Il butoh rianimato di Maï Ishiwata e altri corpi oltre i confini

UTT in prima italiana a Rovereto al Festival Oriente Occidente

Pubblicato il 19/09/2016 / di / ateatro n. 159
Carlotta Ikeda e Maï Ishiwata a confronto

Carlotta Ikeda e Maï Ishiwata a confronto

Fin dalla scelta di non apparire nei titoli dello spettacolo, Maï Ishiwata si pone umilmente al servizio di un progetto che la coinvolge e la trascende. UTT, presentato in prima italiana a Rovereto nell’ambito del Festival Oriente Occidente, è infatti un’opera storica che Kô Murobushi, una delle più grandi figure dell’arte butoh, inventò nel 1981 per e con Carlotta Ikeda (1941-2014). Nel 1974 a Bordeaux avevano fondato Ariadone, la compagnia butoh di sole danzatrici di cui Ishiwata fa parte e che insieme a Sebi, il gruppo di soli uomini creato due anni dopo dal maestro giapponese, ha determinato il riconoscimento e lo sviluppo di questa danza in Europa. Eppure è alla sensibilità di questa giovane danzatrice che dobbiamo il miracolo di una “rianimazione” dello spettacolo, al suo respiro millimetrico, alla sua potenza trattenuta, al suo bisogno di cercare, attraverso la danza, le sue proprie ragioni di stare lì sulla scena e insieme le tracce arcaiche dell’essere vivente, di ripercorrere le tappe evolutive di sé e insieme quelle di un’arte che attraversa le ombre e insegna a scomparire. «Il mio butoh è una ricerca interiore – diceva Ikeda – al confine tra normalità e follia. Come nel buddismo, cerco di raggiungere un certo stato di annullamento di sé, di niente.» E nel consegnare a Ishiwata la coreografia di UTT, nell’affidarle prima di morire il lascito di una partitura tanto intima, Ikeda ha evidentemente trasmesso, al di là di una rilettura magistrale dei codici del butoh, il movimento profondo che li nutre, la necessità di continuare una ricerca interiore che sempre attraversa e svuota l’interprete, che spiazza e interroga lo spettatore.

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Tutto si trasforma lentamente e inesorabilmente in una scena butoh, tutto sembra precipitare all’indietro, come risucchiato in una mise en abîme ontogenetica e filogenetica. Tanto più in uno spettacolo come UTT, che è un perfetto esempio dell’emancipazione di questa pratica artistica dall’originaria matrice apocalittica post-Hiroshima. La “danza delle tenebre” è diventata sempre più un campo ideale per l’indagine dei più reconditi processi di costruzione e decostruzione del vivente, il suo linguaggio è ormai universale. Così anche quello di Ikeda-Ishiwata, come sempre nel butoh, è un esercizio di allenamento al morire (e non abbiamo bisogno di tecniche per orientare la nostra vita dopo la morte, ricordava Kazuo Ohno) che coincide con un itinerario di ritorno all’infanzia, di uscita dal corpo risalendo alle origini, fino ad annullare i confini tra questi momenti di uscita e di venuta al mondo. Vita e morte, assenza e presenza si confondono. Tutte le età di una donna sono incarnate dalla danzatrice per sviluppi contrastivi e per sovrapposizioni. Nel volto sbiancato la bocca si spalanca come una cavità ambigua, al contempo infante sbalordita e maschera mortuaria. La bambina che prova i passi diventa una teen-ager dal piglio malizioso che si muove sbarazzina su una musichetta anni Sessanta, ma non prima di aver trovato, nel giro di qualche secondo, passi e posture da vecchia, con una maschera impressionante per la rapidità della trasformazione.

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In un altro quadro appare una splendida figura totemica dai colorati toni ancestrali, apre una faglia nel tempo che sembra assorbito nella rarefazione delle luci. Ha gesti ieratici e marziali, un groviglio di corde tra i piedi, un drappo bianco sospeso a mezz’aria. Poi il tempo si squaglia, la figura si disfa come un idolo cadente, le gambe disarticolate, frammenti di una danza arcaica. Ci sono passaggi riconducibili al grande tema dell’animalità: la parte iniziale con la danzatrice velata da un costume bianco e dai lunghi capelli neri sciolti; i passi ferini che perimetrano lo spazio scenico; l’avanzare a quattro zampe di un animale stanco; la testa all’indietro nel contrasto tra la bianchezza della pelle e la vocalità gutturale, il suono viscerale lanciato al cielo («UTT è un grido, un suono onomatopeico che si emette quando sei brutalmente colpito allo stomaco», spiegava Ikeda).

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Nell’ultima parte, una donna nuda che sembra chiamare a sé le forze dell’universo si muove in uno spazio azzurro tra sette cascate bianche (ci piace credere si tratti di riso, in omaggio a Carlotta Ikeda il cui vero nome era Sanae, ovvero “germoglio di riso” in giapponese). Ha i capelli raccolti, ora, e si siede a ricevere il riso sulla testa. Se si confronta la medesima scena nella versione originaria interpretata dalla Ikeda con questa di Ishiwata si può notare la differente adesione ai codici butoh ma la sostanziale identità di intenzione poetica e di costruzione formale.

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Tutti le soluzioni tecniche del butoh si possono rintracciare nello spettacolo: il corpo sbiancato dalla biacca, le deformazioni della maschera facciale, gli occhi girati sotto le palpebre, i movimenti introspettivi, i piedi e le mani piegati verso l’interno, a volte moncherini a volte artigli, l’esasperata lentezza dei movimenti, le cadute, le posture impossibili, il corpo come guscio vuoto, un corpo che sa “debilitarsi”, come voleva Tatzumi Hijikata, anche quando è prepotentemente giovane ed elastico come quello di Maï Ishiwata. Che da parte sua ha trovato però nuove sfumature interpretative, cui non sono estranei la sua formazione nella danza contemporanea e il diverso contesto storico-culturale nel quale si è trovata a confrontarsi con questa coreografia. Così dopo oltre trent’anni dalla sua creazione, morti entrambi gli autori (Ikeda nel settembre 2014, Murobushi nel giugno 2015), continua a vivere un’opera affascinante che, come tutti i più grandi esempi di butoh, chiede anche di accettare la rinuncia alla spettacolarizzazione, la riduzione delle aspettative, le reticenze coreutiche, la contrazione, la diminuzione, il movimento sopito, la carica inesplosa. Un insegnamento e un esercizio anche per lo spettatore.

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Anche in questo senso, lo spettacolo si inserisce precisamente nel percorso di un festival come Oriente Occidente che da anni indaga e confronta metodi e ricerche capaci di attraversare le arti performative e di misurarsi con la vita quotidiana, le diverse età, le disabilità. Numerose le interconnessioni tra i seminari (danza per bambini, danza per la terza età, Feldenkrais, ginnastica dolce, yogadanza, ecc.), gli incontri, le conferenze, le esperienze di danza inclusiva proposti dal Centro Internazionale della Danza e gli spettacoli in cartellone. Tra i quali segnaliamo ancora l’applauditissimo Three della Batsheva Dance Company. Rivisitata e modificata rispetto alla versione creata nel 2005 da Ohad Naharin, la coreografia continua a lasciare spazi di improvvisazione ai giovani interpreti pur modellandone l’energia sensuale in forme e sequenze di estrema precisione. Movimenti ondivaghi nel primo quadro, Bellus, suscitati dagli impulsi delle Variazioni Goldberg di Bach-Gould; ipnotici nell’unisono delle otto danzatrici nel secondo, Humus, su musica di Ohad Fishof; geometrici nel terzo, Secus, decisamente più pop.

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Assoli, passi a due interrotti, disarticolati, torsioni estreme, gesti a specchio. Danza molto tecnica ma anche emozionale, molto fisica eppure capace di trasmettere un senso profondo di fragilità, di intimità, di scoperta interiore, di concentrazione e insieme di apertura all’altro, di ascolto, fino alla scena finale, quando le coppie si confondono e si stringono senza distinzioni di genere. C’è un afflato quasi metafisico nella ricerca coregrafica di Naharin, una “verticalità” che trova le sue basi teorico-pratiche nella tecnica Gaga adottata fin dalla formazione dei danzatori, lasciati liberi di esplorare autonomamente il movimento, senza seguire un maestro, senza controllare i movimenti allo specchio, ma cercando, per così dire, correspondances tra anima, ossa e muscoli. Un metodo che si applica ormai, specie negli Stati Uniti, al di là del campo artistico strettamente inteso e che viene utilizzato, per esempio, nelle pratiche con soggetti affetti dal morbo di Parkinson.




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