Prima e dopo Timi

Dalla tradizione alla Favola: l'evoluzione del grande attore

Pubblicato il 02/10/2012 / di / ateatro n. 138

Può la visione di un singolo spettacolo farci cambiare idea circa le sorti future della tradizione italiana del Grande Attore? Sì, se lo spettacolo in questione presenta, ora in maniera sapientemente occulta ora con spudorato coraggio, i contrassegni di un blasone antico quanto vivido. E, se osando oltremodo, ci si riferisse più precisamente all’opera di un attore come Filippo Timi inopinatamente più noto sul grande schermo che in scena?
Attraverso una ricognizione, tramata da densi riferimenti ad un campo di ruccelliana memoria, Favola racconta soprattutto l’’audacia dell’’erede decisivo di una genealogia “grandattoriale” che non accenna a declinare. La storia di Mrs Fairytale (lo stesso Timi) e Mrs Emerald (Lucia Mascino), ossia quello di due mogli sull’’orlo di una crisi di nervi nell’’America perbenista e impaurita del maccartismo, è il pretesto più brillante che Timi avrebbe potuto trovare per innescare la strategia sottile dei travisamenti impercettibili e macroscopici, dei sotterfugi, del claustrofobico e festante stato d’assedio che è il mestiere dell’attore. Tuttavia, tra melò e noir, in un reiterato omaggio al cinema classico hollywoodiano, qui di mestiere, come di ogni altra traccia che possa ricondurre al sistema ferreo e rassicurante del recitare, fortunatamente non c’è neanche l’ombra. Tutto è illuminato dalla coscienza anarchica di un attore-artista che non solo esibisce attenzione e rigore sovrumani a tutto quello che succede, ma con il fatale illusionismo di altri, ben più felici, tempi sembra produrre ogni miracolo, grande e piccolo, destinato a manifestarsi dilatando, senza che nessuno riesca davvero ad accorgersene, il tempo previsto di due ore e mezza sino alle quattro ore di reale durata dello spettacolo.

Non c’’è nessuna volontà parodistica, nessun desiderio di rendere caricaturale la realtà perché qui il rischio della mera rappresentazione è aggirato dalla capacità di stare in equilibrio su una soglia esile e pericolosa. Anche la funzione en travesti, che pure fornisce degli spunti per alcuni dispositivi drammaturgici, risponde all’urgenza di un gusto funambolico mai autoreferenziale, mai fine a se stesso. Tenere, chi osserva, sulla corda con sé, stare sulla corda e godersi la vertigine: questo è ciò che fa l’artista perugino.
Timi gioca tutto lo spettacolo sul confine tra dentro e fuori, danzando, talora alla lettera, sul profilo affilato di questa condizione-limite. D’altronde non ha altra possibilità («Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può», sosteneva Carmelo Bene) per essere in scena. Lo stesso sorriso che balena numerosamente, e generosamente, sul suo volto è ora un ghigno beffardo, più spesso il segnale (a se stesso? ai suoi attori?) che qualcosa sta per deflagrare, per spostare altrove il baricentro della sua interpretazione. Dove? Più in alto e più in profondità. Ancora una volta sarà il caso di riferire, non a sproposito, una sapiente osservazione sulla fenomenologia del Grande Attore italiano:

«Anche in questo il Grande Attore differisce da un normale buon attore: sembra saper raccontare al suo spettatore qualcosa di molto privato e di molto universale insieme, qualcosa che trascende la serata, lo spettacolo in sé. Qualcosa che alla fine può essere definito solo con le parole che Eleonora Duse usò per definire la propria arte: un “valore di vita”». (1)

Certo, in Favola, ci sono dei momenti in cui, questa qualità esplode con particolare efficacia. Un’efficacia che va proprio in direzione di una possibilità di sconfinamento continuamente trattenuta sull’orlo dell’abisso. Come quando la bambina, alias Mrs Fairytale/Timi, scopre di essere diventata adulto e il rapporto con la consueta confidente Mrs Emerald/Mascino si fa sensuale, torrido. Un bacio diventa un amplesso, i personaggi rimangono sullo sfondo; la conversazione, allora, tracima verso qualcosa che riguarda i due interpreti, riguarda la platea intera. Il tempo rimane in bilico sugli sguardi che si incrociano, sulle parole che squarciano l’istante, lo rendono eterno ed unico mentre Timi, osservando la Mascino, sussurra: «Quanto sei bella!».

Il gioco può diventare allora gioco al massacro, giacché il più alto coefficiente di interazione coincide sempre con la massima intensità della caratura individuale. In tal senso, Timi, da capocomico efferato, costringe i suoi compagni a inseguirlo sul crinale lubrico della propria prospettiva scenica, ad un andirivieni estenuante, a dimostrare di essere in grado di prendersi la propria parte, costi quel che costi. Con il risultato che dallo sfinimento del conflitto scaturiscono episodi di prezioso struggimento. Si veda, ad esempio il magnifico monologo di Lucia Mascino, tutto pronunciato da una distanza siderale, con una sublime voce di testa, da insondabili quote oceaniche. O lo scambio di battute dello stesso Timi con il notevole Luca Pignanoli, in cui la stessa, brevissima, tranche di dialogo (stilema canonico, e apparentemente insignificante, del poliziesco di tutti i tempi):

Glenn: Che nessuno si muova?
Fairytale: Cosa?

reiterandosi per quasi dieci minuti, paralizza il pubblico con effetto virtuosistico di deleuziana ripetizione o di irridente messa alla berlina delle stereotipie registiche, teatrali o cinematografiche che possano essere.
Se il senso del confine qui è teso sino alle sue estreme conseguenze, ma comunque rispettato, un altro limen (quello che sembrava raggiunto con la presunta fine della storia del Grande Attore italiano) è stato superato dall’evidenza dell’esempio magistrale di questo straordinario artista.
Ci sarà, dunque, un prima e un dopo Timi nel teatro italiano? Sicuramente, non secondo una scansione che eluda il senso della longue durée di una tradizione attoriale. Al contrario, nella misura di un pieno recupero di essa, capace di dimostrare, una volta per tutte, la vitalità inestinguibile di una linfa che ha alimentato una stagione plurisecolare. Un’epoca che recentemente, in alcune ponderate considerazioni, è apparsa come perduta per sempre:

«[…] in questi dodici anni, la crisi dell’attore italiano non ha fatto che aggravarsi. E mi pare che il continuismo di Meldolesi o della Schino d’antan non sia in grado di farci fare i conti fino in fondo, se non in un modo che rischia di diventare evasivo e consolatorio […] Trovo infatti che da posizioni del genere traspaia un ottimismo eccessivo riguardo alla questione delicata e cruciale della trasmissione della straordinaria eredità novecentesca.» (2)

Marco De Marinis individuando acutamente, in un orizzonte post-novecentesco, le trasmutazioni dell’attore nel nuovo teatro, ricollega le aporie più rilevanti dell’odierna crisi alla problematica possibilità di ritrasmissione di un retaggio:

«E se stesse proprio qui, in questo paradosso di padri/anti-padri e di un’eredità negata, una chiave importante per gettare nuova luce sulla crisi attuale?» (3)

Ora, si tratta di capire quali esempi, nell’ambito di una pur densa nomenclatura novecentesca, abbiano pesato e continuino a pesare, in forme talora anche di malcelata dissimulazione, sugli attori artisti dell’ultima generazione:

Gli attori artisti odierni hanno eletto la Duse ed Eduardo a loro riferimenti: il secondo per influenza diretta; la prima per il suo senso dell’oltre ovvero per la sua familiarità con la mancanza. (4)

Entrambi i riferimenti brillano nel lavoro di Timi, con efficacia inusitata. Se l’oltranza della Duse vive nella twilight zone orchestrata lungo tutto l’ordito di Favola, Eduardo, attraverso il modello degenere del suo figlio più crudele (Carmelo Bene), è presente nell’oltranza di alcuni acuti. Come quando dopo che Fairytale/Timi ha costretto Emerald/Mascino a trangugiare litri di liquore (diretto omaggio alla follia di Eduardo/Murri in Ditegli sempre di sì?), in preda ad un raptus le rompe in testa la bottiglia.
Anche in questo gesto non c’è alcuna gratuità, al contrario vive, in esso, il senso di una lacerazione irredimibile, destinata ad essere esplicitata. La medesima lacerazione che la perturbante macchina della memoria produce a partire dai brani di un Carosello (autentico? apocrifo?) che scandisce i cambi di scena.
La spina della nostalgia manovrata da Timi, la capacità che essa ha di incidere, dicono infine l’ambiguità lancinante della sua arte attoriale. Un’ambiguità che si assapora con particolare sagacia nell’atmosfera natalizia ordita in un tinello della middle class in cui il fascino di un’aura ovattata e pervasiva stempera persino le impennate più grottesche.
Anche le citazioni musicali (da Judy Garland a David Bowie) partecipano di questo clima conferendo al tutto un controcanto frastornante, come l’eco senile, postmoderna, di un’infanzia della modernità occidentale. Il ricordo di un’età dell’oro, al contempo, fasulla e magica, letale e dolcissima.
In quella terra di mezzo che è la scena è possibile stare in equilibrio tra stagioni diverse, tra mondi lontanissimi, dimostrando, in fondo, che la nostra esistenza è tutta qui. Il Grande Attore è tale proprio perché celebrando sé stesso, rende visibile, per un momento irripetibile, questo segreto, assolvendoci dall’obbligo gravoso di fermarci al carcere dell’apparenza.

NOTE

(1) M. Schino, Racconti del Grande Attore. Tra la Rachel e la Duse, Città di Castello, Edimond, 2004, pp. 22-23.
(2) M. De Marinis, La Duse, il nuovo teatro italiano e il degrado attuale dell’arte attorica, in Voci e anime, corpi e scritture. Atti del Convegno internazionale su Eleonora Duse, a cura di M. Ida Biggi e P. Puppa, Bulzoni, Roma, 2009, p. 573
(3) Ivi, p. 575.
(4) C. Meldolesi, Questo strano teatro creato dagli attori artisti nel tempo della regia, che ha rigenerato l’avanguardia storica insieme al popolare. Come un editoriale, in «Teatro e storia», n. XI, 1996, p. 12.

Dario_Tomasello

2012-10-02T00:00:00




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