluzione in atto, dalla tv generalista a una tv che segmenta il proprio pubblico, e che offre anche una variegata offerta di programmi culturali; per non palare della polverizzazione di internet).
Dietro a questa opzione – se la gente non viene alla cultura e ai suoi luoghi, portiamo la cultura alla gente – c’è però un altro postulato inespresso, che si può provare a esplicitare, certo banalizzandolo (non tanto per amor di polemica, ma per provare a fare chiarezza). L’idea di base è che “la cultura” sia un insieme di contenuti di indiscutibile valore e utilità, e oltretutto questi contenuti e valori possono dare un grande godimento a chi li sa consumare e godere, dopo essere stato opportunamente educato e acculturato. Le serate “pedagogiche” di Totem, inventate e portate nei teatri di tutta Italia con grande successo proprio da Ba. negli anni scorsi, costituiscono uno straordinario esempio di educazione al godimento culturale. Da questa visione pedagogica viene anche l’insistenza del testo di Ba. sulla scuola: chi non è d’accordo sull’importanza della scuola e sulla necessità di rilanciarne la funzione e l’efficacia, di modernizzarla e di darle più risorse?
Un insieme selezionato di contenuti e di valori: se questa è la natura, l’essenza della cultura, travasare questi contenuti utilizzando come canale un medium piuttosto che un altro potrebbe sembrare (quasi) indifferente. E invece non lo è affatto. Una cosa è sentire Roberto Benigni che recita i versi della Commedia al Festival di Sanremo, oppure ascoltarlo in una saletta della Casa del Popolo a Vergaio. Un conto è vedere un frammento di video di Apocalypsis cum figuris o della Classe morta, un altro è vedere – aver visto – quegli spettacoli dal vivo. L’esperienza è completamene diversa, i valori che trasmette sono molto diversi. Altrimenti oggi il vero grande profeta della cultura presso i giovani è Aldo Busi che spiega il Decameron ad Amici sotto lo sguardo materno dell’istitutrice Maria De Filippi (insomma, la cultura in tv l’abbiamo già, non serve dirottare verso il piccolo schermo – che è già ricco di suo, grazie al canone e alla pubblicità – i miseri finanziamenti del teatro).
La cultura non è solo e tanto un insieme di contenuti, un grumo di nozioni che si possono (e si dovrebbero) imparare a scuola o guardando la tv. Certo, la cultura è anche questo. Ma è prima di tutto e sopratutto un’altra cosa: è una rete di relazioni e rapporti, che ci aiutano a metterci in relazione con noi stessi e con il nostro corpo e il nostro linguaggio – con la nostra identità; con gli altri; con il mondo, con la polis, il suo passato, il suo presente e il suo futuro; e con la “mediasfera”, visto che siamo nella società dello spettacolo, dell’informazione e del virtuale. E’ anche conflitto. E’ anche rapporto dialettico tra l’individuo e la società nel suo insieme. E’ questione del rapporto tra gruppi e segmenti del corpo sociale (le avanguardie, i diversi…) e la società nel suo insieme: che cosa questo significhi nell’era della globalizzazione e delle identità frammentate e ricomposte, è questione apertissima.
Nell’epoca della virtualità e della smaterializzazione del corpo (praticata dalla comunicazione via internet), lo spettacolo dal vivo ha in sé un valore che le forme di comunicazione mediata – radio, televisione, internet – non possono avere.
Non tutti gli spettacoli utilizzano appieno queste potenzialità, e tuttavia proprio questo è parte del valore, della diversità che oggi lo spettacolo dal vivo può offrire (in particolare nelle forme tecnologiche del teatro, giocate sull’intersezione tra forme mediate e non mediate di comunicazione). Proprio su questo – sulla specificità e sulla diversità del teatro – bisognerebbe riflettere, per difendere il valore sociale e culturale dello spettacolo dal vivo.
E’ inutile esplorare una casistica e una problematica sterminata. Possono bastare alcuni recenti esempi di lavoro teatrale con gli adolescenti, per capire come la pratica teatrale e la messinscena di sé attraverso lo spettacolo dal vivo possa dare qualcosa – molte cose – che una comunicazione mediata e una lezione frontale non possono dare: la “non-scuola” delle Albe a Ravenna, il teatro dell’attenzione partecipata di Mimmo Sorrentino, o il recente Once and for all we’re gonna tell you who we are so shut up and listen (vincitore del Total Theatre Award 2008 al Festival di Edimburgo del 2008), utilizzato per illustrare questa pagina.
Sono solo esempi – peraltro assai diversi nelle intenzioni e nei risultati – che coinvolgono gli adolescenti. Tre termini possono chiarire quel che accomuna queste esperienze: energia (fisica prima ancora che psichica), consapevolezza di sé, comunicazione (qui non si discute tanto la qualità estetica degli spettacoli, quanto la loro funzione sociale). Il rapporto con il proprio corpo e le relazioni all’interno del gruppo: ecco due nodi fondamentali che lo spettacolo dal vivo mette immediatamente in gioco. E poi la dimensione comunitaria, determinata dalla compresenza e compartecipazione di attori e pubblico (che non possono essere create né dall’audience televisiva né dalle communities di internet); allo stesso modo è diversa la valenza civile e politica di ogni evento teatrale rispetto a quelli virtuali.

Insomma, c’è tanta acqua sporca da buttare – e su questo non siamo mai stati teneri e lo saremo ancora meno in futuro. Ma non è il caso di buttar via anche il bambino, una volta che si sia capita la differenza con l’acqua sporca.
Ed è necessario capirla per pesare le priorità, per valuatare l’impatto sociale del teatro, per decidere le linee dell’intervento pubblico sul fronte della cultura, dello spettacolo, della comunicazione.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2009-03-01T00:00:00




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