La nostra esistenza, i vuoti, le distanze: raccontare il presente tragico e comico
Gabriele Di Luca sulla drammaturgia di Carrozzeria Orfeo
Carrozzeria Orfeo è uno sberleffo tragicomico alla miseria del nostro presente. A volte sgangherato (com’è la vita), a volte esageratamente teatrale (com’è la vita), questo autoritratto generazionale autocritico e autoironico conquista il suo pubblico, con una adesione istintiva e totale. Anche se nel gioco spettacolare c’è qualche trappola, come spiega Gabriele De Luca (che è anche il drammaturgo di compagnia).
Qual è lo spunto da cui parti per la scrittura dei tuoi testi?
Sono partenze molto diverse: a volte personaggi, a volte tematiche, spesso da un’immagine. Di solito c’è un centro tematico emotivo, quello che accade all’interno di una relazione.
In Sul confine abbiamo iniziato a lavorare intorno al limite tra vita e morte, dunque sull’alternanza tra buio e luce, con lampi sparati dalle lampade che attraversano l’oscurità.
In Idoli l’immagine iniziale è il ballo tra un ragazzo e una ragazza, nel quale non si capisce se lei sia morta o meno, perché lui deve continuare a sollevarla mentre cade. E prima ancora c’era l’immagine di qualcuno che spacca una bottiglia in testa a un’altra persona.
Sono due immagini diverse: il ballo e la bottigliata in testa…
E’ la bottiglia che l’ultras le spacca sulla testa, che sarà l’immagine finale dello spettacolo. Una volta individuata un’immagine o nucleo tematico, cerco sempre di esploderlo attraverso migliaia di elementi – film, libri, quadri. E’ la verticale del ruolo: prima di arrivare alla sintesi il testo attraversa una gran mole di materiale, che magari non viene usata.
Perché usi le immagini come spunto iniziale? Che tipo di immagini?
Quasi sempre mi attrae il rapporto che hanno con il presente. Scatta qualcosa quando vedo una cosa pericolosa, anche per il mio modo di pensare, per le mie convinzioni. Immagini che con la loro particolarità possono raccontare il presente, ma per un’altra via. Quando non mi trovo di fronte ai fatti o alle informazioni, non trovo nulla di interessante. Diventa interessante quando assisto a un dialogo o a una scena per la strada, e mi accorgo che la posta in gioco è alta, che non ci sono più solo il bene o il male ma entra in gioco il dubbio. Devo sentire la terra che trema.
A quel punto parte la scrittura.
Cerco di portare avanti contemporaneamente la linea narrativa e quella dialogica insieme, dando loro forma e carne attraverso dialoghi e monologhi. Non seguo un ordine cronologico, ma lavoro su piccole sezioni di testo. Cerco di passare dal caos all’ordine, dandogli una struttura lavorando sempre sulla relazione tra i personaggi, con particolare attenzione alla relazione che i personaggi hanno con lo spazio: è un aspetto che spesso viene sottovalutato in drammaturgia, io invece prendo i personaggi e li butto nello spazio della scena come se fosse un’arena, il luogo dove emergono i conflitti più o meno espliciti. Così i personaggi devono iniziare a combattere la battaglia per colmare i loro vuoti.
Quali vuoti devono colmare?
Quando studi drammaturgia, spiegano subito che ogni personaggio deve avere degli obiettivi: “Io voglio questo”. Ma se voglio qualcosa, è perché mi manca qualcos’altro. Dunque nel lavoro sui personaggi parto dalle mancanze: lottano per colmare queste mancanze. E sto lì con il pollice in su o in giù.
E’ la nostra vita: attraverso conflitti, accordi e riconciliazioni noi spendiamo la nostra esistenza provando a colmare vuoti. E anche nell’amicizia, nell’amore e nelle nostre relazioni più profonde un’incolmabile distanza ci separa. Lasciando alla solitudine le nostre inesprimibili diversità.
In ogni caso lascio ai personaggi un guinzaglio moto lungo: a un certo punto iniziano a prendere concretezza, la loro storia comincia a prendere una sua forza, una sua dinamica.
Parti dai conflitti, che possono andare verso il tragico. Ma spesso viri verso il grottesco.
Sono due aspetti complementari, inscindibili. E’ il mio modo di pensare la vita. Ho sempre in mente
l’immagine di un uomo che una sera torna a casa e vuole impiccarsi al lampadario. Si arrampica, infila il collo ne cappio, dà un calcio allo sgabello, ma il lampadario crolla, e gli cade sulla testa un pezzo del soffitto, lui si è fatto solo un taglietto. E’ una situazione tragica ma anche ridicola. Mi interessa questo mescolamento di tragico e comico, i miei personaggi sono esseri sublimi e insieme ridicoli.
Il genere che in questi anni ha contraddistinto le nostre drammaturgie è il tragicomico. Si potrebbe parlare anche di commedia amara o di commedia nera, di grottesco e in certi passaggi di assurdo. Con il termine tragicommedia vogliamo indicare, senza pretese di troppo rigore, l’alleanza della visione comica con quella tragica, la volontà di muoversi sul fragile confine che li separa e sull’istante in cui tutto può inevitabilmente risolversi o precipitare. E’ l’istante in cui i personaggi si mostrano completamente nudi, l’istante nel quale stupidità e genio, senno e follia, la “merda” e la “croce” suonano la loro nota nello stesso istante lasciandoci un sorriso sul viso e un tomba nel cuore. La commedia portata all’estremo è profondamente tragica. E cosa c’è di più tragico di chi vede con distanza le cose, ma ne è schiavo? Il riso è tragico. Come compagnia portiamo avanti da anni un costante studio e una riflessione sulla mescolanza di generi, sulla capacità e sull’urgenza di fondere l’ironia alla tragicità, di confondere i generi in una continua escursione fra l’entusiasmo e il broncio, fra il sublime e il banale. Come una corda sempre tesa fra il cielo e gli scantinati in uno spalancarsi di abissi dove, ad ogni passo, non si può che restare in bilico.
Come diciamo nella presentazione di Thanks for Vaselina: “E’ in questa costante tensione tra cielo e bassifondi che da sempre ci caratterizza troviamo, o ci viene imposto il nostro ruolo, come ingranaggio e tasselli di una catena alimentare, di una selezione naturale che non avrà fine, fino all’ultima bomba e all’ultimo uomo.” E’ un lavoro complicato, che ha l’obiettivo di armonizzare i due aspetti fondamentali della vita – il comico e il tragico – in modo logico, credibile e interessante. La scrittura drammatica ci insegna che maggiore è la distanza tra spirituale e quotidiano, tra vita comune e complessità sociali, maggiore sarà la distanza che i personaggi dovranno compiere per unire i due estremi e riempire i vuoti che li separano. Tragedia e commedia non solo solo due linguaggi, sono due forme politiche di pensare il teatri e cerco di farle convivere.
In che senso parli di forme politiche?
La tragedia è una comunione elevata, è un evento sociale di grande condivisione su temi alti. Porta a fare i conti con il sacro e con il rito, attraversa l’uomo. Il comico è la capacità di insinuarsi nelle nostre vite che hanno i dubbi e i pericoli, anche quelli più bassi, scontati, comuni, le cose che tutti i giorno vogliamo o taciamo.
Dunque la tragedia riguarderebbe la dimensione collettiva, mente il comico si concentra sulla dimensione individuale?
Il comico va a prendere l’essere umano lo porta in scena trascinandolo per il colletto della camicia: vediamo i personaggi che rotolano in scena. La tragedia invece appare. Attraversa, avvolge, sublima. E’ la differenza tra terra e aria.
Arrivi alle prove con il testo già scritto, o lo costruisci con gli attori di Carrozzeria Orfeo?
Prima della scrittura condividiamo immagini e tematiche, poi scrivo il testo, a volte con qualche piccolo momento intermedio di confronto, ma abbastanza di rado. Ma ho bisogno di scrivere da solo, mi dà sicurezza, mi dà la rotta. Quando ho finito, condivido il testo con il gruppo. A quel punto inizia il lavoro di messinscena: tra una scena e l’altra, tra una battuta e l’altra il testo si riempie di ulteriori immagini, ma può cambiare anche sulla base delle esigenze di scena e degli attori. Posso cambiare fino al venti per cento del testo, quello che non cambia sono la struttura del dramma e la costruzione dei personaggi.
E nel rapporto con il pubblico, come lavorate?
Il nostro non è un teatro didattico. Non facciamo una drammaturgia intellettuale. Attraverso la scrittura, mi piace andare a prendere la collettività che ci viene a guardare là dove si trova: insomma, non dove siamo noi, ma dove sono gli spettatori, Per questo partiamo da un immaginario fatto di pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi. Vogliamo trascinare anche il pubblico sul palcoscenico, è un rapporto fisico. A quel punto cerchiamo di attraversarlo con un’immagine, con qualcosa che lo disorienti. Ci diverte molto andarli a prendere con il grottesco, e poi accompagnarli fino ai ribaltamenti che portano al senso del tragico.
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