Sei spettacoli teatrali su Raidue: Paolini, Baliani, Fo, Ovadia

Le eccezioni e le regole (pubblicato originariamente sul "Patalogo 19")

Pubblicato il 10/08/2015 / di / ateatro n. -1

Il 9 ottobre 1997 una trasmissione ha mandato in frantumi molti luoghi
comuni sul teatro in televisione. Era un giovedì, quel giorno era
arrivato l’annuncio del Nobel a Dario Fo. C’era aria di crisi di governo,
e infatti Fausto Bertinotti era ospite di Santoro a Moby Dick per
illustrare agli italiani le sue minacce a Prodi. Su Raiuno sfilavano le
più belle modelle del mondo, con gli abiti dei più famosi
stilisti. Insomma, una serata con diversi appuntamenti di forte richiamo.
Eppure quella sera un attore sconosciuto al grande pubblico, mai visto
in televisione o al cinema (a parte qualche trascurabile comparsata) ha
sbancato l’Auditel con un monologo di oltre due ore e mezza su una tragedia
dimenticata e vecchia di oltre trent’anni (insomma, rimossa), tra
lo sbalordimento dei funzionari Rai e degli esperti. Alle stelle saliva
invece l’entusiasmo di Carlo Freccero, il direttore di Raidue che malgrado
tutto e tutti aveva tentato quella scommessa.
Tre milioni e mezzo di spettatori sono una cifra incredibile per un
programma del genere, oltretutto inclassificabile. Un giornale l’annunciava
come “documentario”, un altro come “dibattito”, un terzo come “film drammatico”,
qualcun altro semplicemente non lo classificava. In ogni caso nessuno aveva
osato la definizione tabù: “teatro”. Insomma, roba adatta al massimo
alla seconda serata di “Palcoscenico” o magari ai quattro gatti e ai videoregistratori
di Fuori orario.
Invece, dopo mesi di lamentele e polemiche sulla scarsa qualità
della programmazione televisiva, sulla mancanza d’idee dei palinsesti,
sul logorio delle solite “teste parlanti”, la forza e il successo dello
spettacolo di Marco Paolini, Gabriele Vacis e Felice Cappa hanno suscitato
un vivace dibattito tra critici e dirigenti televisivi, fino agli “Oscar”
della televisione vinti dal Racconto del Vajont il 23 aprile 1998.
(Va aggiunto che in tre anni il Vajont – con la sua programmazione
in luoghi spesso marginali, eccentrici rispetto al normale circuito – non
aveva affatto messo in discussione i meccanismi del “luogo d’origine” di
Paolini, il teatro.)
Le ragioni di un successo del genere sono tante, e non casuali (anche
se non sono calcolabili a priori, e paiono difficilmente riproducibili).
In primo luogo dietro a questo exploit ci sono gli anni di lavoro dell’attore-autore
veneto, che con i suoi “Album” – un’autentica Heimat all’italiana
in forma di monologo – ha messo a punto raffinati meccanismi di scrittura
e di narrazione: non a caso il primo “Album” inizia proprio negli anni
della catastrofe del Vajont e con un viaggio in treno, a recuperare il
filo della memoria. Poi, sempre sul versante artistico, c’è stato
il lungo lavoro su questo “non spettacolo”, cresciuto a partire dal 1993
in centinaia di repliche, grazie anche alle reazioni e al contributo degli
spettatori: negli appartamenti degli amici e nei centri sociali, nelle
scuole e nei manicomi, nelle piazze e nei teatri. È stata anche
questa elaborazione e verifica collettiva a dare all’attore autorevolezza
e legittimità di testimonianza. Sul versante dell’attenzione del
pubblico televisivo, c’è senz’altro la ferita aperta dei molti misteri
italiani, di cui questa tragica vicenda rappresenta un caso esemplare.
E vi forse ha contribuito anche – seppure tangenzialmente e con qualche
equivoco, visto che la memoria che mette in gioco Paolini è una
memoria viva, attiva – il filone così ricco di sentimenti della
nostalgia (che proprio su Raidue ha in Paolo Limiti il suo dolciastro cantore).
Anche le modalità della trasmissione – qualche critico televisivo
ha accusato la regia di scarsa inventiva – hanno contribuito a creare l’evento:
in diretta, la sera dell’anniversario, dal luogo della catastrofe, con
un pubblico attento e commosso, una lavagna e mille persone sul costone
della montagna. L’attore quasi sempre in primo piano o in piano americano,
come sfondo l’impressionante scenario della diga, qualche immagine di repertorio,
diverse inquadrature degli spettatori, qualche sbavatura registica a rafforzare
l’effetto-diretta. Nell’insieme un mix di fortissimo impatto emotivo, in
grado di imprimersi con forza nella memoria e nell’immaginario. Uno dei
rari casi in cui andrebbe speso – se non fosse stato svalutato – il termine
nazional-popolare:
l’occasione offerta alla comunità di riflettere (anche criticamente)
sulla propria storia e sul patto di cittadinanza.
Date queste caratteristiche, va ribadito che si tratta di un’operazione
che è difficile programmare a freddo. Il racconto del Vajont
ha preso la sua forma dopo una lunga gestazione, lontano dai mass media,
seguendo un lungo itinerario di ricerca che l’ha sovraccaricato di significati
e di contenuti. È sorretto da motivazioni umane e politiche che
trascendono il consumo e il cinismo televisivi. Anni di lavoro, di letture,
di incontri, di esperienze: il video consuma tutto questo in una sera,
moltiplicando la platea dalle migliaia ai milioni di spettatori. Impone
una posizione isolata e quasi personale, una verità occulta e dimenticata,
al centro del dibattito civile. Simmetricamente, dopo, lo spettacolo
teatrale, la sua energia, il suo impatto politico, rischiano di perdere
senso, a prescindere dalla volontà e dalla consapevolezza di autori
e spettatori. Grazie alla televisione, il lavoro ha già raggiunto
– in pratica – tutto il suo pubblico potenziale; la denuncia civile e politica
è già esplosa; tendono a entrare in gioco i meccanismi del
divismo. Dopo il trionfale passaggio su Raidue, il Vajont si ritrova
inserito in un contesto che ne altera il significato e l’effetto, e incide
sul rapporto con il pubblico. Non ha più senso fare altre decine
e decine di repliche militanti. Possono mantenere una forte carica simbolica
ed emotiva poche rappresentazioni, fatte in occasioni particolari (Paolini
già “celebrava” con Vajont una sorta di rituale laico il
9 ottobre, nei paesi della tragedia, e il 12 dicembre a Milano).
Il Vajont non è stata l’unica incursione in un certo teatro
nella programmazione di Raidue. Carlo Freccero e il suo collaboratore Felice
Cappa (che firma gli adattamenti televisivi e nel caso di Marino libero!
Marino è innocente!
il programma) hanno chiamato a lavorare
altri autori-attori di forte personalità, tutti iscrivibili a vario
titolo sotto l’etichetta (discutibile come tutte le etichette) di “teatro
di narrazione”: Moni Ovadia, Marco Baliani, Dario Fo, mentre il “profeta”
Beppe Grillo restava in esilio, confinato nel ghetto di Tele+ con le repliche
dei suoi vecchi spettacoli. (Nel palinsesto di Raidue non hanno ovviamente
trovato posto solo i “narratori”, ma anche esperimenti in altre direzioni:
da Testori interpretato da Sandro Lombardi all’Annuncio a Maria
con la regia di Antonio Syxty.)
La collaborazione ha avuto modalità ogni volta diverse, che vale
la pena di approfondire. La presenza di un attore monologante, solo in
video per ore, sembrerebbe andare contro tutte le regole della neo-televisione,
dove nei talk show si ha diritto di parola al massimo per un minuto e mezzo,
e in genere per scatenare un qualche battibecco; oppure, nel caso delle
macchiette comiche, si possono ripetere gli stessi tre minuti fino allo
sfinimento. Tuttavia l’attore-monologante guadagna ben presto una diversa
autorevolezza, forse perché mette in atto una strategia comunicativa
come quella della narrazione, profondamente radicata in tutti gli esseri
umani. E poi a differenza del “normale” teatro ripreso per la televisione
– che tende a mantenere i propri ritmi e tempi rallentati, e una recitazione
convenzionale – il solista riesce più facilmente a modulare la propria
presenza rispetto al mezzo. È in grado di adattare il testo con
facilità, tagliandolo o divagando. Soprattutto, parla direttamente
allo spettatore, senza la quarta parete e senza alcun illusionismo posticcio,
imponendo fin dall’inizio la verità della propria comunicazione
(anche se ovviamente infarcita di sofisticate tecniche retoriche).
Tra i “monologatori” di questa stagione di Raidue, il secondo – e finora
l’unico – a meritarsi gli onori della prima serata è stato Moni
Ovadia con il suo cabaret yiddish Oylem Goylem. L’audience è
stata decisamente minore di Vajont, “solo” un milione di spettatori
(anche se va in ogni caso ricordato che lo spettacolo ha avuto lo stesso
share del Macbeth scaligero diretto da Abbado e il doppio dello
share dell’Isola degli schiavi trasmesso la sera della morte di
Strehler). È stato proposto in prima serata ma in differita, con
un finto pubblico e un montaggio “pulito”, che voleva far pensare a uno
spettacolo ripreso “quasi” dal vivo in una situazione particolare: un caffè
yiddish reinventato per l’occasione. Alcuni attori seduti ai tavolini di
quell’immaginario (e un po’ triste) locale impersonavano gli immaginari
spettatori ebrei, e insieme i possibili protagonisti delle storielle ebraiche
raccontate con l’abituale verve da Moni Ovadia: una platea finta e fredda,
un filtro che ha forse diminuito il coinvolgimento e l’empatia del pubblico
da casa (va anche aggiunto che Oylem Goylem era già stato
ripreso e trasmesso da Tele+, e successivamente distribuito in videocassetta,
in una versione ripresa nel corso di una replica con un normale pubblico
teatrale). Lo spettacolo, preceduto da una rapida presentazione di Gad
Lerner, nell’atrio di un teatro, è stato inserito in una serata
“tematica”, seguito dal film di Woody Allen Broadway Danny Rose
e da un secondo blocco di materiali di Moni Ovadia. Rispetto a uno spettacolo
“nazional-popolare” come Vajont, il target era a priori più
ristretto: la cultura ebraica in Italia resta di fatto (malgrado Woody
Allen) patrimonio di un’élite, i meccanismi della comicità
di Ovadia sono spesso sofisticati, la musica klezmer è totalmente
sconosciuta al grande pubblico. E non è scattato – per fortuna,
bisogna aggiungere – neanche lo scandalo di fronte a certe battute irriverenti
(si pensi per contrasto al patetico putiferio scatenato, solo pochi mesi
prima, dall’affermazione di Carmelo Bene a Macao: “Dio non esiste”).
Anche Oylem Goylem è il distillato di un lungo processo
di lavoro, il frutto di un’esperienza di ricerca che aveva finora toccato
in pratica solo il pubblico teatrale. Dedicare un’intera serata alla cultura
ebraica – in una forma non hollywoodiana – è stata una scelta di
cultura “politicamente coraggiosa”, che certo ha lasciato qualche traccia.
Per quanto riguarda l’impatto del passaggio televisivo sullo spettacolo
teatrale – che è un montaggio fluido di brevi testi e canzoni, soggetto
a continue mutazioni e inserimenti – non è stato probabilmente devastante:
solo una tappa in più in un lungo percorso.
Marco Baliani ha portato a Raidue (nel contenitore-ghetto di “Palcoscenico”,
e con un’ora di ritardo sull’orario programmato) quello che rappresenta
probabilmente il più rigoroso ed estremistico saggio di “teatro
di narrazione”, il Michele Kohlhaas di Heinrich von Kleist
raccontato dall’attore seduto in uno spazio vuoto. Anche in questo caso,
la versione dello spettacolo che hanno potuto apprezzare i telespettatori
è il punto d’arrivo di una ricerca durata anni, su un testo rappresentato
e modificato centinaia di volte in un continuo work in progress.
Si è trattato ovviamente di una differita, caratterizzata da un
montaggio raffinato, con post-produzione da videoclip. In apparenza questa
scelta – una sintassi cinematografica decisamente complessa, con evidenti
effetti a sottolineare e ritmare determinati passaggi – tradisce la purezza
di intenzioni della versione teatrale, che era costruita unicamente sulla
nuda e ascetica presenza dell’attore. D’altro canto in teatro il rapporto
attore-pubblico – anche in una cornice così rigida – è assai
fluido: lo spettatore ha sempre modo di costruire un suo montaggio, un
suo percorso d’attenzioni e distrazioni; la resa apparentemente più
“oggettiva” (camera fissa, nessun montaggio eccetera) in realtà
impone un punto di vista rigidissimo. Il montaggio serrato e gli effetti
di blocco immagine e di colorazione costruiscono certo un filtro per lo
spettatore, ma possono essere utili per ritrovare il ritmo e la suspense
che catturavano e guidavano il pubblico teatrale. Dal punto di vista del
linguaggio televisivo, il Kohlhaas è certamente uno dei prodotti
teatrali più “studiati” e meglio realizzati dalla Rai in questi
anni, anche se lo spettacolo dal vivo resta un’esperienza totalmente diversa.
Dario Fo – che di tutti i moderni entertainer italiani è
il prototipo – si era rivisto in televisione nei giorni del Nobel, quando
sono stati mandati in onda materiali di repertorio, sia vecchi spettacoli
sia le lezioni di teatro all’Università La Sapienza. Se il riconoscimento
dell’Accademia svedese aveva suscitato in molti letterati nostrani reazioni
stizzite (e beceramente provinciali), la replica del “blasfemo” Mistero
buffo
in televisione era stata accettata (finalmente!) senza polemiche.
Ma Fo – anche dopo il Nobel – resta sempre Fo, forza di provocazione compresa.
Non appena vinto il Nobel, ha subito iniziato una campagna per la liberazione
di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, culminata con la realizzazione di
uno spettacolo che fin dal titolo-sberleffo Marino libero! Marino è
innocente!
si ricollega al precedente illustre di Morte accidentale
di un anarchico
. Allestito in gran fretta, il monologo sul caso Calabresi
è stato trasmesso da Raidue in una differita che sembrava quasi
una diretta: registrato in un teatro dell’hinterland milanese, con il pubblico
in sala, e con un montaggio per blocchi e lunghi spezzoni. In pratica,
quella che è andata in onda è stata una sorta di “prova aperta”,
registrata nei giorni caldi in cui i giudici della Corte d’Appello decidevano
della richiesta di un nuovo processo da parte dei tre condannati per l’omicidio
Calabresi. Con un ridicolo eccesso di prudenza, ufficialmente per non influenzare
i giudici milanesi, lo spettacolo è stato mandato in onda quando
la sentenza – che peraltro negava il nuovo processo – era già stata
scritta, anche se non ancora resa pubblica; e per non turbare gli italiani
è stato relegato in seconda serata (inutile ricordare gli imputati
eccellenti che hanno goduto in tempi recenti di enormi spazi televisivi
dove difendersi con grande agio). Risultato: oltre un milione ottocentomila
spettatori (grosso modo le cifre dei due programmi di maggior successo
in onda in quel momento, Il Maurizio Costanzo Show e di Porta
a porta
) per uno spettacolo definito “infamante” (dall’onorevole Giovanardi,
Ccd) e “inqualificabile” (da An).
Marino libero! Marino è innocente! non è in senso
stretto un monologo, ma le altre presenze in scena, a cominciare da quella
della super-suggeritrice e spalla Franca Rame, hanno un ruolo di supporto
alla narrazione. Più che negli altri casi presi qui in esame, confluiscono
nello spettacolo di Fo varie forme teatrali (e non solo): entrano in scena
sagome (quelle di Sofri, Bompressi e Pietrostefani) e pupazzi (quello di
Marino), ci sono tabelloni da cantastorie e un plastico da scuola guida
con le automobiline, si usano il mimo e il grammelot. E si contaminano
anche forme spettacolari ben note ai telespettatori, come il procedural
alla Perry Mason, il telefilm poliziesco, le sensazionali ricostruzioni
in stile Telefono giallo e l’apparente obiettività dei documentari
scientifici.
Come nel caso di Vajont, con Fo il teatro è tornato sulle
prime pagine dei giornali (cosa che non era accaduta con Ovadia e ovviamente
con Baliani, e che nel corso di questi mesi è successa solo con
la morte di Strehler). L’impegno pubblico dell’ultimo premio Nobel su un
caso politico-giudiziario di questa importanza è già di per
sé una notizia, al di là del giudizio (sul piano artistico
e su quello della ricostruzione giudiziaria) sull’operazione. D’altro canto
la storia politica di Fo, percepita da molti come caratterizzazione ideologica
e partito preso, divide da sempre il pubblico in due schieramenti contrapposti
(di qui il ricorrente sospetto che l’attore rischi di parlare sempre ai
convertiti, tanto che alcuni dei suoi detrattori l’hanno paragonato a Fede).
Poco tempo dopo, e per la precisione sabato 9 maggio Marco Baliani è
tornato su Raidue per Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione
divisa
, un’altra operazione coraggiosa – ma non fino in fondo, perché
relegata dopo qualche incertezza in seconda serata (infatti sulla stampa
passerà quasi del tutto inosservata). Per l’occasione la Rai si
è fatta addirittura co-produttrice di un nuovo spettacolo teatrale
e l’ha presentato in anteprima, in grande anticipo rispetto al debutto
teatrale (ribaltando così una prassi consolidata, che vede nella
replica televisiva l’ultimo sfruttamento al termine di tutte le possibili
tournée). Ugualmente coraggiosa la scelta del tema, il caso Moro.
Oltretutto la storia di quelle drammatiche settimane non viene ricostruita
con la neutralità dello storico o l’ambigua autorevolezza del protagonista,
ma rivissuta da un punto di vista assai particolare, quello di un militante
dell’estrema sinistra ma certo non brigatista. La data della messa in onda,
in coincidenza quasi perfetta con il ventesimo anniversario del ritrovamento
del cadavere dell’uomo politico in via Caetani, non è stata ovviamente
casuale.
Baliani rivive la cronaca del sequestro di Moro da parte delle Brigate
Rosse e ripercorre e rimedita quelle che furono le sue reazioni, settimana
dopo settimana; attraverso una sedie di episodi – un’assemblea, la morte
di un amico durante una rapina, la richiesta d’aiuto di un latitante, una
visita in carcere – ricostruisce il contesto sociale, politico e generazionale
della propria esperienza. È un racconto in prima persona, che però
assume un valore di testimonianza collettiva: è il vissuto di coloro
che da allora tacquero, zittiti prima dalle armi delle Brigate Rosse e
da quelle dello Stato, e poi dal continuo fragore di ricostruzioni più
o meno scandalistiche, più o meno credibili da parte dei protagonisti
di quell’oscura vicenda. Teatro civile, nelle intenzioni dell’autore: e
dunque da celebrare nel centro della città, tra le rovine dei Fori
a Roma (non lontano da via Caetani), davanti a un gruppo di giovani spettatori,
seduti sugli scalini di antico marmo. E una regia televisiva “di servizio”,
senza invadenze, in grado di seguire e valorizzare l’attore nel suo monologo.
Quasi esattamente un anno dopo il successo del Vajont, il 10
settembre 1998 Marco Paolini è tornato a occupare la prima serata
su Raidue con il Milione, una sorta di visita guidata alla città
di Venezia così come la vede un “Campagna”, cioè un veneto
dell’entroterra. Per lo spettatore televisivo medio lo spettacolo è
certo più “difficile” del Vajont. Tanto per cominciare, manca
in questo caso l’impatto emotivo della tragedia “nazional-popolare”. In
secondo luogo, nel Milione il racconto non segue un unico filo narrativo,
ma procede per frammenti, aneddoti e divagazioni. L’attenzione del pubblico
viene costantemente reindirizzata e riaccesa. In compenso, questa volta
non si tratta di un nudo monologo. L’attore solista è in scena con
un gruppo musicale, i Maistral, che spaziando tra vari generi musicali
non si limita a offrire un semplice accompagnamento o sfondo, ma costituisce
quasi un deuteragonista: spesso sono proprio i Maistral a dare l’attacco
per un nuovo blocco narrativo.
Per quanto riguarda l’ambientazione, si è cercato di creare ancora
una suggestione forte, spettacolarizzando un altro luogo carico di memorie:
allora la celebre diga, questa volta l’Arsenale, fonte un tempo della potenza
veneziana e ora ambiente di potente carica evocativa. Particolarmente suggestiva
è la sistemazione del pubblico: la “platea” era il bacino che fronteggia
una delle grandi cavane dove un tempo venivano costruite le navi, occupata
dal palco galleggiante che ospitava Paolini e i musicisti. Gli spettatori
dovevano raggiungere il bacino per via d’acqua e assistere allo spettacolo
restando a bordo delle gondole e dei vaporetti, dei gozzi e della caorline
che li avevano condotti fin lì: e non è difficile immaginare
l’impatto che una macchina organizzativa e simobolica di questo genere
può aver avuto su Venezia.
La forte presenza di un gruppo musicale e lo scenario “pittoresco” hanno
probabilmente suggerito al regista televisivo Duccio Forzano (che nel suo
curriculum ha tra l’altro gli show di Renato Zero, Pino Daniele e, più
di recente, Claudio Baglioni) un ritmo molto rapido ai cambi d’inquadratura,
con un montaggio più attento all’aspetto musicale che a quello teatrale,
spezzato da frequentissimi stacchi sul pubblico e sull’ambiente. Purtroppo
il tempo del monologo e quello della regia televisiva hanno faticato più
del dovuto a trovare un accordo; ci sono stati diversi momenti imbarazzanti,
spesso quando al testo che descriveva un preciso gesto (la voga, o il santo
che schiaccia il serpente) non corrispondeva l’immagine dell’attore che
lo stava eseguendo, ma divaganti inquadrature di bandiere svolazzanti o
corde di chitarra. Un racconto già di per sé complesso finiva
così per diventare ancora più criptico.
Nell’insieme, come hanno fatto notare diversi critici televisivi, la
regia di Forzano era più adatta a un concerto rock che a un monologo
teatrale: ancora una volta, lo specifico teatrale ha faticato a trovare
la sua misura in video. Per approntare una trasmissione “che deve avere
successo”, in mancanza di un’autentica cultura e di un linguaggio efficace,
con tempi di prova troppo stretti e per di più con una troupe a
rapido turn over, la soluzione più facile resta quella di provare
a trasformare il teatro in qualche altra cosa, ricorrendo a stilemi più
frequentati. Ma i risultati in genere non sono all’altezza delle ambizioni.
Nonostante le sbavature (e tenendo conto che l’exploit di Vajont
resta con ogni probabilità irripetibile) dal punto di vista dei
dati d’ascolto il risultato del Milione è stato più
che lusinghiero, con oltre due milioni di telespettatori e uno share accettabile.
In questo specchietto sono riassunte alcune delle caratteristiche di
questi spettacoli: è evidente che sono state fatte scelte specifiche,
calibrate in base alle peculiarità dei singoli eventi teatrali,
e alla destinazione del programma nel palinsesto. (I dati relativi a durata,
audience e share sono stati forniti dalla Rai.) Val forse la pena di ricordare
che in questi casi lo share degli spettacoli teatrali tende a restare costante
nel corso della trasmissione: gli spettatori “agganciati” dalla trasmissione
la guardano cioè fino alla fine.

 

 

regia tv

location

pubblico
in video

montaggio

collocazione e data

durata

audience e
share

Marco  Paolini,
Il racconto del Vajont
Antonio Moretti con Marco Paolini In diretta dalla diga del Vajont Vero pubblico Minimo Prima serata
9 ottobre 1997
21.00-22.50 circa 3.515.000
(15,78 %)
Moni Ovadia,
Oylem Goylem (il mondo è scemo)
Giovanni Ribet Registrato in teatro Finto pubblico Maurizio Bonomi
Medio
Prima serata
28 gennaio 1998
21.03-22.47
(prima parte)
1.21-1.59
(seconda parte)
1.039.000 (3,9 %)
65.000 (4 %)
Marco Baliani

Michele Kohlhaas
Giovanni Ribet
(fotodipinti di Luca Del Balzo)
Registrato

in studio
Senza pubblico Michele Buri
Complesso, molta post-produzione
Seconda serata (“Palcoscenico”),
14 marzo 1998
23.45-24.45 n. d.
(ma circa 300.000)
(3,47 %)
Dario Fo,
Marino libero! Marino è innocente!
Tullia Ferrero Registrato in teatro Vero pubblico Diego Angeli
Minimo
Seconda serata
18 marzo 1998
23.00-24.15
(prima parte)
24.30-1.15
(seconda parte)
n.d.
(ma circa 1.800.000) (16 %)
n.d.
(16,09 %)
Marco Baliani,
Corpo di Stato.
Il delitto Moro: una generazione divisa
Eric Colombardo In diretta dai Fori a Roma Un gruppo di giovani studenti Di servizio Seconda serata
9 maggio 1998
23.30-00.30 1.100.000
(10%)
Marco Paolini,
Il Milione. Quaderno veneziano
Duccio Forzano In diretta
dall’Arsenale di Venezia
Vero pubblico
sistemato su barche
Da concerto rock Prima serata
1° settembre 1998
20.50-23.00 2.100.000
(10%)

 

 
Da quel 9 ottobre, Il racconto del Vajont viene portato a esempio
del fatto che quando si fa un programma serio, bello e intelligente, il
pubblico lo apprezza. Il problema è capire se si tratta di un evento
in qualche modo ripetibile, o se resterà un’eccezione.
Escluso che Paolini conduca il Tg3 (come, secondo un sondaggio, desidererebbe
il pubblico televisivo), si tratta di capire quale possa essere oggi il
rapporto tra teatro e televisione, nel difficile equilibrio tra la qualità
del prodotto e le caratteristiche dell’attuale programmazione. (Un discorso
completamente diverso andrebbe fatto per un’offerta che comprenda reti
tematiche. Così come andrebbe approfondita l’analisi sul teatro
in televisione come risorsa e sui suoi possibili canali di ulteriore diffusione:
vedi videocassette, vendite all’estero, repliche, cd-rom, documentazione
per centri di ricerca e università; un altro terreno di sperimentazione
e indagine è la produzione – o coproduzione – di trasmissioni televisive
e spettacoli teatrali che rovesci l’attuale iter produttivo, dove la televisione
è l’ultima tappa dello sfruttamento di un allestimento; qualche
anno fa la Rai aveva già coprodotto, per esempio, uno spettacolo
del Trio Marchesini-Solenghi-Lopez).
Con tutta evidenza il successo di audience di un programma non è
determinato solo dalla qualità del prodotto (dalla forza del testo
e dalla bravura dell’attore sul versante teatrale, dalla qualità
della regia e del montaggio su quello televisivo), ma anche da molti fattori
“esterni”. Dipende in misura determinante dal contesto. In una televisione
dominata dalla volgarità e dalla sguaiataggine, se abbandonato a
se stesso il prodotto di qualità si perde: se resta un fatto episodico
non riesce a catalizzare gli scontenti del banal-televisivo, e passa inosservato
agli altri.
Dunque il teatro può aspirare a raccogliere una grande audience
solo quando tutti i fattori “interni” raggiungono un equilibrio ottimale
e – in più – si crea un “evento” in grado di catturare l’attenzione
del grande pubblico. In caso contrario pare destinato a restare irrimediabilmente
un prodotto di nicchia (opposto è ovviamente il punto di vista del
teatro: la platea televisiva allarga certamente il pubblico teatrale, ma
spesso anche il pubblico che va a teatro). Ci sarebbe un’altra opzione:
creare una continuità, un’abitudine, con prodotti di alto livello
e di forte capacità d’attrazione. Ma da un lato nell’attuale televisione
italiana attuale non c’è spazio né tempo per una scelta del
genere; dall’altra è molto difficile costruire una “scorta” di programmi
sufficiente: un po’ perché gli spettacoli in grado di funzionare
anche in video non sono numerosi, un po’ perché mancano gli investimenti
e la continuità per sperimentare e mettere a punto un linguaggio
efficace (o meglio una serie di linguaggi, perché ogni trasposizione
deve trovare il suo). È quasi superfluo portare come esempio negativo
la programmazione di Palcoscenico, con le sue scelte di repertorio
per metà casuali per metà gastronomiche, senza alcuna ricerca
di linguaggio video, destinate purtroppo ad affondare nell’indifferenza
e a ribadire il luogo comune che il teatro, in televisione, non passa.
E invece, lo si è visto, il teatro in televisione può
passare. È una strada stretta, che non consente errori e comporta
il rischio di molte illusioni e delusioni, disseminata di false piste,
che richiede impegno e attenzione costanti. C’è chi non ama il teatro
in televisione perché ritiene che siano due mondi incompatibili,
con ritmi e respiri diversi. C’è chi lo odia perché ama di
un amore esclusivo il teatro e la verità della sua presenza. Gli
uni e gli altri avranno sempre ottimi motivi per ritenere che il teatro
in televisione sia solo un surrogato, una promessa non esaudita. Salvo
eccezioni che confermino la regola.

(Una prima versione di questo saggio è apparsa
nel catalogo della 13a edizione di “Riccione ttv”, Video
Festival
, 28-31 maggio 1998, Riccione. Un ringraziamento a Felice Cappa
per la pazienza con cui ha soddisfatto le mie richieste d’informazioni.)




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