#DuettoCritico2015 | Mount Olympus: tragedia e catarsi secondo Jan Fabre

24 ore per perdersi nel dionisiaco

Pubblicato il 18/01/2016 / di and / ateatro n. 157 , Duetto Critico
Jan Fabre, Mount Olympus (c_George Papadopoulos for LIFO)

Jan Fabre, Mount Olympus (c_George Papadopoulos for LIFO)

#DuettoCritico2015 è il frutto di conversazioni dopoteatro. Sguardi incrociati, a volte paralleli a volte divergenti, hanno acceso discussioni intorno ad alcuni spettacoli del 2015, significativi perché suggeriscono qualche riflessione sul teatro e sulla sua evoluzione.

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#staytuned

Morte e resurrezione della tragedia
E’ stato George Steiner, in un suo celebre saggio, a parlare di “morte della tragedia”, a partire dall’evoluzione della drammaturgia dopo Shakespeare e Racine. Negli ultimi decenni diversi uomini di teatro hanno cercato di recuperare la forza originaria della tragedia nei loro spettacoli, spesso a partire dall’Orestea di Eschilo, l’unica trilogia antica che ci sia pervenuta integra.
Andrei Serban l’ha allestita nella lingua originale, il greco antico, resuscitando la sua misteriosa musicalità. Luca Ronconi ha provato a reinventare “il rito perduto”. Ariane Mnouchkine, in Les Atrides, ha contaminato Eschilo con la colorata energia spettacolare delle tradizioni orientali. Peter Stein si è concentrato sull’aspetto politico, ovvero il passaggio dalla legge del sangue e della vendetta alla nascita dei tribunali e alla democrazia. Romeo Castellucci, con la Tragedia Endogonidia, è risalito alla comunicazione pre-verbale, dove immagini, eventi e gesti possono ritrovare la forza perturbante degli archetipi.
Tutti questi tentativi sono frutto del paradosso che sottende l’esperienza teatrale del Novecento. C’è la necessità di tornare all’origine, a una potenza che abbiano perduto ma che è alla base della nostra cultura. Tuttavia questi registi sono assolutamente inseriti nel nostro tempo e nelle sue contraddizioni. Mount Olympus – To Glorify the Cult of Tragedy rientra in questa tradizione: un ritorno all’origine, in serrata dialettica con il presente.

Maratone teatrali
Mount Olympus, “A 24 h performance” come esplicita il sottotitolo, si inserisce in un filone di eventi spettacolari eccezionali, che strappano lo spettatore dal tempo quotidiano e lo risucchiano in un’altra dimensione proprio per la loro durata. Notevole anche lo sforzo produttivo per creare l’evento: ogni replica impegna 27 danzatori e 35 tecnici. Dopo il debutto a Berlino il 27 giugno 2015, lo spettacolo è stato ospite nella 30a edizione di Romaeuropa Festival al Teatro Argentina il 17 ottobre 2015.

Jan Fabre, Mount Olympus (c_George Papadopoulos for LIFO)

(c_George Papadopoulos for LIFO)

Jan Fabre – sulla scia di suoi precedenti lavori, come le otto ore di This is Theatre Like it was to be Expected and Foreseen (Questo è teatro come ce lo si doveva aspettare e prevedere, 1982), o come The Power of Theatrical Madness (Il potere della follia teatrale, 1984), che durava quasi cinque ore – riconduce consapevolmente questa scelta al ciclo delle Grandi Dionisie, che si celebravano annualmente ad Atene: “Mi è sembrata una scelta normale una durata così estrema. I riti del teatro greco duravano tre giorni e tre notti e l’intera società veniva integrata in quell’esperienza. Qui succederà qualcosa di simile” (Anna Bandettini, Jan Fabre, un’opera lunga un giorno: tragedia greca H24, in “la Repubblica”, 6 luglio 2015).
Già l’aspettativa per una durata di questo genere impone un diverso atteggiamento. Non è possibile mantenere costante l’attenzione per un tempo così lungo, ma nell’era dei social networks questo distacco dal flusso comunicativo assume un significato politico: «Catarsi è condividere realmente con il pubblico uno spazio, assistere insieme al sorgere del sole e all’affievolirsi della luce al tramonto. Abituati come siamo alle connessioni veloci sui social network, l’esperienza risulta davvero spiazzante» (Laura Martellini, Jan Fabre con «Mount Olympus»: «Il mio sogno sovversivo», in “Corriere della Sera”, 15 ottobre 2015).
La durata dello spettacolo impone di lasciare spazio al tempo del sonno – o del sogno. Il flusso dello spettacolo è almeno in apparenza sospeso da tre intervalli (Dream Time), durante i quali i performer si riposano in scena, avvolti in bianchi sacchi a pelo: «La tragedia greca è fortemente legata alla dimensione del sogno. Vi abbondano le premonizioni, gli oracoli… Lo stato d’insonnia, che ci accomunerà da un certo punto in poi, aiuterà a recuperare quel legame profondo. […] Così ci si libera della maschera intellettuale e delle trappole del teatro tradizionale. Pubblico, e attori insieme» (Laura Martellini, Jan Fabre con «Mount Olympus»: «Il mio sogno sovversivo», in “Corriere della Sera”, 15 ottobre 2015).

Jan Fabre, Mount Olympus (Dream Time)

Dream Time

Durante il Dream Time lo spettatore è invitato a condividere il sonno, o il dormiveglia onirico, degli attori, oppure può continuare a seguire il flusso dello spettacolo. Per chi vuole “staccare” nel foyer del teatro sono invece predisposte brandine e sdraio (così come in quinta per gli interpreti). Nell’antica Grecia, al tempio di Asclepio a Epidauro, erano predisposti spazi comuni per il riposo: i sogni della notte venivano interpretati per diagnosi e terapie.
Il risveglio è all’inizio quasi impercettibile, con i corpi sospinti dal battito ritmico del tamburo che poi li costringe a movimenti pulsanti, e poi li fa danzare alla melodia ipnotica del flauto, quella che porta alla follia.

Una summa spettacolare

Jan Fabre, Mount Olympus

Jan Fabre, Mount Olympus

C’è in Fabre la consapevolezza che questo mega-spettacolo sia in qualche modo la summa del suo lavoro fino a oggi, come dimostra l’antologia di immagini con i primi piani dei performer dei precedenti lavori che viene proiettata su un grande schermo durante lo spettacolo: “Di solito a teatro si fanno sei, sette settimane di prove e poi si va in scena. A questo progetto io ci lavoro da sei anni. Prima sul testo, poi con gli attori che hanno letto tutte le tragedie e poi Platone, Aristotele… Abbiamo parlato con filosofi, scrittori, incontrato scienziati, abbiamo fatto improvvisazioni, ricerche, studi e da un anno stiamo provando. Dodici ore al giorno. Tutti i giorni” (Anna Bandettini, Jan Fabre, un’opera lunga un giorno: tragedia greca H24, in “la Repubblica”, 6 luglio 2015). Mount Olympus è anche una antologia dei miti, dei simboli, delle figure retoriche che l’artista fiammingo ha esplorato in decenni di lavoro.

Jan Fabre, Mount Olympus (Fedra)

Jan Fabre, Mount Olympus (Fedra)

Mount Olympus è diviso in 15 capitoli, che tuttavia sono inseriti in un flusso ininterrotto. Dopo il prologo, diversi capitoli sono dedicati agli eroi tragici, in particolare Eteocle, Ecuba e Odisseo, Edipo, le Baccanti di Dioniso, Fedra, Ippolito e Alcesti, Ercole, Agamennone, Elettra e Oresta, Medea, Antigone, Aiace. Ciascuna di queste scene condensa il significato della tragedia in gesti e immagini emblematici.

Il corpo della parola
Nella Tragedia Endogonidia Romeo Castellucci esplorava il momento in cui il tragico – o meglio la potenza numinosa del mito – non si è ancora fatto parola. Jan Fabre, nel suo viaggio all’origine della tragedia, si concentra su un passaggio successivo, quando il dionisiaco inizia a condensarsi nella parola. La decisione di sacrificare Ifigenia viene condensata in un’unica azione. Al centro della scena, immobile nella sua corazza, sta Agamennone. Intorno a lui ruotano in una danza incessante lungo un’ampia circonferenza, per circa 40 minuti, Clitemnestra e Ifigenia, che alla fine crollano a terra: dopo il tempo dell’incertezza, arrivano la decisione e il sacrificio, che Clitemnestra traduce in parola.
Fabre coglie un aspetto fondamentale del tragico. Per lui il dionisiaco in tutte le sue manifestazioni è una condizione connaturata dell’essere umano, ma quando emerge esplodono violenza e follia, distruttività e autodistruttività. Nel dionisiaco si annida quello che ci rende animali, c’è il nostro desiderio, c’è la pulsione sessuale in tutte le sue forme, c’è il bisogno di uscire da noi stessi, di perderci nella natura, nel gruppo, nell’Altro…
Una delle direttrici dello spettacolo è la ricerca dell’estasi, tenendo presente che esistono diversi livelli e diverse forme di estasi. Nel dionisiaco c’è quello che ci rende umani e ci toglie l’umanità, quello che ci ha dato la vita e quello che dà la morte, quello che ci può condurre all’errore che ci perde ma che al tempo stesso ci rende unici, irripetibili.

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Jan Fabre, Mount Olympus

Questo è il senso più profondo del messaggio di Jan Fabre: il dionisiaco fa parte di noi, della nostra essenza di esseri umani, le regole e le convenzioni della società lo soffocano, e dobbiamo farlo emergere, o riemergere. Quando esplode con la sua potenza sovversiva, irriducibile a qualunque ordine sociale, porta inevitabilmente alla catastrofe. In questo consiste la tragedia: è il necessario spazio-tempo in cui può emergere il dionisiaco, prima dell’inevitabile ritorno all’ordine, con il sacrificio rituale della vittima.
Quello che sembra inseguire Fabre è il momento il cui il corpo diventa parola: in questo senso, sono particolarmente significative alcune sequenze in cui il godimento diventa respiro e voce. Le Baccanti, che occupano la scena in coro indossando leggere tuniche bianche e adornate di grappoli d’uva, si impegnano in una ironica gara di orgasmi. In una lunga ed emblematica sequenza – 35 minuti – la profetessa Cassandra, sola in scena, in piedi, simula (o raggiunge), senza nemmeno toccarsi, un orgasmo solitario. I suoi gemiti cantano un piacere che si ribalta in dolore. Non sono gli unici casi in cui l’eccitazione sessuale si trasforma in suono e dunque – almeno potenzialmente – in linguaggio. E’ il momento il cui il corpo – la carne – diventa logos, parola.

La scena rituale

Jan Fabre, Mount Olympus

Jan Fabre, Mount Olympus

Il palcoscenico è uno spazio vuoto, in cui quando necessario entrano dai due lati alcuni tavoli-altari.
La prima immagine, a dare la chiave di lettura dell’intero viaggio, è l’erezione esibita al centro della scena da un attore.
Diverse azioni rituali, nel corso dello spettacolo, portano in scena la carne: uno spreco sacrificale di brandelli sanguinolenti, che diventano il motore e il fulcro simbolico di orgiastiche danze collettive. E man mano che le ore procedono, l’odore della carne che frolla si fa via via più forte, inebriante e disgustoso. C’è anche ampio uso di liquidi organici e commestibili, spesso spalmati sui corpi dei performer in gesti dagli evidenti sottintesi sessuali: un segno forte di molte performance precedenti di Fabre.
Travolto da queste sensazioni visive, sonore, e olfattive, contagiato dal ritmo, lo spettatore viene risucchiato e diventa partecipe del rito.

Il potere della ripetizione
Da decenni Fabre usa la tecnica della ripetizione del gesto fino all’esasperazione. Il potere della follia teatrale, lo spettacolo che lo ha lanciato sulla scena internazionale, era in gran parte costruito sulla reiterazione. Anche Mount Olympus “è stato costruito pensando allo stato fisico e mentale dei performer e del pubblico nel corso delle ventiquattr’ore. Ho giocato sul tempo, la ripetizione, la lentezza, la dilatazione, seguendo come cambia l’identità fisiologica, come cambia il modo di recitare da svegli o sulla soglia tra la veglia e il sonno, su come si altera la percezione dello spettatore nello scorrere delle ore” (Anna Bandettini, Jan Fabre, un’opera lunga un giorno: tragedia greca H24, in “la Repubblica”, 6 luglio 2015).

Jan Fabre, Mount Olympus

Jan Fabre, Mount Olympus

La ripetizione esasperata crea un effetto di verità. In primo luogo, è vera la fatica del performer che deve eseguire decine e decine di volte lo stesso gesto, spesso violento e a volte doloroso. Se un performer deve pronunciare una frase dopo aver corso per venti minuti, nel suo respiro affannoso, nella sua voce, emergeranno senz’altro la sua stanchezza e la sua disperazione. Ma cosa succede quando si arriva oltre la stanchezza, oltre il limite della sopportazione? Entriamo in una zona di verità fisiologica e psicologica. Un gioco innocente come il salto con la corda assume un altro significato se al posto della corda – come accade nel brano dedicato a Eteocle – ci sono pesanti catene d’acciaio.
C’è poi il lavoro dello spettatore. Un’azione, vista per la prima volta, può essere più o meno interessante. Vista per la quinta o per la decima volta diventa noiosa. Vista per la centesima volta – dopo che lo spettatore ha attraversato diversi stati e livelli d’attenzione – assume una diversa profondità e una molteplicità di significati. La ripetizione può avere un effetto ipnotico (come sanno gli sciamani e i compositori di musica minimalista: Fabre ha una lunga collaborazione con Wim Mertens), conducendo a una sorta di trance sia chi la pratica in prima persona sia chi la testimonia.

Jan Fabre, Mount Olympus (c_George Papadopoulos for LIFO)

Jan Fabre, Mount Olympus (c_George Papadopoulos for LIFO)

La reazione degli spettatori dimostra l’efficacia del procedimento. Non è un caso che in diverse occasioni, di fronte all’esasperazione atletica di una scena (come quella del salto delle catene, al ritmo di marce militari, che si protrae per 40 minuti, o la giostra di Clitemnestra e Ifigenia attorno ad Agamennone), dopo aver assistito a lungo alla ripetizione ossessiva della stessa azione, il pubblico esploda nell’ applauso. E’ un incitamento agli attori-atleti impegnati in un’impresa al limite delle possibilità fisiche e psichiche, ma è anche il sintomo di una esasperazione, il desiderio che quella sofferenza abbia termine. Sono applausi insieme sofferti e liberatori.
Fabre è stato spesso accusato di comportamenti violenti nei confronti degli attori e del pubblico (e a volte anche di animali). Nella pratica della ripetizione si riflette forse una pulsione sadica nei confronti dei suoi attori, ma contemporaneamente viene smascherato anche il voyeurismo sadico dello spettatore, insieme attratto e respinto dall’irruzione del perturbante. Molte scene sono sottese da un rituale sado-masochistico. Emblema della coazione a ripetere è il guerriero Aiace, che continua a sgozzare le sue vittime in un gioco senza senso.
La ripetizione è la modalità in cui si esprime la perversione. La catarsi può nascere dallo svuotamento del meccanismo perverso attraverso l’esasperazione della ripetizione.

Il coro e i protagonisti
Lo spettacolo si muove su due piani.

Jan Fabre, Mount Olympus

Jan Fabre, Mount Olympus

Da un lato i momenti collettivi, la danza orgiastica e liberatoria in cui le singole individualità di annullano nell’estasi collettiva. Queste eruzioni hanno un andamento a parabola, crescono piano piano fino a una specie di orgasmo collettivo, e poi calano, o crollano. In quei momenti, si crea una comunità primitiva, in simpatetica risonanza.
Il vero protagonista dello spettacolo è il travolgente Dioniso di Andrew van Ostade (l’unica divinità di questo Olimpo), con il doppio ruolo di ispiratore delle danze collettive ma anche in dialogo con il pubblico in alcuni momenti chiave: è lui che alla fine annuncia “This is the End”.
Sull’altro piano, ci sono le parabole dei singoli eroi tragici, in una sistematica esplorazione del repertorio classico. Ogni volta Jan Fabre isola il protagonista (o i protagonisti) e ne condensa l’evoluzione in una immagine o in un gesto emblematico.

Jan Fabre, Mount Olympus

Jan Fabre, Mount Olympus

Le Parche tessono il filo della vita e della morte dalle loro vagine. Eracle si sottopone a un triplice fist fucking.
Il contrasto tra Creonte e Antigone vede i due antagonisti in precario equilibrio sui bordi opposti del tavolo, sospesi all’indietro e trattenuti solo dalla catena che li unisce: la catastrofe tragica non potrà che far cadere entrambi.
Gli eroi di Mount Olympus sono esseri umani che vengono travolti e posseduti dal loro demone, dalla loro passione (o perversione) ossessiva, e per questo vanno incontro a un destino di tragica autodistruzione.

Jan Fabre, Mount Olympus (il fantasma di Dario) (George Papadopoulos for LIFO)

Jan Fabre, Mount Olympus (il fantasma di Dario) (George Papadopoulos for LIFO)

Quando il demone dionisiaco si impossessa di un individuo, lo conduce a un baratro tragico, che si concretizza e viene simboleggiato da un’azione emblematica, spesso genialmente sintetica. Al termine del climax – la ripetizione ossessiva fino allo sfinimento e al crollo, e mai all’orgasmo liberatorio – ci può essere solo la catastrofe.
E’ questo per Fabre il senso profondo del tragico, se applicato ai destini individuali.

Dei e uomini
Gli dei sono altrove, irraggiungibili. E’ presente la natura con il suo mistero, strettamente legata alla potenza del la sessualità.
Alcune tra le scene più emozionanti vedono il coro invadere la scena con un piccolo bosco di piantine in minuscoli vasi: gli attori iniziano un dialogo, o meglio una danza, con quegli alberelli, che sono insieme simboli della natura generatrice e simboli fallici: nel dionisiaco c’è anche questa simbiosi erotico-sessuale con la natura.
Da questo universo il divino – con l’eccezione di Dioniso – resta escluso.

Jan Fabre, Mount Olympus

Jan Fabre, Mount Olympus

Nel pieno della notte, entra in scena un coro con gli attori che portano enormi maschere tragiche di gesso bianco, che gridano agli dei: “Noi siamo esseri umani, voi siete dei, noi siamo umani, voi siete eterni, non sapete cosa sia il tempo, ci riproduciamo attraverso il nostro seme quindi noi sappiamo cos’è il tempo”. E’ una scena di grande potenza e intelligenza: attraverso la tragedia gli esseri umani dicono agli dei, che conoscono solo l’eterno presente, “Noi, nella nostra finitezza, siamo migliori di voi”.
Poi le maschere vengono frantumate, distrutte. Per dire queste cose agli dei abbiamo bisogno di una maschera, abbiamo bisogno della tragedia. E’ una rivendicazione del potere del limite, ovvero quello che noi siamo, rispetto all’infinità del trascendente. Ma noi restiamo soli con la nostra umanità. E forse abbiamo dimenticato quel terribile dialogo con il divino, sprofondati nella nostra finitezza.
In una scena di poco precedente, nel cuore della notte, quando le percezioni sono alterate e incerte, in una rivelazione che sembra rubata agli antichi misteri, la maschera assume un altro valore: viene infatti dipinta sulla vagina di alcune attrici, che diventano volti.
E’ dunque presente, incombente, pervasivo, il numinoso, il perturbante. La provocazione – in genere legata ai tabù del corpo e del sesso – è un ingrediente necessario, un carburante indispensabile per generare scandalo e piacere, disgusto ed eccitazione.

Il finale
Mount Olympus si conclude con una sequenza di finali e sottofinali.
In quello che è forse il primo sottofinale, entrano in scena le figure femminili che abbiamo conosciuto nel corso dello spettacolo, a sintetizzare e ricapitolare il loro destino: a sottolineare che al centro del tragico – di questa visione del tragico – c’è il femminile. I meccanismi della violenza e del potere tendono a schiacciare più le donne degli uomini: questa scena ricorda che il destino tragico delle donne è politicamente più significativo. Lo stupro fisico e psichico subito dalle donne incarna, meglio del destino degli uomini, la parabola del dionisiaco.

Il secondo sottofinale è la scena in cui la guerra tra i sessi – un altro dei temi dello spettacolo – si materializza nella lotta rituale tra diverse coppie: sfida atletica, ma anche amplesso, fino a un apparente sfinimento – o riappacificazione. Nell’abbraccio conclusivo sembra trovare spazio, per un’unica volta, una scintilla d’affetto.
A quel punto segue il finale più esplosivo, la spettacolare danza dionisiaca collettiva – che riprende in parte quella iniziale. Dall’alto, i corpi pressoché nudi di danzatori e danzatrici vengono schizzati con vernici di tutti i colori, lucide e scintillanti, in una sorta di color run spermatica ed entusiasta.

E’ un grande rito in cui le personalità si fondono in un travolgente arcobaleno di energie, è l’esplosione della felicità smemorata del Carnevale, lo scatenato rave che finisce al tramonto con i corpi stremati (del resto Fabre ci aveva mostrato il “laboratorio alchemico” di Dioniso, il dio del vino e delle droghe). E’ questo il Gran Finale dello spettacolo, allegramente liberatorio, e al tempo stesso edonistico e consumista: una glorificazione della bellezza, dell’energia, della sensualità dei corpi.

Jan Fabre, Mount Olympus

Jan Fabre, Mount Olympus

Infine viene esplicitata la morale della favola, con Dioniso che si rivolge al pubblico per annunciare che la fine dello spettacolo deve essere solo un nuovo inizio “Is this it! … And even that, I can assure you, is just the beginning”.
Segue una scena simbolica, quasi a portare a termine la fecondazione della notte: tre attrici depongono un uovo, lasciandolo cadere dalla vagina, in un vaso pieno d’acqua.
Ma, ci dice Dioniso, seguito dal coro, è necessario continuare a essere folli, come i personaggi che abbiamo visto nel corso di questa notte magica: “I just gave you a little bit of madness” e “Take the power back” .

Un teatro politico?
La necessità di una molteplicità di finali dà conto da un lato della ricchezza e della stratificazione di Mount Olympus, con i suoi diversi piani intrecciati: per ventiquattro ore, performer e spettatori hanno condiviso l’incontro, il mito, l’eccitazione e l’orgia, la provocazione, il sogno, il simbolo, l’ideologia… Dall’altro, frammenta la catarsi finale e la proietta lungo diverse prospettive, quasi a esplicitare l’impossibilità di una sintesi.
Spingendo sul pedale del dionisiaco, e sull’impossibilità di ricondurlo all’interno di una dimensione politica, Fabre compie una diagnosi precisa del nostro tempo. Conduce lo spettatore a prendere coscienza dei meccanismi repressivi da cui siamo governati, gli offre un’esperienza che scava nel profondo e libera pulsioni ed energie. Ma al tempo stesso amputa la tragedia del suo originario sbocco (e obiettivo) politico: ricondurre l’irriducibilità delle fratture filosofiche e sociali esemplificate dagli eroi tragici all’interno delle convenzioni sociali. Quella che suggerisce Fabre non è certo una soluzione politica al problema del dionisiaco. In questo siamo molto distanti dal teatro civile ateniese e dalla sua pedagogia democratica. Il dionisiaco di Fabre resta irriducibile, sovversivo. L’immersione nel dionisiaco – nel suo flusso, non attraverso brevi intrusioni nell’universo di Mount Olympus – libera energie, toglie il sonno, produce stati alterati a livello sia fisico sia mentale. Ma al termine delle 24 ore, la realtà feriale, quotidiana, non viene scalfita e ci attende con le sue solite miserie. Quella che resta è la purificazione del rito, e la dolorosa nostalgia per il dionisiaco.
Ma non dobbiamo dimenticare che nell’antica Grecia il meccanismo purificatore della catarsi non interessava l’eroe tragico che andava incontro al proprio destino, ma lo spettatore che ne era testimone.

Che cosa resta nella memoria dello spettatore?
Il teatro vive nella memoria dello spettatore. Ma che cosa resta di un’esperienza vissuta tra veglia e sogno, e a volte nel dormiveglia, dove le immagini affascinano e respingono, dove forse si alternano rimozioni e allucinazioni? Mount Olympus continua a lavorare nel profondo, lasciando riemergere frammenti dell’inconscio individuale e (forse) collettivo.

Mount Olympus – To Glorify the Cult of Tragedy
Interpreti Lore Borreman, Katrien Bruyneel, Annabelle Chambon, Cédric Charron, Renée Copraij, Anny Czupper, Els Deceukelier, Barbara De Coninck, Piet Defrancq, Mélissa Guérin, Stella Höttler, Sven Jakir, Ivana Jozic, Marina Kaptijn, Gustav Koenigs, Sarah Lutz, Moreno Perna, Gilles Polet, Pietro Quadrino, Antony Rizzi, Matteo Sedda, Merel Severs, Kasper Vandenberghe, Lies Vandewege, Andrew Van Ostade, Marc Moon van Overmeir, Fabienne Vegt
Ideazione, Regia Jan Fabre
Coreografia Jan Fabre e i danzatori
Testi Jeroen Olyslaegers, Jan Fabre
Musiche Dag Taeldeman
Drammaturgia Miet Martens
Assistente alla regia Floria Lomme
Luci Jan Fabre, Helmut Van den Meersschaut
Costumi Jan Fabre, Kasia Mielczarek
Fotografia Sam De Mol
Partecipazione alla drammaturgia Hans-Thies Lehmann, Luk Van den Dries, Freddy Decreus
Direttore di produzione Ilka De Wilde
Foto © Phil Griffin
Performer Gustav Koenigs
Prodotto da Troubleyn/Jan Fabre
Coprodotto da Berliner Festspiele/Foreign Affairs, Concertgebouw Brugge/December Dance, Julidans 2015 Amsterdam Con il supporto della città di Antwerp & Angelos, Antwerp Troubleyn/Jan Fabre è supportato dal Governo Fiammingo
Presentato da Romaeuropa Festival




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