Buenos Aires, la città degli entusiasmadores

Un'’utopia possibile: il Teatro Comunitario in Argentina

Pubblicato il 29/09/2011 / di / ateatro n. 135

Oggi Buenos Aires è una fucina d’’arte in continua attività: murales, cinema, musica, teatro, danza raccontano in forme sempre diverse la stessa necessità di ricordare. In Argentina la cultura si fa carico degli orrori della dittatura e dell’’esigenza di costruire una memoria del dolore, facendosi strumento di definizione identitaria.

Da sempre le arti accompagnano i momenti di crisi di una società e in maniera proporzionale: a maggiori avversità corrispondono maggiori produzioni artistiche. Ma l’arte non si limita a essere uno specchio della realtà, è in grado di trasformarla. Il teatro, per la sua dimensione pubblica e partecipativa, può assolvere pienamente a questa funzione. Attraverso il teatro il ricordo può farsi collettivo, diretto, visibile, traducibile in immagini e parole.

Esempio emblematico della capacità trasformativa dell’arte è l’esperienza del Teatro Comunitario, nato nella Buenos Aires degli anni Ottanta, proprio all’indomani della dittatura militare. Nel corso degli anni dall’Argentina il fenomeno si è esteso in altri paesi dell’America Latina al punto da ridisegnare il panorama artistico del territorio e risvegliare la coscienza collettiva di un popolo.

Il Teatro Comunitario nasce dalla necessità di un gruppo di persone di un determinato quartiere di riunirsi e comunicare attraverso il teatro. È un tipo di manifestazione artistica che parte dall’assunto che l’arte è un diritto di tutti i cittadini e, al pari della salute, dell’alimentazione e dell’educazione rappresenta una delle priorità dell’uomo. Gli attori coinvolti si definiscono vecinos-actores, cittadini-attori non professionisti, che sul palcoscenico si raccontano, raccontano la storia del quartiere di appartenenza, i suoi miti, le sue leggende, i valori del lavoro e dell’educazione, i momenti chiave della storia comune, al fine di riscattare la memoria collettiva e l’identità individuale.

Gli spettacoli nascono dalla e per la comunità, autrice e destinataria essa stessa di un prodotto artistico che si sviluppa con l’obiettivo di costruire un significato sociale e politico. Il Teatro Comunitario tenta infatti di ricomporre il tessuto sociale del quartiere, attraverso la solidarietà e la partecipazione, e di sviluppare una maggiore consapevolezza storica che sta alla base dell’azione sociale.

Il trauma storico collettivamente subito esige un processo di risignificazione del passato nel presente, reso complesso dalle dinamiche di produzione della memoria, che è in ogni caso un’opera di selezione del passato. Accanto alla volontà di ricordare, si scatenano meccanismi di produzione dell’oblio, che si manifestano tanto nelle pratiche esplicite della censura, quanto nelle forme più occulte di manipolazione del pensiero. Già nell’Argentina della post-dittatura molteplici memorie individuali e collettive, contese e ostinate, si sono accavallate alla reticente ricostruzione ufficiale dei fatti.

Catalinas Sur, il gruppo pioniere del Teatro Comunitario, affonda le sue radici nel luglio del 1983, l’’anno stesso in cui l’’Argentina esce dalla dittatura, nel quartiere popolare della Boca, a Buenos Aires, all’’interno dell’’associazione dei genitori di una scuola del barrio (il quartiere), già attiva durante gli anni del terrore di stato. Alla guida del gruppo fu chiamato il regista uruguayano Adhemar Bianchi che preferì definirsi sin dall’inizio entusiasmador, promotore attivo di una comunità che cercava nel teatro una forma solidale di resistenza e trasformazione sociale. L’impulso dei genitori della scuola coincideva con un clima di effervescenza che inondava tutta la vita argentina dopo anni di oscurantismo.

Catalinas muove i suoi primi passi nel solco della tradizione del teatro popolare: dal teatro greco al teatro del Siglo de Oro spagnolo, dalla Commedia dell’arte italiana ad ogni forma di teatro che vuole comunicare con il popolo.
Fin dagli esordi Catalinas Sur (originariamente Grupo de Teatro al aire libre Catalinas Sur) mette in scena spettacoli con un gran numero di partecipanti, fino a novanta centoventi, appartenenti a quattro generazioni del quartiere, e usa i linguaggi del teatro, della danza, del canto, della musica dal vivo e dei pupazzi.

Il gruppo comunitario elegge la piazza a spazio privilegiato per le sue rappresentazioni, trasformando così la strada da luogo di paura e pericolo, quale era durante la dittatura, a luogo di incontro e condivisione.
L’idea di partenza è quella di tornare a pensare al concetto di barrio come a uno spazio vitale e non come a un luogo dormitorio. Il recupero dello spazio pubblico diventa un atto politico di chi si schiera dalla parte dell’arte e della creatività contro un potere che relega tra le mura di casa, davanti alla televisione, in solitudine.

Il “nuovo barrio” diventa “l’agorà ritrovata” auspicata da Bauman nella sua lucida analisi della società globalizzata. L’unico modo per recuperare oggi il significato della politica è riesumare la piazza degli antichi Greci, trapiantandola nel mondo attuale. Può esistere allora uno spazio dove trasformare le preoccupazioni private in pubbliche e costruire una società autonoma, capace di autocritica, di discussione e di ridefinizione del bene comune.

Non è un caso dunque che anche le Madres de Plaza de Mayo, la comunità di donne che dagli anni della dittatura fino a oggi lotta per la memoria dei propri figli “scomparsi” (desaparecidos), scelga la piazza come luogo di incontro per eccellenza:

Mucha gente se pregunta porqué habiendo otros organismos las madres fuimos a la plaza, y porqué nos sentimos tan bien en la Plaza. En la Plaza éramos todas iguales, a todas nos habian llevado los hijos, a toda nos pasaba lo mismo, habíamos ido a los mismos lugares, por eso es que la Plaza agrupó, por eso es que la Plaza consolidó. (Cfr. il sito ufficiale delle Madres www.madres.org)

Ancora oggi, percorrendo le strade di Buenos Aires, è possibile ritrovare tracce del ricordo della dittatura e dei suoi crimini. Le piazze della città sono testimoni di un rito interminabile: accanto alla marcia silenziosa delle Madres, che ogni giovedì col fazzoletto bianco sul capo scelgono di manifestare la loro indignazione, il Teatro Comunitario sceglie la festa, il convivio per esorcizzare il dolore passato e proporre uno sguardo nuovo, sempre ottimista per il futuro. È un teatro che recupera la festa come rito collettivo. C’è infatti un’attenzione alla coralità e una presa di distanza dal dramma introspettivo borghese. Le proposte teatrali del gruppi comunitari realizzano una contaminazione di forme alla quale concorrono la tragedia, la commedia, il melodramma, ma mai il dramma psicologico, dove la coscienza privata prende il sopravvento su quella collettiva. Il Teatro Comunitario dà voce alla coscienza sociale del gruppo e si impegna a renderla pubblica e a trasmetterla agli spettatori. Si tratta di una via originale al teatro epico, che utilizza gli strumenti dell’umorismo e del grottesco, si prende gioco dei potenti e sostiene le minoranze.

Il Teatro Comunitario non si rifà a un modello né a un metodo teatrale ben preciso: il teatro si fa, si agisce, con un approccio decisamente sperimentale. L’attore professionista è portato a razionalizzare il suo lavoro, a capire perché fa ciò che fa, quali sono gli obiettivi e come raggiungerli. Questo aspetto intellettuale non esiste nella pratica del vecino-actor, che altrimenti perderebbe la sua innocenza. È significativa l’affermazione di Cunill Caballenas, ricordata da Adhemar Bianchi: “No me le cuentes, hazlo!” (Non raccontarmelo, fallo!).
Gli spettacoli comunitari si evolvono nel corso degli anni, non restano mai uguali a se stessi: ogni rappresentazione si arricchisce di nuovi spunti, offerti spesso anche dall’attualità. Lo stesso spettacolo si va trasformando in base all’intercambiabilità dei vecinos-actores e alla risposta del pubblico, che si fa co-autore dell’opera.

Eredi del teatro dell’Oppresso di Augusto Boal, i promotori del Teatro Comunitario operano una deprofessionalizzazione del teatro, attraverso l’abbattimento della barriera fra attore e spettatore.
Il concetto di proprietà privata che impronta le relazioni umane nella nostra società, all’interno dei gruppi comunitari scompare. Si crea una “società dentro l’altra”, un microcosmo che si oppone al sistema di comunicazione globale. Ricardo Talento, regista argentino di teatro comunitario, si sofferma sulla staordinarietà del lavoro collettivo:

Que 80 personas se reunan para maquillarse y cambiarse juntos en la ciudad de Buenos Aires di ho yes un hecho revolucionario. Que entre todos armen un escenario y que lo hagan con espiritu amateur en este mundo material y individualista es profondamente transformador. (Diego Rosemberg, Teatro comunitario argentino, Buenos Aires, Emergentes, 2009, p.37)

Che ottanta persone si riuniscano per truccarsi e vestirsi insieme nella città di Buenos Aires di oggi è un fatto rivoluzionario. Che fra di loro costruiscano una scenografia e che lo facciano con passione e dedizione in questo mondo materialista e individualista è profondamente “trasformatore”. La trasformazione comincerà prima nel singolo individuo, poi nel gruppo, per diffondersi nelle rispettive famiglie, nel lavoro e nella vita quotidiana e, a partire da qui, nell’intera comunità.

Il teatro funziona come luogo dell’altro, dove si criticano gli orrori del reale e si fonda uno spazio nuovo, quello del possibile. Il Teatro Comunitario traduce il possibile in utopia.

Giada_Russo

2011-09-29T00:00:00




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