#Casematte 3. Da Aversa a Roma

Il diario di viaggio del Periferico Tour negli ex manicomi italiani

Pubblicato il 27/10/2015 / di / ateatro n. 156

Case Matte, viaggio teatrale realizzato in otto ex ospedali psichiatrici, promosso da Teatro Periferico, tocca due nuove città: Aversa e Roma. Oltre agli spettacoli previsti (Mombello. Voci da dentro il manicomio di Teatro Periferico, la Passeggiata teatrale di Chille de la Balanza e Atlante della città fragile di Gigi Gherzi), concerti, mostre, visite teatralizzate, incontri pubblici.

La tappa aversana del progetto è stata quella che comportava le maggiori difficoltà e ha portato le più grandi soddisfazioni. Difficoltà per le condizioni in cui si è svolta, soddisfazioni per i risultati ottenuti. Aversa è stata Case Matte. Il suo manicomio, quasi completamente distrutto, è tenuto in vita da gente coraggiosa che si batte per il suo recupero. Lì, la memoria è cosa tangibile. Non sta scritta sui libri, la si ritrova nei campi dell’ex manicomio, coltivati dai lavoratori della fattoria sociale. Perché dentro la Maddalena c’è la cooperativa Fuori di Zucca, che ha affittato una parte del terreno per la coltivazione biologica, in quella che viene chiamata “terra dei fuochi”. Per generare inclusione, percorsi riabilitativi e sostenere l’inserimento lavorativo di persone a rischio di marginalità. E nei locali della fattoria, appese ai muri, le facce di coloro che hanno storie difficili da raccontare. La storia di Federico, per esempio, che sapeva suonare le foglie. Un uomo che prima ha vissuto l’orrore dei campi di concentramento e poi è stato internato alla Maddalena. Una storia finita bene, perché Federico alla fine ha trovato casa nella cooperativa Al di la dei sogni riconquistando, seppur tardi, un po’ di pace. O la storia di Anna, di cui ci parla Antonio Esposito dell’Università di Napoli, a cui venne fatta una diagnosi di schizofrenia a soli cinque anni e a cui vennero praticati venti coma insulinici. Antonio ribadisce che la storia dei manicomi è fatta dalle storie delle persone che ci hanno vissuto, storie che non si esauriscono nelle cartelle cliniche, anche se proprio da quelle cartelle partono. Ecco perché è importante salvarle. È anche un modo di restituire dignità alle persone.
E di cartelle cliniche ad Aversa ce ne sono parecchie. Non si è riusciti a recuperare quelle degli inizi dell’Ottocento, ma ne sono state salvate un centinaio della fine del secolo e più di 30.000 del Novecento. Tutte impolverate. Accatastate. Stipate. In un caseggiato umido, che avrebbe bisogno di ristrutturazione. Però lì le vediamo. Ci sono. Per la prima volta pensiamo che esistano davvero. Tra l’altro, per merito dell’associazione Le Reali case dei matti, presieduta dallo psichiatra Nicola Cunto, quelle fino 1977 sono state digitalizzate. Nicola ci accoglie, ci mostra lo stato di degrado nel quale vengono conservate, ci fa vedere un plastico di una possibile ristrutturazione del complesso ex manicomiale , realizzato da studenti universitari di Aversa. Aversa città dell’utopia. Speriamo che possa essere almeno salvato il caseggiato centrale.

Aversa. L'archivio

Aversa. L’archivio dell’ex Ospedale Psichiatrico

Di storie si parla anche nell’incontro con Gigi Gherzi, che si tiene alla fattoria. Storie di persone fragili, come lui le definisce, riconosciute in certi casi come portatrici di un disturbo psichico, in altri casi assolutamente inserite nella vita cosiddetta normale. Si racconta la città di oggi, con le vite esposte, con racconti spezzettati, frammentari. A come Alberi, B come Banchi, C come Cancelli, e poi via, fino alla Z di Zavorra. Ogni spettatore alla fine ha in mano una sola scheda, una sola parola, un breve testo tratto dal romanzo, che racconta l’esperienza di quell’albero, banco, cancello. Gigi tesse un gioco interattivo, un filo di pensieri, che collega le emozioni raccolte attraverso la scrittura degli spettatori, tappa dopo tappa, facendo interagire le parole del pubblico di Mombello, prima tappa del tour teatrale, con quelle di tutti i pubblici successivi.
La fattoria fa da cornice ad un’altra storia. Questa volta raccontata non con le parole, ma con la musica. E’ la storia di di Bianca D’Aponte, cantautrice aversana, morta prematuramente. Bianca aveva collaborato con Claudio Misculin dell’Accademia della Follia di Trieste e Germano Carotenuto, sensibile giornalista dell’Osservatorio Cittadino, cura la preparazione del concerto che le viene dedicato. Tre cantautrici si alternano sul palco con i musicisti. Voci meravigliose nel buio dell’ex parco manicomiale.

E poi la storia di Luigina Brovelli, che all’inizio del Novecento fu ricoverata ad Aversa, nella Sezione Criminale Femminile. Luigina tenne un diario in terzine rimate, il Librettino, nel quale raccontò i suoi 975 giorni di internamento. La storia ci viene narrata dalla compagnia Caravan Teatro di Francesca Iovine e Giovanni del Prete, nella bella messa in scena Luigina la maestrina. Lo spettacolo viene presentato nell’ex falegnameria del manicomio, oggi occupata e ridenominata Iskra – La scintilla (dal nome di un giornale clandestino russo del 1900). Lo spettacolo è a luce di candela, perché quella elettrica è saltata. Si cerca più volte di riattivarla, con il pubblico che pazientemente attende quasi per un’ora. D’altra parte piove da tre giorni. Tre giorni di pioggia battente. I padiglioni, già di per sé umidi, con infiltrazioni ovunque, sotto quell’acqua appaiono ancora più fatiscenti. E poi i cani liberi nei viali e l’assenza totale di lampioni…
Ma perché si lascia morire il più antico manicomio italiano, che conserva tra l’altro libri antichissimi e che custodisce, al suo interno, il meraviglioso chiostro di San Bernardino? Ne parla Claudio Ascoli nella sua Passeggiata, che vede la partecipazione di più di cento persone. La passeggiata parte dal padiglione Bianchi, che il comune di Aversa ha acquistato anni fa dalla Asl, per due milioni di euro. Lo stabile si dice fosse in buone condizioni, ma poi venne lasciato morire. Oggi, al di là del cancello, si intravedono vecchie roulotte sfondate, abitate da clandestini e da gente disperata alla ricerca di un posto per dormire. Perché? Perchè si sta aspettando che tutto crolli? Perché non sono stati favoriti progetti importanti (che pure in questi anni sono stati presentati) e che avrebbero permesso una riqualificazione del luogo? Forse sono queste risposte mancate ad aver spinto alcuni giovani ad occupare l’ex falegnameria, per ricostruire e dare nuova vita a spazi che altrimenti sarebbero destinati a sparire. Di fatto alla Passeggiata (almeno così ci dicono) partecipano anche alcuni camorristi. Noi al momento non ce ne accorgiamo. Che faccia ha la Camorra?

Aversa. Il Padiglione Bianchi

Aversa. Il Padiglione Bianchi

Il “luogo” ad Aversa è importante. Perché il luogo c’è anche se non c’è. E condiziona quello che accade nei tre giorni. La battaglia per salvarlo infittisce le relazioni tra i gruppi che ci lavorano, perché nulla unisce come il fare. E condiziona anche lo spettacolo. Mombello è pensato per un corridoio e qui il corridoio non c’è, o meglio, c’è, ma non si può usare, perché è inagibile. Allora usiamo il porticato del caseggiato centrale. È sempre così. Lo spettacolo ogni volta deve essere adattato allo spazio. Chiudiamo gli archi con teli neri, anche se il vento continua a portarceli via. C’è un grande portone. E finestre, molto alte. Gli attori questa volta non recitano dietro le porte, ma dietro quelle finestre: “…E c’erano sempre degli uomini attaccati a quelle inferriate, costantemente in pigiama, che chiedevano una sigaretta piuttosto che il saluto”. Questo recitava la radio a Mombello. Il corridoio resta buio, gli infermieri scompaiono, è illuminato invece l’interno dell’edificio e i pazienti si vedono sin dall’inizio. La pioggia aumenta. Alla regia siamo con gli ombrelli. Gli attori devono alzare la voce. Lo spettacolo acquista potenza. La pioggia è proprio lì dietro alle spalle del pubblico. Pubblico che all’inizio fa fatica, perché le condizioni sono difficili. Molti sono venuti per assistere a quello che considerano l’evento cittadino dell’anno, con entusiasmo, e poi si trovano seduti a terra, su stoffe umide con l’odore di piscio negli angoli. Ma al termine dello spettacolo, il pubblico si alza in piedi, applaude. Tanto. È un abbraccio che ci scalda.
Andiamo a dormire molto tardi, ma comunque prima del previsto. Al centro sociale, si sforna ancora pastasciutta. Mentre dormiamo qualcuno si aggira intorno al camper, tuttavia dopo qualche minuto sentiamo il motore di una macchina ripartire. Tutto tranquillo. Quello che non viene risparmiato invece è il Museo del nulla, installazione realizzata in alcuni padiglioni dall’associazione Don Chisciotte.
E’ difficile lasciare Aversa. Temporeggiamo. Ma bisogna andare. Fare teatro in questo momento per noi significa girare, incontrare le persone, ascoltare i punti di vista, individuare le domande giuste, mescolare le nostre e le altrui esperienze, relazionarsi ai luoghi e ai loro desideri, incontrare spettatori. Mombello è nato partendo dalle storie raccolte dai cittadini, è stato visto, sostenuto e alla fine distribuito con l’aiuto del pubblico. Pubblico comune. Magari toccato dal tema. Giovani. Studenti, fotografi, reporter, volontari, artisti….

Roma. Il Camper a Santa Maria della Pietà

Roma. Il Camper a Santa Maria della Pietà

La tappa di Roma, prevede una sola giornata con tre spettacoli: la Visita teatralizzata al parco di Santa Maria delle Pietà di Alessandro Rubinetti (Teatro Reale), Atlante della città fragile e il nostro Mombello. Voci da dentro, oltre alla visita al Museo della Mente. A diffenza di Aversa, qui la ASL organizza moltissime iniziative. Case Matte è una di queste.
E’ tornato il sole, ma la pioggia non sarebbe un problema perchè siamo al coperto. Utilizziamo il corridoio dove è collocata la nuova installazione di Studio Azzurro. Le persone che lavorano lì ci danno una mano. Sono gentili e pazienti. Spostano con noi i mobili del corridoio, liberano le scrivanie. Rosicchiamo loro spazi di lavoro. Poi andiamo a recuperare le sedie nei sotterranei e incrociamo per la seconda volta le cartelle cliniche. Queste sono tutte ordinate e ben conservate. Ma innaccessibili. Come tutte le cartelle cliniche.
Sono previste due repliche dello spettacolo. Per fortuna. Perchè nella prima gli attori si trascinano la potenza usata ad Aversa e ci vuole una seconda replica perchè riescano ad adattarsi al luogo. Il corridoio è molto stretto con gli spettatori vicinissimi ed è particolarmente lungo: cinquanta metri. I personaggi ci spariscono dentro, inghiottiti dal buio. Il buio è un elemento caratterizzante dello spettacolo, che inizia con le voci degli infermieri che arrivano da lontano, come dei Virgilio in camice bianco per accompagnare gli spettatori nell’inferno che piano piano aprirà le sue porte. Il buio persiste dentro alle stanze dove ci sono i pazienti che solo alla fine del primo tempo usciranno alla vista del pubblico. Aprire, chiudere. Dentro, fuori. Buio, luce.
Nello stesso corridoio sono esposti alcuni pannelli che riportano pagine di una pubblicazione sull’olocausto delle persone disabili: In memoriam. Tra il 1939 e il 1945 furono circa 180.000 i pazienti psichiatrici ai quali fu data una “pietosa morte”. Anche bambini. 5.000. Ai bambini veniva somministrato il Luminal in pillole o mischiato al cibo. Perdevano conoscenza e morivano nell’arco di tre o cinque giorni. Altre volte si usavano iniezioni di Morfina-Scopolamina. Leggiamo la storia di Lossa Ernest. Era un ragazzo considerato antisociale. Rubava. Di lui si diceva che fosse infido, che avesse pensieri sporchi, che sgusciasse, che non fosse capace di concentrarsi e assolvere ai suoi doveri, una palla al piede insomma. Venne assassinato una notte del 1944.

Lui stesso era aveva intuito che presto sarebbe morto… Nel pomeriggio dell’8 agosto 1944 lui mi dette una sua fotografia dove era scritto “in memoria” . Gli chiesi il perchè e lui mi disse che credeva che non avrebbe vissuto più molto a lungoQuando presto al mattino, quel 9 agosto entrai nella camera, vidi che Lossa non era nel suo letto… Lo trovai nella corsia dei bambini, rimasi scioccato quando lo guardai. La sua faccia era paonazza, avava la bava alla bocca, intorno al collo e alla bocca sembrava come impolverato e respirava con grande difficoltà. Quando gli parlai egli non reagì in alcun modo e nel corso della giornatra morì senza aver ripreso conoscenza. Nel colletto della sua camicia trovai due pillole senza alcuna iscrizione, mentre sotto il suo letto c’era un flaconcino vuoto. Sul collo del morto c’era una macchia rosso-bluastra più o meno della grandezza di un pugno. Poichè il corpo non presentava alcun colpo mortale quella macchia doveva avere un’altra causa. Lossa era un ragazzo grande, forte e sano e, a mio avviso, non avrebbe potuto essere ucciso se non con l’uso della forza .”(B.S.)

Ci sono anche le storie della morte per fame, causata dall’imposizione di una dieta priva di grassi che provocava la morte nel giro di tre mesi. E gli esperimenti condotti sui bambini, ai quali venivano somministrati vaccini sperimentali.
Ci sono le foto, le lettere delle madri. Non sappiamo cosa dire. Ci viene in mente il racconto di Giovanna Del Giudice, all’Aquila, quando ci parlò di un ragazzo autistico legato al letto da uno psichiatra, che riteneva la contenzione l’unica forma per contrastare il suo attaccamento alla madre. Il fatto è accaduto in tempi recenti, in una città culturalmente avanzata del nord italia. Il rispetto per le persone, la vicinanza, il sentimento empatico, tutti “nel cesso insieme alle scarpe, insieme alle scarpe”, come urla un’attrice in Mombello.
Poi vediamo il Museo della Mente e la leggerezza di Studio Azzuro che ci fa tirare il respiro.
E’ un museo atipico, dove non troviamo oggetti morti depositari di una memoria. Qui la memoria si fa viva e stimola il visitatore a una fruizione attiva. Le installazioni artistiche (visive, sonore, olografiche) permettono al visitatore di fare l’esperienza della condizione del folle: le voci nella testa, le allucinazioni, i movimenti ossessivi del corpo, in un percorso dove viene annullata la differenza tra il malato e il sano di mente.
La sezione del Museo più recente, che già Pompeo Martelli ci aveva mostrato, è quella dedicata ai Portatori di storie. Un pannello lungo quanto un corridoio, nel quale camminano ologrammi umani a grandezza naturale. Si avvicinano. Si allontanano. Sostano qualche secondo poi riprendono a passeggiare e scompaiono. Il visitatore può scegliere di avvicinare uno di questi testimoni (sono decine), allungare la mano, toccarlo e accompagnarlo nella stanza attigua. Il visitatore si ritroverà faccia a faccia con lui e potrà ascoltare la sua storia. L’idea sottesa è che bisogna entrare in contatto con la persona se si vuole ascoltare.

Il Museo Laboratorio della Mente

Il Museo Laboratorio della Mente

Ripartiamo dopo un lungo smontaggio verso Volterra. Ci attende Oreste Nannetti. Ci sono domande che ci frullano in testa. Ma abbiamo bisogno di altro tempo per poterle formulare. Forse là le domande si faranno più chiare.

Spettatori ad oggi 1359
Totale chilometri percorsi 1550




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