Rimediazioni tra teatro, fumetto e animazione

Il convegno Bande dessinée, animation e spectacle vivant: remediation a Lione

Pubblicato il 15/04/2011 / di / ateatro n. 135

Il titolo del convegno internazionale e pluridisciplinare organizzato dall’’Università di Lyon 2 presso il Museé des Moulages e ideato da Julie Sermon, era piuttosto intrigante: Bande dessinée, animation e spectacle vivant: remediation. Prendeva in considerazione una modalità artistica (la remediation) che oggi sempre più sta configurandosi come un vero e proprio stile, approdando anche a teatro. Termine difficile da tradurre, la remediation (rimediazione?) è entrata nel linguaggio comune grazie alla teorizzazione che ne hanno fatto nel 1999 Bolter e Grusin (Remediation: Understanding New Media, MIT Press, 1999); altro non è che la competizione tra vecchi e nuovi media (o meglio, la riabilitazione dei vecchi media), ma anche il “rimodellamento” di tutti i media (o di alcune caratteristiche di essi) solo apparentemente tra loro inconciliabili o incompatibili: “Un medium si appropria di tecniche forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o rimodellarli in nome del reale”.
Il convegno aveva come punto di osservazione centrale il teatro in questa prospettiva di apertura “rimediata” verso inedite scritture.
Gli interventi spaziavano dal contributo del fumetto manga all’evoluzione di una nuova drammaturgia teatrale alle modalità di animazione 3D approdata a teatro, dall’uso degli storyboard a fumetti per il copione teatrale all’uso “rimediato” dei dispositivi luminosi di inizio secolo o del teatro d’ombre nella scena contemporanea.
Bolter e Grusin non parlano espressamente di teatro, anche se identificano e isolano tra i principi propri dei nuovi media proprio l’immediatezza e l’ipermedialità (la moltiplicazione dei segni mediali), elementi evidentemente non estranei alla grammatica del teatro (teatro come “compresenza fisica di emittente e destinatario” secondo la semiotica; teatro come “insieme di rapporti interagenti”, primo assioma del teatro ambientale di Schechner).
Il punto dolente del convegno era forse la non chiarissima distinzione teorica tra remediation, ibridazione e adattamento, termini evidentemente non sovrapponibili, ma che in alcuni casi si confondevano. Se l’adattamento corrisponde a una modalità artistica (dal teatro al cinema o alla televisione) già sperimentata da decenni e che porta un linguaggio a forzarsi dentro le regole di un altro, l’ibridazione (ovvero, come ricordava McLuhan, “l’interpenetrazione di un medium in un altro”) corrisponde invece all’estetica del nuovo teatro degli anni Sessanta (il “mixed means theatre”), agli eventi Fluxus e agli happening: in qulle esperienze la con-fusione dei linguaggi faceva sì che si potessero mantenere inalterate le caratteristiche anche contraddittorie dei più disparati media, uniti in modo non convenzionale. La remediation rappresenterebbe invece l’assimilazione – o meglio l’imitazione – delle modalità di scrittura o dei codici di certi linguaggi emergenti (anche solo una parte di queste, ma immediatamente riconoscibili), ma rinnovati, ridefiniti, rimodellati e insieme integrati. In sostanza, la remediation sarebbe una rielaborazione interna alla scrittura, alla composizione, alla visione, alla forma della creazione artistica in una prospettiva completamente rinnovata dalle tecnologie multimediali.
Il convegno ha deliberatamente privilegiato il campo relativo alle nuove forme di scrittura popolari e di intrattenimento come l’ambito dei giochi digitali, del fumetto, del 3D inserite a vario titolo nello spettacolo attuale.
Remediation inoltre, è anche e soprattutto la possibilità di reviviscenza per vecchie tecniche che riemergono restando così al passo con la contemporaneità multimediale, rivestite di un nuovo look, contribuendo alla formulazione di una nuova estetica rétro-digitale.
In effetti forse la più logica interpretazione della rimediazione, seguendo le intuizioni di Bolter e Grusin e affiancandole ai fondamentali saggi sulla nuova estetica di Rosalind Krauss, sarebbe la reinvenzione di un dato linguaggio all’interno di una grammatica e di una tecnica assai distante ma resa meno estranea grazie alle caratteristiche proprie del digitale, che ricongiunge gli opposti e determina le mescolanze più impensabili. La contemporaneità artistica è fatta oggi di innesti paradossali e di produzioni miste, di complessi progetti che vagano indifferentemente nel web, nelle gallerie d’arte e nei teatri provenendo dai mondi più distanti. In questa generalizzata computerizzazione della cultura, la rimediazione produrrebbe una fenomenologia artistica aperta, mimetica e mutante, derivante dal web, dal fumetto, dal videoclip, dalla videoarte, dal vjing, dalla motion graphics. La più consistente qualità del multimediale è proprio la natura metamorfica: ma le immagini in movimento, le animazioni, i sistemi interattivi, i programmi informatici per una gestione live del materiale audiovisuale sono stati già da tempo assorbiti nella materia teatrale. Quale sarebbe allora, il compito della remediation?
Prendendo spunto dal fondamentale saggio di Rosalind Krauss, possiamo affermare che portare i (vecchi e nuovi) media a teatro significa assumersi la responsabilità di

reinventarli, deviandoli dagli usi normali che se ne fa, dagli scopi abituali, dalle regole, dalle convenzioni, dagli automatismi del mezzo tecnico.

Il medium di cui parla la Krauss non è semplicemente la tecnica di esecuzione, il supporto, insomma la condizione materiale delle opere: medium è un linguaggio con una propria forma, una “matrice generativa” di convenzioni derivate dalle condizioni materiali, ma è fondamentalmente uno spazio disciplinato di possibilità che si apre all’artista. La reinvenzione è un compito linguistico, non entra in campo solo il mero supporto tecnico: «Le condizioni materiali sono solo un punto di partenza per ciò che prende posto in o su di esso».
Jay Davis Bolter e Richard Grusin nel volume Remediation affermano che i nuovi media, ben lontani dall’essere entità indipendenti dai processi sociali ovvero, «agenti esterni che intervengono a scompaginare una cultura che sembra ignara di loro», emergono dagli stessi contesti sociali, economici, culturali operando sui vecchi media un processo da loro definito di remediation che porta cioè, un “rimedio” all’incapacità dei vecchi media di rispondere alle mutate esigenze della società dell’informazione. Secondo Bolter e Grusin, i media digitali hanno messo in crisi i vecchi media costringendoli a “reinventare” se stessi, in sostanza ad attualizzarsi, a rimodellarsi e a scendere a compromessi con le richieste di un mercato sempre più attratto dalle tecnologie avanzate. Queste “rimediazioni” continuerebbero a succedersi dal Rinascimento ad oggi: nei tempi moderni la fotografia ha operato una rimediazione sulla pittura, la televisione ha fatto altrettanto con il cinema e con il teatro:

La televisione è emersa, come forma mediale, quando il cinema hollywoodiano si era già affermato come forma culturale e aveva raggiunto uno status sociale e una stabilità sul piano economico. Durante i primi anni di trasmissione, la televisione si modellò su forme precedenti di spettacolo, come il vaudeville e il teatro, anche se ben presto iniziò a portare nelle case i film. Durante tutti gli anni Cinquanta la programmazione televisiva inizio a rimediare i classici generi cinematografici quali il film drammatico, il western, la commedia e il giallo. (Bolter, Grusin 1999, p. 162)

Alcuni artisti teatrali accettano la sfida del contemporaneo mascherando il vecchio con il nuovo (e viceversa), attingendo a soluzioni e a pratiche artistiche che mostrano l’innovazione tecnologica come naturale evoluzione di una tradizione tecnica che appartiene “geneticamente” al teatro. Una singolare forma di remediation o di reinvenzione del medium, in cui tecniche o modalità tradizionali si piegano alle esigenze della scena contemporanea.

William Kentridge, maestro di rimediazione.

L’artista sudafricano William Kentridge e il franco canadese Robert Lepage propongono un’estetica teatrale dal gusto antico che privilegia l’artigianalità delle macchine alle immagini create al computer e in cui arte e tecnica si ricongiungono felicemente nel valore e nel significato originario di techné: i loro spettacoli ricordano infatti, sia le scene mobili del Rinascimento e del Barocco (progettate da Buontalenti e dallo stesso Leonardo), sia quei teatri di inizio secolo che sperimentavano le rudimentali tecniche dell’animazione luminosa (disegni su pezzi di vetro mobili, proiettati grazie alla Lanterna Magica), promuovendo una primordiale forma di teatro ottico.
Se Kentridge manipola i disegni al carboncino con la tecnica dell’animazione filmica passo uno, la scena di Lepage sembra addirittura un congegno all’antica, rudimentale, arcaico e imperfetto, macchina e macchineria al tempo stesso (nel senso della mechané greca). La scena di Robert Lepage e quella di Kentridge sono costellate da una vera polifonia di linguaggi: l’effetto di ombre nel loro teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è combinato variamente con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore).
Kentridge (oggetto della conferenza di Sidonie Han, scenografa e marionettista) parla significativamente di una tecnica pre-cinematografica o meglio, di una “cinematografia dell’età della pietra”, e il critico Rosalind Krauss sottolinea la reinvenzione del medium cinematografico attraverso la riscrittura di un nuovo codice linguistico e il recupero di una pratica artigianale perduta per sempre in epoca di programmazione computerizzata: Kentridge infatti, pur usando la tecnica di animazione fotogramma per fotogramma che registra le fasi successive del disegno, «non persegue il cinema come tale ma piuttosto costruisce un nuovo medium sul supporto tecnico di una pratica cinematica diffusa e di cultura di massa».
Se Lepage e soprattutto Kentridge sono emblematici di una tendenza alla rimediazione dei vecchi media che sta sempre più creando proseliti (dal mercato tornato in auge dell’analogico, al collezionismo delle tecnologie che “non ce l’hanno fatta”, ad artisti che mescolano deliberatamente vecchie tecniche, macchine e televisori a tubo catodico dentro installazioni interattive), dobbiamo riconoscere che numerosi sono i ricorsi, anche all’interno di ambiti di spettacolo commerciale (per esempi i concerti rock) a tecniche ottiche di fine Ottocento.

Gorillaz!

Un aggiornamento in chiave tecnologica del vittoriano trucco da baraccone Pepper’s Ghost è quello del gruppo rock Gorillaz (o meglio, la cartoon band che ha legato la propria immagine a videoclip ai fumetti) che ha infatti, letteralmente mandato in scena a suonare agli European Music Award i musicisti sotto forma di cartoni animati in computer graphics con tanto di asta di microfono, basso e batteria; proiettati su un impercettibile schermo suggerivano un effetto di immagine olografica, come avrebbe potuto immaginarla Dennis Gabor. L’evento è stato unanimemente salutato come punto di svolta della virtualizzazione dei supporti. Il trucco di riferimento è il “Pepper Ghost”, introdotto in teatro per la prima volta nel 1860: immagini fantasma che si materializzano sul palco. Un’immagine che non esiste realmente sullo spazio scenico ma che gli spettatori comunque credono presente, ma è una semplice illusione ottica. Inventato dal prof. John Henry Pepper e dall’ingegnere Henry Dircks infatti permetteva, tramite un gioco di specchi e l’utilizzo di una fonte luminosa, di proiettare l’immagine di oggetti o attori (non visibili direttamente dal pubblico) su una lastra di vetro posta inclinata a 45 gradi dietro il palcoscenico permettendo di materializzare queste figure dal nulla, farle interagire con gli attori e poi farle scomparire.
La fortuna di questi vecchi sistemi integrati (=rimediati) in una logica più complessa e articolata tecnologicamente, ha fatto sì che fiorissero studi storici su queste invenzioni di inizio Novecento. Ecco quindi presentato al convegno il risultato delle ricerche del giovane studioso francese Stéphane Tralongo su Anciennes méthodes, nouvelles techniques. Lo studio parte dai Décors lumineux del belga Eugène Frey ideati e allestiti nel 1909. Frey era pittore, scenografo e inventore di un dispositivo di proiezione su lastre di vetro che si è imposto nella grande scena lirica europea e che univa pittura, fotografia e illuminazione elettrica.
Notevole poi, l’intervento di Leonor Dealuny (Università di Caen Bassa Normandia) su artisti incisori e disegnatori francesi degli anni Venti (in particolare Frans Masereel) che dalla loro arte grafica di chiaro segno politico all’indomani della prima guerra mondiale, contraddistinta da figure melodrammatiche, caricaturali e grottesche, hanno realizzato le scene per un teatro fatto di inquietanti figure e processioni di ombre (l’allestimento per Liluli da Romain Rolland, regia di Louise Lara, 1926).

Liluli, regia di Louise Lara, ombre e scenografie di Frans Masereel (1926).

Una “maniera nera” che contrassegna la rappresentazione teatrale di questi anni, che sancisce lo stile del realismo e del miserabilismo del teatro sociale prima del secondo conflitto mondiale. Teatro e arti grafiche tentano insieme di restaurare un’intensità rivoluzionaria, inventando nuovi linguaggi visivi.
Rimediazione anche tra fumetto e teatro: dai lavori teatrali ispirati alle tavole a fumetti del catalano Carles Batlle, autore di una nuova drammaturgia della Catalogna postfranchista di cui ha parlato Fabrice Corrons (Università di Lione 2), alle commedie di Aristofane che trovano spazio nel lavoro a fumetti del greco Apostolidis e del tedesco Konig e di cui ha parlato Stéphane Sawas (Inalco Parigi); al fumetto guarda il regista teatrale Rodrigo Garcia per i progetti preparatori in forma di story board disegnati per gli spettacoli Giardinaggio umano e Versus (oggetto della conferenza di Marion Cousis, dottoranda all’Università di Parigi 3).
Azzardato ma pertinentissimo l’intervento di Asako Muraishi (Università di Strasburgo) che ha portato esempi di come il fumetto shojo manga (genere di fumetto giapponese) abbia contaminato la scena, addirittura la forma più tradizionale del teatro giapponese: il No. Tra gli esempi: lo spettacolo del gruppo Takarazuka composto da sole donne non sposate e tratto dal fumetto manga Berusaiyu no bara (La Rosa di Versailles).
Tra gli interventi più efficaci – in quanto mostravano nella pratica teatrale l’evidenza della rimediazione -, quelli del regista Jean Lambert-Wild che ha usato la tecnica del teatro d’ombre in alcuni dei suoi più recenti spettacoli, e quello di Ariane Martinez (Università di Grenoble) che ha mostrato come alcuni spettacoli del noveau cirque hanno preso a prestito modalità tipiche del fumetto manga e del cinema ad effetti speciali (come Matrix) nelle evoluzioni acrobatiche degli artisti, nei costumi, nella successione delle vicende, nelle fantasmagoriche sospensioni delle azioni in corsa, così come nei punti di vista insoliti per lo spettatore, grazie all’illusione congiunta di un trampolino e di un piano verticale. E’ il caso di La Syncope du 7 del Colletivo AOC.
Il convegno si è arricchito inoltre, della presenza di artisti visivi e teorici come Laurent Goldring e di giovani drammaturghi come Laurent Bazin (che ha parlato dell’influenza della nona arte – il fumetto – per il suo lavoro con la compagnia Pseudonymo). La stessa Julie Sermon, ideatrice dei colloqui, e numerosi docenti dell’Università di Lyon 2 come Claudia Palazzolo, maître de conference ed esperta di coreografia contemporanea, hanno animato i due giorni del convegno che per tematica e proposte di analisi teorica ed esempi pratici, si rivela come il primo importante appuntamento intorno alla remediazione teatrale.

Frans Masereel per Liluli (1926).

Anna_Maria_Monteverdi

2011-04-15T00:00:00




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