Teatro nelle case. Un tour spaziotemporale

Per l'incontro “Dal palco a casa tua”, Como, 4 novembre 2011

Pubblicato il 11/04/2011 / di / ateatro n. 136

1.
Il primo luogo che visitiamo è una stalla, nella sera più fredda e umida dell’inverno. Gli abitanti della corte si sono raccolti lì. Grazie al calore degli animali che ospita, è il locale più caldo e accogliente.

In provincia di Reggio Emilia, in una zona a sud e a nord della via Emilia (forse fino al Po), fra Albinea, Villa Cadè, Campagine, Caparra, Cavriago e altre località, gruppi di contadini, in genere solo uomini, si riunivano e preparavano delle commedie in rima (in quartine, rimate quasi sempre in abab), che poi recitavano di stalla in stalla. Sia la preparazione degli spettacoli che le recite erano l occasione di grandi mangiate e bevute, le quali erano anche l unico compenso per gli attori. I signori in genere non partecipavano alle recite. Le rappresentazioni di stalla erano di due tipi: le rime e le farse . […] Le rime sono commedie vere e proprie, parte in italiano (le parti dei signori, dei re, dei personaggi non popolari: un italiano molto segnato dal substrato dialettale), parte in dialetto (le parti dei contadini/servi/buffoni). […] Si tratta di un teatro basato sulla parola, ma non quella propria dei drammi naturalistici: piuttosto una parola ricca di suggestioni fantastiche. Si può dire infatti che fosse la parola a creare la scenografia […]. L’allestimento infatti era molto semplice […]. Le rime erano divise in atti, e fra un atto e l altro si suonavano musiche soprattutto da ballo.
(Giuliano Scabia, Il Gorilla Quadrumàno, Feltrinelli 1974, pp. 13-14)

Il teatro di stalla era spettacolo popolare nel senso più pieno del termine: creato dal popolo per il popolo. Dal lavoro sul teatro di stalla, con i suoi allievi del DAMS (in particolare Remo Melloni), Giuliano Scabia ha creato uno dei suoi lavori più celebri, Il gorilla quadrumàno (1973).

Il gorilla quadrumàno.

Ma il “teatro di stalla” era diffuso anche altrove. In Veneto, le sere d’inverno nelle stalle della barchesse prendevano la forma del “filò”: si chiacchierava e si raccontavano ai bambini storie e fiabe.

Far filò , ovvero filare, significa anche tessere storie e racconti.

Questa antica forma di intrattenimento è stata reinventata da Andrea Zanzotto, sollecitato dal suo amico Federico Fellini (Andrea Zanzotto, Filò. Per il Casanova di Fellini, Mondadori).
Qualche anno fa, il Filò di Zanzotto lo recitava nelle case, nei cortili e nelle piazze Silvio Castiglioni, mentre suo fratello Paolo preparava il risotto.

2.
Entriamo nel salotto di una dimora borghese. Si scambiano i regali di Natale, i bambini sono eccitati, i genitori li guardano e sorridono commossi. E’ arrivato il momento di aprire il pacchetto con il regalo più bello e più atteso: un teatro di marionette, o di burattini (insomma l’antenato di Gameboy e affini).
Siamo ospiti di casa Goethe. E’ il Natale del 1753, quando il piccolo Johann Wolfgang ricevette in dono dal padre un teatrino di burattini. O forse siamo a casa di uno dei suoi personaggi più celebri e amati, Wilhelm Meister, che ricevette in dono dalla nonna il teatrino che innescò la sua “vocazione teatrale”. Alle recite dei burattini seguirono infatti per Wilhelm gli spettacoli allestiti con gli amici, e poi l’innamoramento per un’attrice, Marianne, e la scelta di dedicarsi al teatro “vero”.
Potremmo anche sbirciare nella casa dove vivono Fanny e Alexander, i due bambini protagonisti dell’omonimo film di Ingmar Bergman. Di sicuro, in un famiglia di teatranti come la loro, una miniatura che riproduce il Teatro Reale di Stoccolma c’era da sempre, e veniva passata di generazione in generazione, dagli adulti ai bambini.

Fanny & Alexander di Ingmar Bergman: Alexander e il suo teatro di burattini.

Nella prima scena del film, probabilmente un ricordo autobiografico dello stesso Bergman, Alexander gioca con il teatrino. In seguito il severo patrigno di Alexander, il sadico vescovo Vergérus, gli impedirà di portarlo nella sua nuova casa. Per Alexander bambino, quel teatrino condensa il suo rapporto con la famiglia d’origine, e al tempo stesso gli permette di agire i suoi fantasmi, i suoi incubi, i suoi sogni.

Nella tradizione del salotto borghese, tra le attività performative non c’è solo il teatro dei burattini. Basti pensare alle infinite serate musicali con concerti solisti ma anche duetti, terzetti e quartetti, composti spesso dai famigliari, magari accompagnati dal canto.

3.
Il successivo appuntamento ci porta in un altro salotto, alla fine degli anni Trenta, in vicolo Leont’ev. Siamo nell’appartamento dove vive Konstatin Stanislavskij. L’anziano maestro ormai non frequenta più il Teatro d’Arte di Mosca, che ha fondato e diretto a lungo. Non ha più la forza, o la voglia, di prtare in scena uno spettacolo. Tuttavia il teatro, i lavoro con gli attori, restano la sua ossessione. Ha chiamato a raccolta alcuni dei suoi allievi ed ex-allievi. Li accoglie in sala, intorno alla sua poltrona di malato. Vogliono lavorare sul Tartufodi Molière. Nella prima riunione della compagnia, pochi mesi prima della morte, l’anziano maestro spiega:

Non intendo affatto mettere in scena uno spettacolo … Quello che mi interessa adesso è trasmettere a voi l’esperienza che ho accumulato in tutta la mia vita.
(Vasilij O. Toporkov, Stanislavskij alle prove. Gi ultimi anni, a cura di Fausto Malcovati, Ubulibri, Milano, 1991, p. 106)

4.
Dopo la stalla e il salotto, la terza tappa del nostro viaggio ci porta in un luogo segreto. Ci si entra con discrezione, cercando di non farsi notare. Forse è un bordello, oppure la dimora di un potente in cerca di emozioni forti, o il rifugio di un miliardario eccentrico. O magari solo un appartamento fuori mano. In queste stanze gli ospiti possono realizzare i loro desideri più segreti, mettere alla prova le loro perversioni più sfrenate. Perché esiste anche un teatro del sesso, una palestra dell’immaginario.

Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma.

Il suo cantore più celebre è il Marchese de Sade nelle 120 giornate di Sodoma. Nel Balcone Jean Genet ha teatralizzato questo teatro del desiderio. Ma su questa scena oscena non è opportuno dilungarsi, anche se a volte se ne avverte il respiro. Pier Paolo Pasolini ha calato questo incubo nell’inferno della guera e della caduta di un regime perverso.

Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma.

5.
In quegli stessi anni, a Cracovia. Come tutta l’uropa, la città è insanguinata dalla guerra, devastata dai bombardamenti. La Polonia è occupata di nazisti, tutte le attività culturali sono sospese. Ma alcuni gruppi di giovani polacchi decidono di reagire a quella terribile situazione e allestiscono clandestinamente spettacoli nelle case, attingendo al repertorio della drammaturgia nazionale.
Uno di questi gruppi si è ribattezzato Teatro Rapsodico. Il suo fondatore, Mieczyslaw Kotlarczyk, ha trovato rifugio nella casa di un giovane operaio che studia da seminarista.

Karol Wojtyla, il futuro Giovanni Paolo II, all’epoca in cui era attore di teatro d’appartamento.

Quel ragazzo si chiama Karol Wojtyla, nel marzo 1943 è protagonista di Samuel Zborowski di Juliusz Slowacki, che viene replicato di nascosto nelle case degli amici. Per il giovane e promettente attore sarà l’ultima apparizione sulle scene teatrali.
Sempre a Cracovia, in quello stesso 1943, un altro giovane regista lavora a un progetto analogo. Tadeusz Kantor ha battezzato la sua compagnia Teatro Sperimentale Clandestino e sta recitando nelle case degli amici un altro testo di Slowacki, Balladyna. L’anno successivo, nella stanza di un palazzo semidistrutto dai bombardamenti, porta in scena Il ritorno di Ulisse di Wyspianski.

Il ritorno di Ulisse del Teatro Sperimentale Clandestino (1944).

La scenografia è fatta di vecchie assi, ruote di carro e cavalletti da muratore. Il pubblico, “una quarantina di persone, è disposto a cerchio intorno al luogo dello spettacolo: materia bruta, polvere, fango, un cannone, vecchie panche, casse polverose…” (Denis Bablet, in Tadeusz Kantor, Il teatro della morte. Materiali raccolti e presentati da Denis Bablet, Ubulibri/Edizioni Il Formichiere, Milano, 1979, p. 18). Il protagonista compare in mezzo alle macerie. Indossa una divisa lacera e infangata, come i tanti soldati dispersi o sbandati che si aggirano in quei giorni per il paese. Spiega Kantor:

Ulisse, al suo ritorno, non si muove nella dimensione dell’illusione ma in quella della nostra realtà, in mezzo a degli oggetti reali, cioè che abbiano per noi, oggi, una certa utilità definita, perché egli vive n mezzo a della gente reale, cioè vicino a noi nel “pubblico”. E’ tardi, di sera. Mi trovo in una sala che potrebbe essere una sala d’attesa o un dormitorio. Tutto intorno dei banchi, su cui riposa della gente dallo sguardo ebete; attendono il treno o l’aurora. Potrebbero anche attendere Ulisse che ritorna.
In un angolo, vicino a un tavolo, una lampada velata. Sotto la tavola un gruppo di persone chinate, disposte a caso, senza ordine.
Può darsi che giochino a carte.
Oppure può darsi che si chinino sul cadavere del Pastore ucciso da Telemaco.
(…)
…Un locale stretto, dei vecchi mobili piazzati contro il muro, quelli che sono venuti ad ascoltare si sono piazzati dove potevano, un riflettore illumina una sezione di impiantito giallo, alcuni attori si sono seduti sui pacchi, le gambe di uno spenzolano là in alto, un altro è disteso sul pavimento, Ulisse si è seduto su uno sgabello, dietro di lui sta il Pastore e parlano fra loro, gli altri attori ascoltano, osservano. Il Pastore sbaglia la parte, ricomincia, gli altri fanno delle rimostranze e poi Ulisse uccide il Pastore, lo fa male e ricomincia.
Il testo diviene palpabile: si ha quasi la sensazione che mi tocchi da vicino. E quando Ulisse docce: “Io sono Ulisse, di ritorno da Troia”, gli credo benché non abbia che uno straccio gettato sulle spalle.

(Tadeusz Kantor, Il teatro della morte, cit. pp. 42-43)

L’esperienza lascerà una traccia profonda nella genesi del “teatro della morte” di Kantor: in primo luogo per la necessità di quel teatro, in condizioni davvero disperate. Ma anche per l’uso di oggetti “reali”, e di materiali degradati, di scarto, che caratterizzerà il suo lavoro.
In quegli stessi mesi, anche nei ghetti e nel campi di concentramento e di sterminio, mentre si sprofonda nell’orrore, c’è chi decide che è necessario continuare a fare teatro. E se non è più possibile farlo nei luoghi pubblici destinati allo spettacolo delle grandi metropoli e delle piccole città, lo si farà di nascosto, negli spazi della quotidianità del ghetto o del campo.

6.
Sono passati trent’anni, siamo nel salotto di un appartamento di Budapest, Dohány utca 20, nel 1976. Dopo la rivolta del ’56 e la successiva repressione, all’Est gli anni Settanta sprofondano nel grigiore di un regime burocraticamente repressivo, ottuso e feroce nella sua agonia.

Un quadro: tre uomini in abiti leggeri, con occhiali dalla sottile montatura di metallo, siedono su un piccolo divano in un angolo della stanza, vicino alla finestra, tra tappeti, sigari, bottiglie di vodka e un samovar che bolle. Il pubblico è sistemato su un’unica fila di sedie, addossate alle quattro pareti, e forma un cerchio con le tre sorelle [Halász (Irina), Breznyik (Masha), Balint (Olga)], lasciando uno spazio vuoto al centro della stanza. Il giradischi, a basso volume, suona le Polonaises di Chopin. Il suggeritore (Anna), nascosto in una scatola davanti ai tre uomini, suggerisce le battute delle tre sorelle: la sua voce è carica di emozioni. Gli uomini, ovvero Irina, Masha e Olga, li ripetono senza inflessioni, in tono neutro. Le battute di tutti gli altri personaggi sono state tagliate.
(Eva Buchmuller e Anna Koós, History of the Squat Theatre, 1996, p. 40)

Le tre sorelle, nel testo di Cechov e nello spettacolo, ripetono la celebre battuta: “A Mosca, a Mosca!”: ma Irina, Masha e Olga non partiranno mai verso la città dei loro sogni. Invece, quando replicano la loro versione “casalinga” delle Tre sorelle, gli attori dello Squat Theatre sanno che stanno per abbandonare Budapest e l’Ungheria: pochi giorni dopo partiranno verso l’esilio, verso New York.

1976: la compagnia dello Squat Theatre all’aeroporto di Budapest, in partenza verso l’Occidente.

7.
In molti di questi casi, il rapporto tra l’evento, chi lo fa e il pubblico pare totalmente risolto. E’ evidente la necessità, a volte drammatica, di questo teatro, tanto per gli attori che per gli spettatori. Anche il rapporto con il teatro “normale” è chiaro: una distanza che si può colmare, o che si potrà colmare, solo abbandonando il “teatro nelle case” per il teatro “dei velluti e degli ori”, o almeno per un teatro “vero”, professionale, come la carovana di guitti a cui si unirà Wilhelm Meister.
Ma il Novecento ha complicato le cose. Per il “secolo breve”, il rapporto tra arte e vita non può più essere così semplice, né per i politici né per gli artisti.
Per orientarci in questo complicato intreccio, proviamo a visitare lo studio di due artisti, nei primi decenni del Novecento.
Il primo si trova a Parigi. E’ lì che, poco dopo il 1910, Georges Braque inventa i suoi collage. Incolla cioè nei suoi quadri oggetti (o meglio, frammenti di oggetti) e materiali recuperati dalla vita quotidiana: ritagli di giornale, pezzi di nastro, scatole di sigari, biglietti di varia origine… Dietro il gesto di Braque, c’è la consapevolezza che la vita, con la sua energia e la sua novità, possa e debba rivitalizzare l’arte.

Georges Braque, Scacchiera Tivoli Cinema (1913).

8.

Quindici anni dopo. Siamo a Hannover, al 5A della Waldhausenstrasse 5A. Lì ci sono lo studio e la casa di Kurt Schwitters, un altro virtuoso del collage. A partire dal 1926, Schwitters decide di trasformare la sua casa (e il suo studio) in un’opera d’arte: una enorme scultura, fatta anche in questo caso sia di manufatti dell’artista sia di objets trouvèes.

Kurt Schwitters, MERZbau (1926-1936).

Il MERZbau, l’opera della sua vita, nasce per accumulo: gigantesco, potenzialmente infinito, proliferante, più volte distrutto e ricostruito (in Germania, e poi in esilio in Norvegia e ancora a Londra). Quando nel 1936 Schwitters è costretto a fuggire verso la Norvegia, il MERZbau si è esteso dall’atelier ai locali adiacenti del suo appartamento, all’appartamento che si trova due piani sopra il suo, alla veranda, al seminterrato…

Con queste due opere, Braque e Schwitters danno forma a due movimenti in apparenza contrari e in realtà complementari, che attraversano e sottendono quasi tutta l’arte del Novecento.
Da un lato – vedi Braque – la vita entra nell’opera d’arte (e nel teatro) e la contamina. L’energia e il flusso vitale della quotidianità possono e devono ridare energia ed efficacia (anche politica) alle arti, e al teatro.
Dall’altro – vedi Schwitters – l’arte (e il teatro) entrano nella vita, per contaminarla e trasformarla. Perché l’arte e il teatro (ovvero la bellezza, anche nel suo aspetto più terribile) devono riscattare la noiosa banalità delle nostre esistenze. Anche con la loro casualità. Al livello più immediato e pratico, intervengono il design e la moda, creando oggetti e abiti che hanno un impatto diretto sulla nostra vita quotidiana. Al livello più alto – e pericoloso – ci sono le grandi e terribili utopie politiche del XX secolo, che hanno trasceso anche l’immaginazione delle avanguardie più ambiziose, per cercare di trasformare la vita di interi popoli in “opere d’arte totali” (vedi Boris Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti, Milano, 1989).

9.
Dunque le arti del Novecento sono attraversate da questo doppio movimento, dell’arte verso la vita, e della vita verso l’arte. Anche il teatro.
Ma perché questo movimento possa interessare le arti sceniche, sono necessarie almeno due condizioni. In primo luogo, è necessaria la consapevolezza che esista una differenza tra la vita e l’arte (teatro compreso). In secondo luogo, dev’esserci il desiderio di lavorare su questo limite, per confonderlo e ridefinirlo, di volta in volta, attraverso la pratica artistica.
Il teatro nelle case di questi ultimi decenni si pone al crocevia tra queste due pulsioni incrociate. Lo può fare perché, a partire dagli anni Cinquanta, il teatro ha vissuto due rivoluzioni.

Judith Malina e Julian Beck, giugno 1959.

Siamo a New York, in un appartamento di West End Avenue 798, all’inizio degli anni Cinquanta. Ci abitano due ragazzi che vogliono fare teatro a tutti i costi. Hanno scritto una lettera chiedendo consiglio a un celebre scenografo, che lavora nei maggiori teatri di Broadway: “Siamo due giovani privi di risorse. Vogliamo creare un teatro fondato su principi assolutamente artistici, un teatro che al momento non esiste, e che proprio per questo vogliamo realizzare”.
Robert Edmund Jones risponde: “Voi dovreste costruire un teatro così piccolo da permettervi di fare solo quello che volete realmente fare, e nient’altro. L’importante è che voi realizziate esattamente la vostra idea: fatelo nel salotto di casa vostra, potete usare dei cuscini come poltrone… se volete vi do il mio studio, ma la condizione è che rimanga un piccolo teatro.”
Quei due ragazzi sono Julian Beck e Judith Malina. Allestiscono il loro primo spettacolo nel salotto della loro casa nell’agosto del 1951: quattro brevi testi di Paul Goodman, Gertrude Stein, Bertolt Brecht e Federigo García Lorca. Fondano il Living Theatre e sono i capostipiti di tutto il teatro off dagli anni Cinquanta a oggi.

10.
La rivelazione, che ha trovato un altro punto di riferimento in Jerzy Grotowski e nel suo “teatro povero”, è che si può (e forse di deve) fare teatro per pochi. La prima sala in cui lavora Grotowski, a Opole, si chiama Teatro delle Tredici File. Per Grotowski – e per molto artefici del nuovo teatro degli ultimi cinquant’anni – la chiave dell’efficacia dell’evento teatrale sta prima di tutto nell’intensità e nella profondità del rapporto con lo spettatore: uno spazio più raccolto, una visione e un ascolto più ravvicinati e intimi, favoriscono l’efficacia di una comunicazione di questo genere.

Akropolis nel Teatro delle 13 File a Opole (1962).

11.
Negli ultimi anni, questa tendenza si è esasperata, con spettacoli costruiti per un unico spettatore. Ci sono eventi che mettono a confronto un solo attore e un solo spettatore: a Londra il Battersea Arts Centre ospita da alcuni anni un festival per il format “one-on-one”. Ma il rapporto può essere ancora più sbilanciato: uno spettatore per dieci attori, come nello spettacolo Il cielo in una stanza di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, replicato nel 1994 in un appartamento di via Beaumont, a Torino. Per Happy Days in Marcido’s Field (1997), gli spettatori verranno accolti da un sipario di corpi nudi che penzolano nel vuoto, pochi centimetri davanti a loro

Materiali di Daniela Dal Cin per Il cielo in una stanza (1994): lo spettatore cavalca la tigre, mossa da due attori-portantini.

Ancora più radicale l’Edipo del Teatro del Lemming per un solo spettatore, e per di più bendato dall’inizio alla fine del percorso che lo vede insieme spettatore e paradossale protagonista: sperimenta infatti le esperienze di Edipo. Assumono grande valore gli aspetti tattili e olfattivi.

Edipo per un solo spettatore del Teatro del Lemming.

12.
La seconda esplosione rivoluzionaria arriva con le performance degli artisti e gli happening dei primi anni Settanta. Privilegiano il gesto rispetto all’opera, esaltano la dimensione performativa ed escono dalle gallerie d’arte per invadere lo spazio esterno: in genere lo spazio urbano (strade e piazze, ma anche parcheggi, parchi e giardini, stazioni ferroviarie e degli autobus, treni…), ma anche “teatri naturali”. Il fenomeno non rguarda solo gli artisti visivi. La sollecitazione verrà ripresa e rilanciata nei decenni successivi da un ampio e sfrangiato movimento che porta “il teatro fuori dai teatri”: la lista delle location è ormai amplissima, e ovviamente nell’elenco figurano anche “spazi privati” e “spazi semiprivati”, come case, cortili, negozi…
E’ questo clima di invenzione di un nuovo teatro, di un diverso rapporto tra finzione e realtà, che negli anni Settanta alimenta una prima onda di “teatro d’appartamento”.
Una seconda ondata di interesse per il genere è arrivata negli ultimi anni: l’invasione del virtuale restituisce valore alla presenza, all’evento, all’interazione, in una parola alla liveness.

13.
Fare teatro nelle case significa fare queste due cose insieme: cercare di portare la verità del teatro nella vita e cercare portare la verità della vita nel teatro.
Il teatro nelle case lavora proprio sul confine tra arte e vita, sulle regole non scritte che separano “la scena” dalla “realtà”. Spesso riflette e lavora sui paradossi che derivano da questa differenza: la dialettica finzione-realtà, reale-virtuale, tempo quotidiano-tempo dello spettacolo, attore-persona, dentro-fuori, entrare-uscire, pubblico-privato, vicino-lontano, intimo-condiviso, visibile-segreto, attivo-passivo, vedere-essere visti, ascoltare-essere ascoltati, spiare-essere spiati…
E’ anche una “guerra dei sensi”: se il teatro-teatro privilegia da sempre vista e udito, il teatro nelle case recupera e valorizza gusto, olfatto e tatto.
Una lucidissima esercitazione su molti di questi temi è arrivata – non a caso – da un gruppo come lo Squat Theatre, che come abbiamo visto si era misurato con la pratica del teatro d’appartamento. Andy Warhol’s Last Love, lo spettacolo manifesto del gruppo che è approdato a New York, in un edificio della 23rd Street, accanto al Chelsea Hotel, non è in senso stretto “teatro d’appartamento”. Il set dello spettacolo è un negozio. Il pubblico è sistemato su una gradinata all’interno, dietro un’ampia vetrina affacciata sulla strada. Gli attori agiscono sia all’interno sia all’esterno del negozio. Di fatto si svolgono in contemporanea due spettacoli: il primo è quello degli spettatori veri e propri, che seguono le azioni degli attori; ma nel loro campo percettivo entrano anche i passanti che transitano sul marciapiede all’esterno del negozio. Per questi ultimi, lo spettacolo – uno spettacolo inatteso e difficilmente decifrabile – è costituito dalle azioni degli attori, ma anche dal pubblico seduto all’interno e visibile da fuori.

Squat Theatre, Andy Warhol’s Last Love (1979) (in basso, foto di Roe di Bona).

14.
14a. Il teatro nelle case può dare nuova forza e verità a testi (e in generale a esperienze) nati in teatro e/o per il teatro. Per esempio, si possono prendere i due atti di un testo come L’apparenza inganna di Thomas Bernhard, ambientati rispettivamente nelle case dei due fratelli protagonisti, per rappresentarli in due appartamenti diversi. Lo ha fatto nel 2000 la Compagnia Lombardi-Tiezzi, con effetti di grande efficacia.

Sandro Lombardi e Massimo Verdastro, L’apparenza inganna di Thomas Bernhard, regia di Federico Tiezzi.

Un analogo “effetto verità” lo inseguono i Motus, quando allestiscono Splendid’s, un testo giovanile di Jean Genet ambientato in un lussuoso albergo, proprio nel salone di un grand hotel.

14b. Esistono poi spettacoli che possono aver luogo sia in uno spazio teatrale sia in uno spazio “domestico”, con evidenti differenze nella comunicazione e nella ricezione: per esempio, gran parte del “teatro di narrazione”, che in parte è nato anche dall’esperienza del teatro d’appartamento, in particolare da Stabat Mater (1989), spettacolo itinerante con Laura Curino, Lucilla Giagnoni e Mariella Fabbris.

14c. Infine, e in questa prospettiva sono i casi più interessanti, ci sono esperienze che nascono, che hanno senso e che sono possibili soltanto in un contesto “domestico” (eventualmente ricostruito ad hoc).
Per quanto riguarda appunto Stabat Mater la tournée dello spettacolo, e il viaggio delle attrici di casa in casa, sempre con i loro abiti di scena, non solo per quanto riguarda lo spettacolo ma anche per l’ospitalità, rappresentano un’esperienza innovativa, con una formula inedita di autoproduzione e finanziamento.

15. Non è un appartamento, ma l’edificio che ospitava una scuola, l’Istituto Magnolfi di Prato.

Marisa Fabbri nelle Baccanti all’Istituto Magnolfi.

E’ qui che Luca Ronconi ha ambientato la sua versione delle Baccanti per una sola attrice. Marisa Fabbri. E’ uno spettacolo itinerante: le diverse scene sono ambientate nei diversi locali dell’edificio, esplorando diverse modalità di rapporto spaziale con il pubblico.

16.

Teatro delle Ariette, Teatro da mangiare (2000).

Teatro da mangiare è l’autobiografia politica, teatrale e poetica del Teatro delle Ariette. I ventisei spettatori sono seduti intorno al tavolo di un’ampia cucina. Mentre raccontano la loro storia, i tre cuochi-attori preparano il pranzo che verrà consumato alla fine dello spettacolo. I gesti quotidiani assumono una valenza rituale. I commentatori-spettatori, seduti intorno alla tavola apparecchiata, diventano una comunità. Gli odori e i sapori – solitamente esclusi dall’esperienza dello spettatore teatrale – assumono un valore centrale.
Il Teatro delle Ariette ha sede in una cascina sull’Appennino bolognese, a Castello di Serravalle: l nascono molti lavori del gruppo, che da diversi anniorganizza un Festival di Teatro nelle Case che si allarga ai paesi vicini.

17.

The Secret Room del Teatro dell’Iraa, un best seller del genere con oltre 15.000 spettatori.

Un’altra tavola apparecchiata, questa volta in un apparamento borghese. Siamo ospti di una cena per sette ospiti. L’attrice-padrona di casa, che ci ha accolto con affabilità e garbo (Roberta Bosetti), pian piano inizia a raccontare un terribile segreto familiare. Solo l’intimità della casa consente di dire questa verità, solo l’effetto realtà di uno spazio quotidiano, vissuto, la può rendere credibile. Tenendo presente che per i creatori dello spettacolo “la casa non è una scenografia ma una trappola per la realtà”. Gli spettatori di The Secret Room, regia di Renato Cuocolo, si scoprono voyeurs indiscreti di un rito personale, imbarazzati sacerdoti di un confessionale privato. Al tempo stesso, come testimoni della rivelazione e commensali al banchetto, finiscono per creare una microcomunità. Uno spettacolo di questo genere è una sfida per lo spettatore, ma anche per gli attori.

18.

The Pleasure of Being: Washing, Feeding, Holding, ovvero più o meno Il piacere di essere: lavare, nutrire, abbracciare di Adrian Howells.

The Pleasure of Being: Washing, Feeding, Holding, ovvero più o meno Il piacere di essere: lavare, nutrire, abbracciare di Adrian Howells, professore al Dipartimento di teatro, cinema e tv dell’Università di Glasgow, è stato ospite allo One-on-One Festival di Londra e in diverse altre rassegne internazionali. Nel corso della performance, Howells invita lo spettatore a spogliarsi e a accomodarsi nella vasca da bagno che ha preparato per lui, con acqua calda e una pioggia di petali profumati. Lo lava e lo sciacqua, lo asciuga e lo abbraccia a lungo.
E’ uno spettacolo che infrange clamorosamente uno dei tabù non scritti del teatro: non deve esserci contatto fisico tra attore e spettatore, anche se il foglietto di avvertenze precisa un diverso limite: “Se scegli di stare nudo, indossare un costume da bagno o rimanere parzialmente coperto, voglio che tu sappia che non ti laverò né asciugherò i genitali”.
In ogni caso, una intimità di questo genere è ovviamente impensabile in uno spazio diverso da quello domestico, e per la precisione di quello più “segreto”.

19.

Ed Schmidt (foto di Beatrice Kilkelly-Schmidt).

Ed Schmidt è drammaturgo e performer. Vive in un villino a Brooklyn. Lo studio, con annessa biblioteca, è nel seminterrato. Può accogliere una dozzina di sedie.
Il suo “spettacolo d’appartamento” si intitola My Last Play, ovvero, più o meno, “il mio ultimo testo per il teatro”. Come il Teatro delle Ariette, Schmidt racconta nel primo tempo la sua vocazione e delusione teatrale. Nell’intervallo invita ciascuno spettatore a scegliere uno dei libri della sua biblioteca teatrale, che ha deciso di smantellare. Nel secondo tempo, timbra e firma le copie scelte dagli spettatori, raccontando le circostanze in cui ne è venuto in possesso e vari aneddoti legati all’uno o all’altro volume.
Anche in questa circostanza, lo spazio intimo e familiare della casa invita all’autobiografismo. In questo caso, va però notato che, attraverso la dispersione della biblioteca, la performance evoca anche lo smantellamento dello spazio domestico.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2011-04-11T00:00:00




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