L’eredità di Luca

Cosa lascia Ronconi al teatro

Pubblicato il 22/02/2015 / di / ateatro n. 153

Orlando Furioso (1969), Orestea (1972), Baccanti (1978), la tetralogia wagneriana al Comunale di Firenze negli anni Ottanta, Il viaggio a Reims a Pesaro (1983, e poi a Milano), Le due commedia in commedia (1983), Ignorabimus (1986), Gli ultimi giorni dell’umanità (1991), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1996), Infinities (2002), Lo specchio del diavolo (2006), fino al monumentale e leggero Lehman Trilogy che ha debuttato al Piccolo Teatro pochi giorni fa.

Sarebbe bastato uno solo di questi spettacoli, tutti diversamente geniali, per far entrare Luca Ronconi tra i protagonisti della storia del teatro. Sono messinscene che hanno reinventato l’idea stessa di teatro. Hanno ridisegnato lo spazio e il tempo della scena, il rapporto tra attore e personaggio, il concetto di scrittura drammaturgica, la grammatica e la sintassi. Hanno costruito un altro sguardo sul teatro e dunque un nuovo spettatore.
Ronconi ha moltiplicato i teatri possibili e ce li lascia in eredità.
Quando ha iniziato la carriera di regista, aveva di fronte un teatro vecchio e inutile, che lo infastidiva. Non esisteva più un canone di riferimento. La tradizione, quella teatrale ma più in generale quella culturale, era implosa. Nel ridarle vita, Ronconi non è stato solo un grande regista, ma un intellettuale nel senso pieno del termine, consapevole dello scenario sociale, politico e culturale in cui si muoveva. Senza mai piegarsi all’attualità, ha continuato a rispondere alle sollecitazioni della contemporaneità, con lo strumento che si era costruito: il lavoro di palcoscenico.
Lì, spettacolo dopo spettacolo, ha condotto una rivoluzionaria riflessione sulla necessità del teatro oggi, in una società dove tutto pare ridotto a spettacolo e comunicazione. Umile e gigantesco, ha usato la scena come strumento di conoscenza. Usava il filtro sia razionale sia emotivo di una lettura dei testi meticolosa, stratificata, sottile, ma con idee di messinscena visionarie, spiazzanti, folgoranti, per grandiosità e semplicità. Le sue prove, e i suoi spettacoli, erano bisturi affilati che esploravano in profondità i testi per portarne alla luce tutta la ricchezza di significati. Il “metodo Ronconi” (un’espressione che rifiutava) funzionava con i capolavori della tradizione, ma anche la drammaturgia contemporanea, con i copioni scritti per il teatro ma anche con qualunque altro testo (poemi, romanzi, lettere, saggi, sceneggiature…). Sapeva che ogni lettura è traduzione, compresa la messinscena.
Incarnandosi nei corpi, nelle voci e soprattutto nell’intelligenza dei suoi attori, quei duelli con la parola dell’autore diventavano viaggi nella lingua, nell’anima, nell’immaginario, ma anche e soprattutto sonde nella realtà in cui viviamo. Tutto poteva diventare teatro, non per una vuota celebrazione dell’apparenza, ma per un percorso di conoscenza di sé e del mondo. In questo stava l’etica profonda di Ronconi, la sua totale dedizione al teatro. Per questo bruciava il suo amore esigente, a volte crudele, per attori e attrici.
In molti dei suoi spettacoli, soprattutto negli ultimi anni, il confine del teatro si apriva su un’altra realtà. In palcoscenico aveva imparato a far parlare i morti, a dialogare con la morte, a volte con leggerezza e un senso d’ironica sorpresa.
Il suo paradiso, il liuogo in cui si sentiva a proprio agio, l’aveva già trovato, in questa terra. Era il palcoscenico, era la felicità di lavorare con attori e attrici per giorni e notti intere, anche negli ultimi anni, logorato dalla malattia ma sempre attentissimo, instancabile, generoso. Era l’eremo di Santacristina, dove ogni estate radunava decine di giovani “apprendisti”. Era la sua autentica, necessaria, commovente vocazione pedagogica. Era la sua travolgente produttività, con centinaia di regie di prosa e d’opera. Era quell’ansia di pensare sempre al prossimo spettacolo, all’emozione e alla paura di fronte a una scommessa dall’esito imprevedibile. Era il piacere della scoperta, dell’invenzione, del gioco da rinnovare ogni volta. Era l’utopia.
Per chi sa leggerla, nell’eredità di Luca Ronconi c’è molto che parla al teatro di oggi.




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