Parigi 2015: l’Orestea di Castellucci vent’anni dopo

La persistenza del mito, nell’indistinguibilità tra mito e tragedia, contro l'illusione che l’uomo si sia emancipato, nel bene o nel male, dalla sua potenza

Pubblicato il 15/12/2015 / di / ateatro n. 156

Ed ecco piombare su Parigi l’Orestea di Castellucci, come un meteorite caduto sulla capitale francese da una distanza spaziale e temporale.
Quanto è portato in scena all’Odéon, nel contesto del Festival d’Automne, è lo stesso spettacolo che venti anni fa, nel 1995, ha debuttato al Teatro Fabbricone di Prato, lasciando un segno indelebile nel panorama teatrale italiano. Nella scena parigina, dove l’artista di Cesena è accolto con un entusiasmo che l’Italia stenta ancora a tributargli con altrettanto fervore, la messa in scena dell’Orestea di Eschilo, unitamente a quella dell’Ödipus der Tyrann di Hölderlin e Le Metope del Partenone, costituisce un trittico sul tema, da sempre fondante nella poetica di Castellucci, del mito e della tragedia greca.

© Guido Mencari

© Guido Mencari

Viene subito spontaneo chiedersi cosa è cambiato dello spettacolo venti anni dopo, anche per chi, come me, della prima versione sa esclusivamente quel che ha letto. A rivivere in scena quell’esperienza sono solo due degli attori coinvolti, Nicoletta Magalotti (in arte NicoNote) che torna a fare Cassandra e la Pizia, e Loris Comandini, ancora una volta Agamennone. Certamente il vissuto di chi sta sul palco non può che guadagnare in profondità e spessore; ma la domanda alla fine, per quanto legittima, risulta oziosa. Non a caso il regista interpellato parla dello spettacolo come di un oggetto che ritrova identico a distanza di tempo e torna a osservare, come una pietra che negli anni non si è modificata. Bisogna potersi permettere di parlare di una creazione in termini di pietra, un qualcosa di anacronistico, che attraversa le epoche, o di eterno, che resiste alle epoche. È la materia di cui è fatta l’Orestea a giustificare la scelta del termine, stiamo parlando di un fossile, di una forma immateriale che permane nell’incisione di un corpo solido, un fantasma incastonato nella pietra. Ma stiamo parlando anche di un magma, fuoco incandescente poi solidificato in roccia. Come il magnete ha vita propria, e non è tanto il suo contenuto a cambiare, piuttosto è chi ne è attratto a disporsi ogni volta in modo diverso. Forse bisognerebbe chiedersi se non è piuttosto il pubblico a essere cambiato, a essere più in sintonia con il lavoro?

Certo questo meteorite è atterrato in un contesto a dir poco traumatizzato… ci troviamo di fronte alla rappresentazione del tragico nel luogo dove è avvenuta la tragedia. La scena de Le Metope del Partenone, per la presenza ad esempio di vere ambulanze sul palco e corpi imbrattati di liquido rosso riversati a terra, nel rischio di riproporre scenari realmente vissuti pochi giorni prima sulle strade parigine, ha provocato seri scrupoli di coscienza negli organizzatori e curatori dell’evento. Come è risultato doveroso da parte dell’organizzazione del teatro avvisare il pubblico, poco prima dell’inizio dell’Orestea, che, a un certo punto dello spettacolo, si sarebbero sentiti 8 forti spari; anche la distribuzione dei tappi per le orecchie, all’entrata in sala, appare una misura cautelativa per la difesa, più che dell’udito, dalla forte suggestione che questi rumori avrebbero potuto scatenare. Insomma la rappresentazione del tragico che Castellucci, come pochi altri nel Novecento, è riuscito a rendere in scena nel 1995, si è trovata sinistramente in sintonia con i recenti tragici eventi e con i mutamenti epocali a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. E lo spettacolo, incastonato in un nuovo contesto storico, si è ulteriormente risemantizzato, indipendentemente dalla volontà stessa del regista. Questo accade quando le opere vivono di vita propria, quando non sono un mero prodotto dell’artista, ma hanno un valore di universalità che travalica il personalismo autoriale.

L’operazione fatta da Castellucci sull’Orestea era valida vent’anni fa, e lo è ancor di più oggi: il rovesciamento dell’interpretazione che storicamente è stata fatta dell’opera di Eschilo. Non è più l’opera che racconta la fine del mito e la nascita della tragedia, e con la tragedia l’avvio del percorso eroico dell’uomo nella costruzione della civiltà occidentale. Una civiltà fondata sull’istituzione del tribunale, sulla ragione della legge e del logos posta alla base della giustizia della polis contro la violenza della vendetta personale, la giustizia del genos. Ma è la rappresentazione della persistenza del mito, dell’indistinguibilità tra mito e tragedia, e della illusione che l’uomo si sia emancipato, nel bene o nel male, dalla sua potenza. In scena c’è la rappresentazione di questa potenza e della violenza da essa sprigionata, una violenza che può essere distruttiva o creativa, ma che, dato il contesto rispetto a cui entra in risonanza, non può che manifestarsi in tutta la sua negatività.

Sul palco ogni cosa concorre a mostrare questo rovesciamento, questa regressione; si potrebbe procedere a ritroso, dalla scena finale dove, le Eumenidi – le Erinni, le divinità della vendetta privata e sanguinaria, trasformate e pacificate dopo l’istituzione dell’ordine legale nella città –, hanno ben poco di divino o di civile perché sono delle scimmie, l’antico antenato dell’uomo, vive e reali in scena. Le intravvediamo all’interno di una sorta di gabbia/oblò dentro la quale un Oreste, fattosi a sua volta scimmia, si introduce.

© Luca Del Pia

© Luca Del Pia

Scimmie, cavalli, asini… l’animalità pervade la scena. E allo stesso modo il femminile è straripante in scena, così presente fisicamente nel corpo delle protagoniste, delle veneri steatopigie che gravitano con tutta la loro pesantezza. Corpi debordanti o stritolati nell’opprimente cassa trasparente dentro la quale si dibatte Cassandra/NicoNote. Il femminile matriarcale è dominante, ancora una volta si rovescia il destino che si vuole abbia segnato il destino della civiltà occidentale: non sono gli dei olimpici a vincere sulle divinità precedenti, non è il principio maschile ad avere la meglio, ma a regnare è il più arcaico culto della dea madre, le origini più antiche della cultura greca; e Clitemnestra, la ‘grande Signora’, è lei il Re. Come in Eschilo, d’altronde, che, introducendo una variante significativa nel nucleo di mito ereditato da Omero, propone una regina dal ‘cuore maschio’, che governa la reggia dove Egisto è un semplice comprimario. È il regno tellurico della materia, dell’organico, dei sensi, della carne e del sangue.

© Guido Mencari

© Guido Mencari

E se Elettra è una Clitemnestra in piccolo, l’altra figura femminile evocata – e, di pari passo, l’altro femminile chiamato in causa –, è l’Alice del paese delle meraviglie. Questa fanciulla, sovrapponendosi alla figura di Ifigenia, la figlia sacrificata da Agamennone per cui Clitemnestra chiede vendetta, è un personaggio emblematico, anch’essa una figura della ‘regressione’, un’anima che sfugge alle logiche del pensiero logocentrico occidentale. È l’Alice di Carrol ma anche l’Alice di Deleuze e di Artaud: una figura che mette in discussione i capisaldi su cui è vincolato l’ordine razionale del discorso. Alice fa saltare il principio di identità e non contraddizione, di causa ed effetto, Alice introduce a un mondo metamorfico, che vive delle continue trasformazioni, delle forme e del senso, un mondo non logico, ambiguo, ambivalente, dove gli opposti sono compresenti, dove tutto e il contrario di tutto è possibile, dove tropo e metafora, letterale e simbolico sono inseparabili.
Il maschile, per converso, è destituito del suo potere, all’assenza del suo significato nella tragedia corrisponde fisicamente la minorazione mentale e la scarnificazione dell’anoressia. Il maschile è impotente e incapace di volere, al suo posto decide la tecnologia: il braccio armato che come una protesi agisce al posto di Oreste; o un’energia artificiale che, sganciata dal principio vitale naturale materno/femminile, tiene in vita corpi già morti, alimenta come in un accanimento terapeutico la presenza in scena dei personaggi, e del montone, il capro della tragedia, che, squarciato, è appeso ed esposto al centro del palco.
Una tecnologia che, se è l’esito più alto del principio razionale alla base dello sviluppo della civiltà, lo stesso che ha fondato la giustizia della polis in chiusura dell’Orestea, dall’altro diventa la più fedele alleata dei demoni che, negati nella loro potenza creativa, sfuggono a quello stesso principio diventando i primi agenti di morte.

© Guido Mencari

© Guido Mencari

La violenza che aleggia in scena all’Odéon risuona di eco per quello che tutto il mondo, in questo frangente storico, sta vivendo per effetto della guerra lungo l’asse nord-sud, tra Europa e Mediterraneo, e fa da monito a una tragica consapevolezza: le Eumenidi si sono ritirate dalla scena per dare nuovamente spazio alle Erinni, al sangue che chiama sangue, al desiderio di vendetta, che Oriente e Occidente stanno soddisfacendo indistintamente. E se le scimmiette/Eumenidi addomesticate sul palco parigino ci ricordano della bestialità delle Erinni, quello che stiamo sperimentando in questo periodo, nelle vicende di cui siamo direttamente o indirettamente testimoni fuori dal teatro, è la loro incontenibile mostruosità.




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