Judith Malina, la più radicale e profonda rivoluzionaria del teatro

Un’esperienza teatrale e personale di straordinaria ispirazione per tutti quelli che l'hanno incontrata

Pubblicato il 13/04/2015 / di / ateatro n. 154

Cristina Valenti è tra l’altro autrice di diversi volumi sul Living, tra cui Conversazioni con Judith Malina e Storia del Living teatre.

paradise now

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Judith Malina se ne è andata dolcemente, la mattina del 10 aprile. Avrebbe compiuto 89 anni nel giugno prossimo. Si trovava a Englewood, New Jersey, nella Lillian Booth Actors Home, la casa di riposo per attori anziani dove dimorava dal febbraio 2013, a seguito dei problemi di salute ed economici che l’avevano costretta a rinunciare al teatro di Clinton Street e anche al suo appartamento, dove si era trasferita nel 2007 riuscendo a realizzare, a 81 anni, il suo ennesimo arditissimo progetto e il sogno della sua vita: il teatro del Living Theatre e l’abitazione in cui vivere, nello stesso edificio del Lower East Side di New York.
Sabato 4 aprile gli attori del Living Theatre e un gruppo di amici avevano celebrato con lei la Pasqua ebraica. Lei era cosciente e felice, e bella, ci ha detto Tom Walker, l’attore che ha condiviso dal 1970 la storia del Living Theatre.

Judith Malina

Judith Malina

Un’uscita di scena silenziosa e appartata per una figura alla quale si deve la più profonda e radicale rivoluzione che il teatro abbia conosciuto.
La notizia non ha avuto il rilievo adeguato nei principali organi di informazione nazionali (fatta eccezione almeno per “La Repubblica”) che le hanno dedicato brevi trafiletti per lo più imprecisi e non aggiornati, rivelando un’impreparazione ingiustificabile per un evento che, purtroppo, era ormai nell’ordine naturale delle cose, e per una figura che ha legato al nostro Paese più di due decenni della sua vita teatrale. Una sfasatura fra rilevanza storica e puntualità dell’informazione che ha avuto un eccezionale risarcimento nel “New York Times”, il quale ha dedicato un’intera pagina di attenta ricostruzione storica all’artista ribelle con cui gli Stati Uniti non si erano mai del tutto riconciliati, dopo averla condannata e imprigionata in due occasioni, costringendola di fatto all’esilio teatrale in Europa, dopo la chiusura (una delle tante) del teatro della Quattordicesima Strada, nel 1963. Il Living Theatre, si legge nel NYT,

«è stato probabilmente il principale e più ostinato fautore del “nuovo teatro”, quello che ha cercato di abolire la convenzione dell’artificio rappresentativo, di coniugare arte e protesta politica e di ridurre, se non eliminare, la divisione fra attori e spettatori».

Intanto la rete si riempiva rapidamente di dediche, citazioni, foto e ricordi personali, che si rincorrevano e rimbalzavano fra le pagine dei blog e dei social network, creando un’analoga sfasatura fra la grandezza della figura e la personalizzazione del ricordo, fra statura storica e riflesso privato.
A testimonianza del fatto che il Living Theatre e la regista che ne è stata l’emblema per settant’anni (e per i tre decenni successivi alla scomparsa di Julian Beck) hanno rappresentato contemporaneamente un’esperienza teatrale e un’esperienza individuale di straordinaria ispirazione per ciascuna delle persone che vi sono entrate in contatto. Una parola raccolta da Judith era sentita e fatta propria da ognuno, quasi fosse formulata proprio per lui. Così come il teatro del Living è stato in grado di rivolgersi a ciascuno spettatore, chiamandolo in causa direttamente e guidandolo in un percorso di «allargamento della consapevolezza e della visione». Perché «l’uso delle parole – diceva Judith – può diventare un esercizio non solo logico, ma esperienziale: possiamo fare esperienza delle parole» e «il teatro deve arrivare a questo, e trasformare i contenuti ideali e quelli poetici in momenti di esperienza per noi stessi e per il pubblico partecipante».
Ma la personalizzazione del ricordo corrisponde anche alla difficoltà, ancora oggi, di misurarsi con l’effettiva portata delle trasformazioni impresse dal Living Theatre, al di là dell’adesione emotiva a un teatro che doveva «valere la vita di ogni spettatore». Quello del Living Theatre è stato infatti un progetto di cambiamento globale, che non sarebbe spiegabile senza la visione politica complessiva, di segno anarchico e pacifista, di cui Julian Beck e Judith Malina sono stati portatori fin dai primi anni Cinquanta, una visione destinata a investire sia la “cellula sociale” della compagnia, sia i fondamenti stessi del teatro. La creazione collettiva, la messa in discussione dell’autorità registica, la centralità e la responsabilità dell’attore, la fuoriuscita dagli edifici tradizionali e la conquista di spazi alternativi, l’abbattimento del confine fra attori e spettatori: sono queste le principali acquisizioni di lunga durata, che sono entrate di fatto fra le possibilità attuali del teatro (precedentemente inesplorate in questi termini) e che come tali hanno continuato ad agire nelle generazioni successive, persino al di là della consapevolezza che se ne possa avere. E si tratta di quell’intreccio fra visione ideale e tecniche teatrali che ha reso possibile le creazioni memorabili del Living Theatre e le regie di Judith Malina: da The Brig (1963) a Mysteries and Smaller Pieces (1964) da Frankenstein (1966) ad Antigone (1967), da Paradise Now (1968) al ciclo dell’Eredità di Caino (dal 1970) e fino al cosiddetto “ritorno al teatro” a partire da Prometheus (1978) e quindi a The Archeology of Sleep (1983). Una vicenda da ricongiungere con quella successiva alla morte di Julian Beck (1985), che Judith Malina ha portato avanti con Hanon Reznikov (prematuramente scomparso nel maggio 2008), alternando gli interventi teatrali negli spazi aperti alla creazione di nuovi spettacoli per i teatri, fino ad arrivare all’apertura del nuovo Living Theatre, nel Lower East Side di New York, nel 2007. Il nuovo direttore organizzativo, Brad Burgess, è riuscito a superare gravissimi momenti di crisi economica, fino a quella definitiva e irreversibile che ha portato alla chiusura del teatro nel febbraio 2013, proprio quando i successi artistici stavano nuovamente brillando a New York, dove erano stati salutati con grande favore History of the World (2011) e soprattutto Here We Are (2013).
Ma di contraddizioni e sfasature vive, a ben vedere, l’intera vicenda storica di Judith Malina e del Living Theatre, nell’inconciliabilità fatale quanto necessaria fra pratica rivoluzionaria ed establishment politico e culturale, fra adesione e scandalo, popolarità e condanna.

Silvia Calderoni e THE PLOT IS THE REVOLUTION

Silvia Calderoni e Judith Malina THE PLOT IS THE REVOLUTION

Judith non si è mai stancata di porre al centro della sua azione l’imperativo del presente. Quel NOW che è diventato trampolino di lancio verso la liberazione delle coscienze nello spettacolo simbolo del Sessantotto teatrale, Paradise Now, e che ritorna nell’ultimo spettacolo italiano di Judith con i Motus, The Plot is the Revolution, che proprio dalla creazione del ’68 riprende il titolo e il monito all’azione nel presente.
Bando alla storia, persino a quella dei mitici anni del Living Theatre, la rivoluzione urge ora, in termini e in forme mutate rispetto al passato. Così Judith ha continuato a lavorare anche nella casa di riposo di Englewood, scrivendo un testo per la compagnia, dal titolo No Place to Hide (rappresentato al Burning Man Festival nel 2014), e uno per gli anziani ospiti, The Triumph of Time: un lavoro «sul diventare vecchi, che invece di trattare del dispiacere, che tutti conosciamo, tratta dei vantaggi dell’invecchiare, vantaggi che la società non riconosce. Infatti con l’età tutti noi diventiamo più saggi, migliori, più intelligenti, più compassionevoli».
Il suo corpo minuto, apparentemente fragile, che ricordiamo esplodere di forza sulla scena, ha attraversato con determinazione inflessibile e con scomoda indomabile coerenza quasi settant’anni di vita teatrale, nel corso dei quali Judith ha creato oltre un centinaio di spettacoli, rappresentati in otto lingue, in ventotto Paesi dei cinque continenti, la maggior parte dei quali raggiunti negli anni di “esilio europeo” caratterizzati dalla pratica più coerente dell’utopia anarchica (nel teatro e nella vita comunitaria del gruppo) e, contemporaneamente, dalla sperimentazione di modalità organizzative del tutto inedite, che permisero a una compagnia di venti persone di spostarsi su pullmini wolkswagen per toccare centinaia di piazze, raggiungendo centinaia di migliaia di spettatori, facendo repliche quotidiane da un capo all’altro d’Europa: senza sovvenzioni, senza una sede… senza computer.
Questo è stato il Living Theatre, la storia di un’utopia realizzata, ovvero della concretezza e dell’efficacia di un gruppo di persone ricorrentemente accusate di coltivare sogni un po’ infantili e che invece hanno saputo trarre proprio dai fondamenti del loro utopismo anarchico la capacità di vivere nell’utopia operando nella realtà quotidiana, quotidiana e teatrale.
Una storia che andrà avanti sotto la direzione di Brad Burgess, Tom Walker e Garrick Beck, che condivideranno la regia delle produzioni e con Brad Burgess come direttore artistico.
Judith si è spenta come una musica che lentamente, impercettibilmente si dissolve, ha detto Tom Walker. La colonna sonora che ha accompagnato la ribellione di generazioni, ora tace. E nonostante l’ostinato ottimismo verso il futuro che proprio lei ha voluto comunicarci fino alla fine, crediamo che non potrà mai più risuonare nulla di simile all’eloquenza delle sue argomentazioni, così limpide eppure così pesanti, come le verità che non vorremmo sentire perché ci chiamano direttamente in causa. Né sarà più possibile equiparare l’unicità della sua esperienza, del suo genio, dello straordinario dialogo che ha saputo creare con i tempi che ha attraversato, quegli anni in vorticoso, irreversibile cambiamento, di cui ha saputo anticipare, raccogliere e interpretare l’ispirazione e il fervore.
Ci aveva abituato a pensare che il suono della sua voce non si sarebbe spento. È avvenuto nel migliore dei modi, dolcemente, come lei meritava. Ma noi sentivamo di meritare che non si spegnesse mai.

I funerali di Judith Malina si svolgono oggi, 13 aprile. Il suo corpo sarà tumulato fra le tombe di Julian Beck e Hanon Reznikov. In maggio la compagnia rappresenterà No Place to Hide in strada a New York.




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