Il potenziale politico del Butō

Yūko Kaseki a Venezia in 9 Steps to Dust

Pubblicato il 04/05/2022 / di / ateatro n. 183

Fin dalle performance fondative di Hijikata Tatsumi e di Ōno Kazuo, negli anni Cinquanta, il Butō più che esprimere prova a trasformare, più che una danza è la ricerca di una danza. Perché «il Butō non esiste», come diceva Masaki Iwana agli allievi quando iniziava i suoi laboratori.[1] E avanzando sulle punte dei piedi scalzi, in una lenta entrata in scena profilata di luce, Yūko Kaseki sembra proprio andare in cerca di una danza liminale, sembra provare già il passo verso l’illuminazione, saggiare il terreno su cui attraversare la dimensione temporale del corpo. Corpo metamorfico, ibridato, reietto, sciamanico. Corpo offerto allo sguardo nel suo dissolversi e ricomporsi.

Foto Yassiek Matuszewski

9 Steps to Dust prende spunto dagli acquarelli della tradizione artistica giapponese Kusōzu, raffiguranti i nove stadi di decomposizione del corpo morto, per sviluppare una interrogazione performativa sull’impermanenza. Ma sono gli stessi paradossi che animano il Butō – la dialettica eros/thanatos, grottesco/bellezza, organico/inanimato – a venire alla luce nell’armonia scomposta della danzatrice e coreografa giapponese, da tempo trasferitasi in Germania, e nella sua originale lettura del processo di disfacimento del corpo nel Kusōzu. Corpo per lo più femminile. Il Kusōzu è infatti una pratica di meditazione buddhista, risalente al XIII secolo, che muove dalla contemplazione dello svanire della bellezza per superare i desideri carnali e giungere al risveglio. Ne erano protagonisti i monaci, ma la stessa mistica femminile ne avrebbe influenzato la nascita.

Foto Yassiek Matuszewski

Allieva di Anzu Furukawa, come lei attenta alle dinamiche improvvisative e alle mutazioni delle relazioni corpo-suono nella performance (il suo solo ha una versione con il live sound di Kazuhisa Huchihashi), Yūko Kaseki mostra un corpo derelitto e magico a un tempo, in continua trasformazione. Un corpo disincarnato, esposto. Un corpo senza organi. Posture e movimenti del Butō “tradizionale” vengono articolati in un susseguirsi di deformazioni, dislocazioni, contrazioni ed espansioni, avvitamenti, rallentamenti, tropismi. Figure capovolte, gambe che diventano braccia poderose di presenze post-human, animalità. Un serpente che si libera della pelle squamosa. Sul ventre una membrana adesiva si sfrangia nelle torsioni e diventa un volto di grinze, rughe, smagliature. Così il corpo perturbante di Yūko Kaseki si fa critica delle costruzioni e delle demarcazioni sociali. Una riflessione sui nove passaggi che ci separano dalla cenere che può indurre oggi, più che all’ascetismo, al rifiuto delle discriminazioni dei corpi malati, anziani, diversamente abili, delle discriminazioni di genere. È il potenziale politico del Butō in Occidente.

Foto Yassiek Matuszewski

La performance è andata in scena al Teatro Ca’ Foscari di Venezia nell’ambito della rassegna Asteroide Amor, che per la prima volta, per iniziativa della Fondazione di Venezia, vede insieme i due atenei della città lagunare (Ca’ Foscari e IUAV) e lo Stabile del Veneto in un progetto dedicato alla scena contemporanea (qui il programma completo: www.unive.it/asteroideamor). Un’iniziativa che da una parte ha il merito di riprendere la formula dell’accesso agevolato agli spettacoli dei ragazzi dai 14 ai 26 anni (Giovani a teatro 2.0), dall’altra ha tutta l’aria di un inizio, di una proposta di metodo di lavoro che superi particolarismi e rivalità e unisca finalmente le forze per la ricucitura culturale di una città sovraesposta internazionalmente dalle manifestazioni della Biennale ma sfrangiata nel suo tessuto sociale.

Foto Yassiek Matuszewski

NOTE

[1] Lo ricorda Samantha Marenzi in suo intervento sull’eredità di Masaki Iwana: Pratiche di memoria e esercizi di trasmissione, in C. Tafuri e D. Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, AkropolisLibri, Genova 2021.




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