A Veglia: la poesia del donativo diventa festival

con una intervista a Elena Guerrini

Pubblicato il 17/09/2012 / di / ateatro n. 140

Luciano Bianciardi ne La vita agra (1962) enunciava così il suo pensiero rivoluzionario in prosa:

Occorre che la gente impari a non farsi nascere bisogni nuovi, anzi a rinunziare a quelli che ha.… Eliminati carta e metallo non sarà più possibile la moneta, e con essa l’’economia di mercato, per fare posto a un’’economia di tipo nuovo, non del baratto ma del donativo. Ciascuno sarà ben lieto di donare al suo prossimo tutto quello che ha e cioè – considerato le cose dal punto di vista degli economisti di oggi – quasi niente.- Ma ricchissimo sarà il dono quotidiano di tutti a tutti.

Questa nuova economia del donativo diventa la chiave di volta del Festival che si svolge da sei anni nel paese di Manciano (e dintorni), nella campagna grossetana. Elena Guerrini, attrice di teatro (con Pippo Del Bono e la Valdoca) e di cinema (con Pupi Avati) e scrittrice (Orti insorti, Bella tutta) è tornata ad abitare qua, nella bassa Toscana, nella vecchia casa del nonno Pompilio per recuperare radici e far nascere il figlio fuori dalla città. Ora è l’anima di questo Festival colorato, bello e partecipato. Elena te la dice subito la frase di Bianciardi appena arrivi, poi scopri che la dice anche agli avventori del bar centrale, ai vecchietti del circolo Arci che giocano a carte tutto il giorno. Agli spettatori raccolti nei vicoli del borgo offre invece un’altra frase, altrettanto efficace, di Antonio Neiwiller: “Una stalla può diventare un tempio restando magnificamente una stalla”. (Per un teatro clandestino). Frasi di una piccola “rivoluzione umana” fatta in casa.
Il festival è popolare sin dal nome: A veglia, ricorda infatti la tradizione delle veglie contadine toscane nelle case altrui, un passaggio di racconti davanti al fuoco dopo una giornata di lavoro. E a casa d’altri non si va a mani vuote. Questa economia sana di una volta, il ritorno all’incontro e allo scambio può, forse, ancora salvare il teatro; così si baratta il piacere di uno spettacolo con una bottiglia di vino buono, con una torta ben confezionata, con barattoli di conserva, con formaggi e salumi. Qualcuno provvede a mettere tutto su un tavolo e lo spettacolo può cominciare. Si è ospiti in qualche corte, nei poderi, nelle vie e nelle piazze del paese, dentro le cantine o nell’osteria dell’amico Gianluca Detti che canta nel coro dei minatori di Santa Fiora con Simone Cristicchi. Gli attori vengono volentieri a provare spettacoli nuovi o riproponendo pezzi di repertorio ancora attuali, ma senza microfono e con il solo supporto tecnico di una quarzina e di due amplificatori casalinghi. Marco Paolini, Alessandro Benvenuti, Teatrino Clandestino, Andrea Cosentino sono alcuni dei big che in questi anni sono tornati a casa con buoni spesa della macelleria e con bottiglie di produzione locale.
Arrivare a Manciano non è difficile con il navigatore o con la cartina, più stravagante e divertente trovare il luogo delle performance indicato nel programma: “A casa di Bruno Lelli”, “A casa di Alessia e Marco Morini”, “Nel giardino di Clara Detti”, “Nel cortile di Elena Mazzieri”.

In un comune che ha 100 agriturismi, il teatro più vicino a 70 chilometri e neanche una libreria, quando vedi muoversi un po’ di gente dalle 19 in poi con una sedia in mano e una bottiglia, non puoi sbagliarti. E’ una processione simpatica e rumorosa, a cui volentieri ti aggreghi, ed è un segnale inequivocabile che sei nella direzione giusta. I pochi e provvisori cartelli, in effetti, non servono a granché. Il freddo e l’umido comincia a farsi sentire in queste giornate settembrine ma d’altra parte, il festival si apre proprio quando la stagione del turismo declina e i proprietari degli agriturismi offrono più volentieri ospitalità gratuita o meglio, a baratto, agli attori e ai giornalisti. Le coperte e il the caldo a questo punto, sono davvero provvidenziali. Alcuni posti di ristoro (Il fischiotto, Al Franchino Garage) o di sosta per le “merende”, diventano luoghi occasionali di presentazione di artisti e di libri di teatro (quello di Letizia Bernazza, Frontiere di Teatro Civile e quello di Carlotta Clerici che ha ispirato lo spettacolo di Antonella Questa). Gli spettacoli presentati quest’anno sono quelli di Maurizio Argan (A-mantide), di Roberta Biagiarelli (Incantadora), Alvaro Piccardi (Sonata a Kreutzer), Compagnia Band-ITI (Frammenti), Roberto Castello (Scene da un matrimonio), Valerio Gatti Bonanni (Sciogli e desidera), Alessandro Benvenuti (Me medesimo). E inoltre una curiosa creazione collettiva Preghiere d’ammore con le poesie d’amore scritte dalla gente, raccolte durante l’anno nei ristoranti della zona e ri-modellate ad arte da Canio Lo Guercio, musicista e produttore della scena musicale rock napoletana. Le poesie vengono declamate e musicate da un gruppo di artisti in occasione di una passeggiata poetica ai Ponti di Montemerano. Partecipa in veste di attrice e declamatrice la stessa Guerrini. Il Festival si arricchisce anche della mostra dell’artista visiva Chiara Rapaccini nel locale dell’ex Merceria. L’artista, moglie di Monicelli, lascia le sue opere coloratissime (oggetti, quadri, sculture) in baratto per aderire al programma del festival.
A Veglia ospita la presentazione di uno spettacolo perfettamente in linea con il tema di quest’edizione (X Amore): Antonella Questa con Stasera ovulo (2009).

Antonella Questa (LAQ produzione) si è diplomata al Laboratorio Nove di Barbara Nativi, perfezionandosi ai laboratori di Pontedera teatro. Suo compagno di corso era Filippo Timi. Attrice versatile, simpatica e istrionica, è sia interprete di teatro che di cortometraggi. Ha fatto cabaret, match di improvvisazioni teatrali e ha lavorato anche in Tv con Serena Dandini. Privilegia a teatro – unica nel suo genere – temi davvero scomodi e imbarazzanti sia per il teatro che per la società: la vecchiaia (Vecchia sarai tu è la nuova produzione con tre esilaranti storie di donne che vivono la vecchiaia alternativamente come disgrazia o come conquista), oppure come per Stasera ovulo (2009, regia di Virginia Liberti), l’infertilità femminile e il travaglio psichico e fisico di una donna per diventare madre. La sua è una narrazione giocata sul doppio registro, drammatico e comico, con una comicità graffiante e incisiva che cerca di spazzare via i pregiudizi sul tema. Il titolo indica il momento perfetto per il sesso procreatore che la protagonista insegue ossessivamente inciampando in consigli inefficaci di amiche fertili, in ricette di naturopati, in operazioni chirurgiche dolorose quanto inutili. La sua è una corsa contro il tempo sia per la gravidanza sia per l’adozione. In scena un cubo bianco e asettico su cui la Questa, dotata di una particolare verve comica, tra una situazione paradossale e l’altra, stende se stessa e le sue speranze di maternità. I luoghi in cui Antonella Questa ha portato questo spettacolo non sono necessariamente artistici: in particolare, sedi di associazioni femminili o mediche legate all’informazione sulla legge 40 che regolamenta la procreazione medicalmente assistita.

Foto R. Gasperini.

Elena Guerrini, come nasce l’idea di A veglia. A teatro col baratto?

Quando ero piccola e venivo a trovare mio nonno, lo vedevo spesso che usciva di sera con una seggiolina e una bottiglia di olio e vino. E lui diceva “Vado a veglia”. Questo creare comunità mi piaceva. Quando poi ho fatto teatro l’ho imparata e fatta mia questa bella “architettura umana”; ho deciso di tornare qua a recuperare le mie radici, prima con Orti insorti, con lo slogan “Spegnete la tv e aprite le porte al teatro”, recuperando il senso del ritrovarsi. Ho fortemente inseguito il senso di comunità con Orti insorti sette anni fa e poi ho deciso di condividerlo in un Festival con altri artisti, narratori e attori affermati o meno, da Cosentino a Iaia Forti, da Moni Ovadia a Marco Paolini.
lo raccontavo in giro della mia idea di Festival e loro mi chiedevano di voler provare questa esperienza. Paolini è venuto a portare per la prima volta Dedicato a Jack London che non aveva mai presentato in pubblico prima. Sembrava un presepe: eravamo a Podere di Monte Merano e la gente dalle 19 veniva da tutta la Toscana con i doni che abbiamo messo in mostra. Per l’attore è anche un bel ricordo, si porta dietro i sapori del posto che lo ha ospitato.
In una situazione come quella attuale, con tagli alla cultura ti viene il pensiero: “Cosa fai adesso? Come puoi opporti?” E il mio atto rivoluzionario è stato questo: un teatro a baratto. Prima senza soldi, ora con buoni spesa, ospitalità in agriturismi. Il primo pensiero è stato il volerlo fare e siccome non avevo soldi, aggiungevo alla locandina la scritta “con il non patrocinio di comune e provincia”. La cosa ha creato rumore e l’anno dopo ho avuto un po’ di soldi, pochi soldi ma si è cominciato a fare un programma vero. Quest’anno per la prima volta ho avuto 2500 euro, una cifra che ci permette al massimo di offrire il rimborso del viaggio agli attori. Bisognerebbe avere più sovvenzioni ovviamente per l’organizzazione

Come è nata l’idea di entrare nelle case?

Il festival è nato dalla gente, io giravo con il mio teatro e molte persone mi hanno offerto spontaneamente le loro case, corti, poderi, e una volta che avevamo gli spazi abbiamo creato il pubblico. Qua non c’e libreria, c’è solo un cinema. La verità è che nessuno si muove per andare a mangiare cultura. Noi andavamo allora nelle loro case. Le persone che abitano qua spesso hanno visto teatro solo grazie al Festival; la vecchietta che ha seguito tutto il festival in questi sei anni ha visto sessanta spettacoli, più di molti altri cittadini che dicono di andare regolarmente a teatro. Li porto pian piano, gradualmente ad accettare il teatro, prima con la cosa più semplice, più giocosa e poi trovano l’attrice grotowskiana che si esibisce dopo trent’anni! Ora dal primo all’ultimo spettacolo in programma l’onda del pubblico aumenta e si autoalimenta, con questa dinamica dell’andare nelle case di persone conosciute, con il passa parola, con la curiosità, e si raggiungono facilmente cento spettatori, che è poi il massimo che potrebbero accogliere alcuni spazi. Nelle ultime edizioni abbiamo avuto pubblico da Capalbio e Grosseto. Sono qua non per vedere il divo del momento ma un altro tipo di teatro.

C’è un filo conduttore, un tema comune al festival?

Sì, c’è sempre un filo comune. Lo scorso anno è stata la biografia, quest’anno l’amore. Questo del rintracciare un tema è compito del direttore artistico, è il suo lavoro. Certamente il vincolo rimane quello di una trasportabilità e adattabilità dello spettacolo. Se hai un palco è facile, ma a me piace chiedere agli artisti di venire con il loro fare teatro in modo immediato e diretto, magari con una narrazione, ma niente luci speciali. La cosa importante è il rapporto tra attore e pubblico, come accadeva una volte con i cantastorie. E’ il teatro che si fa paese e viceversa. Nell’edizione dello scorso anno gli attori riportavano i loro vecchi spettacoli, nessun circuito lo farebbe. Scabia che è stato il mio maestro, ha portato il suo primo spettacolo degli anni Sessanta suscitando curiosità tra gli anziani e i giovani. Fu un momento speciale.

Come consideri il tuo teatro e il tuo festival? Impegnato? Politico? Civile?

Per me è un teatro estremamente politico, ed è anche un vero teatro pubblico. E’ un atto provocatorio nei confronti di certe istituzioni. Si dice sempre che non ci sono soldi, ma poi alla fine i fuochi di artificio si fanno sempre! E’ un atto di protesta anche nei confronti di circuiti di teatro dove mettono spettacoli televisivi. Ci può essere un altro modo di portare a teatro le persone. Certo, la cultura non è gratis, costa produrlo ma crea economie e professioni, Carmina non dant panem dicevano i latini. Se ricevi qualcosa, poesia, teatro o altro, devi dare anche tu qualcosa, ed è questa la filosofia del teatro a baratto. Tutti mi chiedono gemellaggi dall’Italia e anche dalla Francia; non è semplice fare un Festival di questo tipo, devi rapportarti con le persone, curare le relazioni, spiegare come funziona l’organizzazione a coloro che offrono la casa, pensare a tutto ciò che sta intorno, promozione, inviti. Qua abbiamo impiantato le piccole isole del baratto e del donativo, come diceva Bianciardi “prima saremo piccole isole poi saremo in tanti”. Cerco di metterlo in pratica. Il mio teatro è conviviale e civile. Ogni anno dedico il festival a un artista scomparso: Luigi Gozzi, Leo de Berardinis con cui ho frequentato i primi corsi di teatro a Bologna, Franco Quadri. Quest’ anno l’ho dedicato a Giuseppe Bertolucci.

Che ambizioni hai per il tuo festival?

Vorrei vederlo crescere con progetti di produzione. Mi piacerebbe fare di Manciano un luogo aperto e appartato allo stesso, dove creare in libertà e in silenzio, e poi vorrei dare al festival una connotazione anche internazionale, con artisti stranieri. Vorrei inoltre, offrire un panorama di teatro più variegato, già quest’anno ci abbiamo provato con musica e danza, con la scrittura creativa di Canio Lo Guercio. Magari aggiungerei proposte di teatro di figura.

Quanto è cambiata la tua visione del teatro e la tua pratica di teatro, da attrice del teatro di Pippo Delbono alla narratrice di Orti insorti alla non-autobiografia teatrale di Bella tutta!?

Ho modificato il mio linguaggio; con Pippo sono rimasta quindici anni e non ho mai parlato, lavoravo sul corpo, su altri codici; il teatro di quell’epoca mi piaceva, la Fura dels Baus, la Valdoca. Vivendo qua, dopo aver vissuto a Bologna e poi a Milano è come se avessi cambiato stile e alimentazione. Ho iniziato a leggere testi delle radici, Pasolini e Bianciardi. Ho creato un mio linguaggio e un mio stile, anche se qualcosa dei maestri rimane. Mi viene da usare una metafora agricola, ho fatto una “rotazione delle colture del campo”…Non sono cose inconciliabili le mie esperienze del passato e le intenzioni artistiche presenti, ma forse arrivano diversamente al pubblico. Di Pippo nei miei lavori c’è ancora l’umanità di Barboni, mantengo poi il rigore estetico che mi ha insegnato il teatro della Valdoca, un rigore nell’allestimento anche se povero, nella preparazione.

Il tuo ultimo romanzo
Bella tutta! (Garzanti 2012), che in epoca di bibbia Dukan ha rilanciato la moda delle donne curvy, ti ha portato in tv e nelle riviste femminili che vendono milioni di copie. Come concili con la tua attività di artista di ricerca con il fatto di essere diventata un volto piuttosto noto al grande pubblico?

Mi chiamano per le sfilate di moda per le modelle taglia 50, sono apparsa al Tg2 e in programmi televisivi a presentare il mio libro e in effetti nel mondo della ricerca sono considerata una outsider. Mi ricordo che all’epoca del progetto Vajont di Paolini, che noi seguimmo grazie al nostro docente del Dams di Bologna, Gerardo Guccini, imparai una cosa molto importante. Lui disse: “La tv non mi inquina”. In effetti se rimani te stessa i media non ti cambiano. Io cerco di rimanere sempre trasversale con i miei temi.

Anna_Maria_Monteverdi

2012-09-17T00:00:00




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