Si può ridere dell’orrore? Il teatro di Jean-Paul Grumberg

Lo scrittore, drammaturgo e sceneggiatore francese a Cagliari dal 12 al 14 gennaio 2013

Pubblicato il 26/12/2013 / di / ateatro n. 142

Sarà a Cagliari dal 12 al 14 febbraio Jean-Claude Grumberg, scrittore, drammaturgo e sceneggiatore francese, per una fitta serie di appuntamenti in occasione delle repliche di Storie di famiglia, un collage di alcuni suoi testi curato da Jean-Claude Penchenat per il Teatro Stabile della Sardegna, nell’ambito della sesta edizione del progetto Face a Face-Parole di Francia per scene d’Italia.
In particolare:
# sabato 12 gennaio, alla Sala Minimax,
Conversazione con l’autore sul teatro, le vacanze, la mamma, la storia e qualche altro argomento ancora, conduce Oliviero Ponte di Pino, partecipano Jean-Claude Penchenat, Geneviève Rey-Penchenat, Maria Antonia Pingitore; a seguire, lo spettacolo (che si replica domenica alle 17.00 e lunedì alle 21.00) e un aperitivo “francese”;
# domenica 13 gennaio, Cineteca Sarda, ore 20.30, Proiezione del film
Amen, regia di Constantin Costa-Gavras, Francia 2002;
# lunedì 14 gennaio, Cineteca Sarda, ore 17.30,
La scrittura per il cinema, incontro con Jean-Claude Grumberg, conduce Antonello Zanda, direttore Cineteca Sarda.
Qui di seguito, l’intervento di Oliviero Ponte di Pino per il programma di sala dello spettacolo.

Si può essere insieme tragici e comici. E in molte maniere.
Gli attori – o meglio i comici – lo sanno da sempre: è così facile far ridere delle disgrazie altrui. Lo sapevano anche gli antichi greci, che parlavano di “ironia tragica”: il sorriso doloroso dello spettatore consapevole del triste destino del protagonista, che ovviamente lo ignora. Lo sapeva pure Karl Marx, quando scriveva che la storia si manifesta prima come tragedia e poi si ripete come farsa.
Ma è possibile ridere della tragedia assoluta, di quel buco nero dell’umanità e della storia che è la Shoah? Certo, conosciamo le disgustose barzellette razziste che riemergono periodicamente, espressione della satira come forma di odio aggressiva e distruttiva, cge vengono immediatamente condannate nel nome del politically correct. Perché in quelle barzellette si sente l’eco del ghigno del boia mentre deride il cadavere delle sue vittime. O peggio, ancora prima, quando le addita all’odio comune attraverso la derisione e aizza la folla al linciaggio del diverso.
Dall’altro lato della barricata, ci sono le vittime che ridono del boia: sarebbe una reazione comprensibile, una forma di legittima difesa, un risarcimento, che però può generare qualche inquietudine. Quando il piccolo comico ebreo Charlie Chaplin mise in caricatura il Grande Dittatore, che stava provocando milioni di morti con la sua ferocia razzista e la sua follia guerriera, qualcuno si scandalizzò: come si può ridere di un massacratore di popoli? non significa anche farsi beffe anche delle sue vittime?
Infine c’è chi, essendo dalla parte delle vittime, ride delle vittime, ride con le vittime. E’ una risata che brucia, e lascia un vago senso di colpa. Mette doppiamente a disagio, perché obbliga a pensare, ma prima ancora mette in discussione certezze ed emozioni. E’ una risata che scarica nell’atto fisico una tensione insopportabile (secondo la visione del comico che aveva Freud), ma che costringe a fare un salto. Spesso suscita polemiche.
E’ una risata che i boia non possono capire.
Jean-Claude Grumberg ride e ci fa ridere dell’orrore. E ci fa pensare. Non è stato il primo a farlo, anche se è stato tra i primi (accanto a lui, va citato almeno George Tabori).
Grumberg ha scritto numerosi testi per il teatro (che gli hanno tra l’altro portato numerosi e prestigiosi riconoscimenti), che ruotano tutti intorno agli stessi nodi. Anche quelli che ha scritto per i bambini.
Il tema centrale è la memoria, una memoria insieme personale e collettiva. Personale, perché riporta all’infanzia dell’autore. Dunque rimette in gioco uno sguardo semplice, innocente, e perciò pericoloso: qualunque bambino può dire che il re è nudo, oppure che è un mostro. Con la sua ingenuità, il bambino ci permette di scoprire – o di riscoprire – il mondo. E’ il meccanismo che i teatranti chiamano “lo straniamento” e che mette subito in moto un meccanismo ironico.
L’infanzia, paradiso dell’innocenza, per il piccolo Jean-Claude è stato anche l’inferno. E’ figlio di un sarto ebreo, morto in deportazione quando Jean-Claude era solo un bambino. C’è una distanza incolmabile tra la tranquilla quotidianità, con gli affetti e le abitudini della vita familiare, l’oscura realtà del male. Ecco, questo è il vero orrore: la vicinanza tra due mondi che non si dovrebbero toccare. E’ una cosa insensata, incomprensibile, e che dunque bisogna cercare di capire, per tutta la vita.
Forse è per questo che da giovane Jean-Claude ha provato a imparare il mestiere del padre: ricorda di aver cambiato diciotto datori di lavoro in quattro anni (un’esperienza che li ha ispirato il suo testo forse più noto, L’Atelier). Dev’essere lì che ha imparato a scrivere, con la stessa precisione e leggerezza necessaria al sarto per tagliare la stoffa. Poi è diventato attore, e ha imparato i segreti del rapporto con lo spettatore. L’effetto dei suoi testi sul pubblico lo interessa molto: ha addirittura costruito una pièce, Sortie de théâtre (2000), ricucendo le frasi degli spettatori che uscivano del teatro dopo una rappresentazione del suo testo Maman revient, pauvre orphelin.
La memoria, dunque. Personale e collettiva. Poi l’infanzia. E il presente.
Quella di Grumberg non è una memoria sentimentale, dolciastra, consolatoria. E’ una memoria che sbatte contro il presente, e lo interroga. Certo, ci pare di aver addomesticato il seme del male, di aver accantonato per sempre la Bestia. E invece… Invece la memoria ritorna, nel ricordo dei sopravvissuti. E la Bestia torna a fare capolino, quando meno te l’aspetti. Nella vita quotidiana, nei rapporti d’ufficio, in famiglia, persino quando andiamo in vacanza, tranquilli e rilassati a godere il meritato riposo.
Torna, l’orrore, magari quasi impercettibile, nel linguaggio, nelle parole che usiamo, inconsapevoli. Sono queste le parole che Grumberg sa tagliare e cucire con tanta abilità: quelle poche parole essenziali, quelle che capisce anche un bambino. Sono le parole che permettono di dire tutto, e che permettono all’attore, quando le dice sulla scena, di giocare su molti registri diversi. (Ancora una volta, lo straniamento…)
E’ un sesto (o settimo, o decimo) senso, quello di Grumberg per la lingua. E’ lì che emerge la sua maestria. Perché è proprio dalle parole – e addirittura dai nomi – che può sgorgare il veleno dell’odio.
Proprio per questo il teatro, tessuto di parole, può diventare la medicina. L’attore può iniettarsi quel veleno, dire quelle parole in apparenza inoffensive, e sputarle fuori, o esalarle come se fossero l’ultimo respiro. E può ridere, oppure può farci ridere. Così quel veleno diventa meno velenoso. Almeno per un po’…

Oliviero_Ponte_di_Pino

2013-12-26T00:00:00




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