Le recensioni di “ateatro”: Conversazione con la morte
di Giovanni Testori, regia di Lamberto Puggelli
Una decina danni fa, con la sua voce roca e sottile come unica compagnia, Giovanni Testori presentava a pubblico la sua Conversaione con la morte. In questo monologo, l’autore della scandalosa Arialda e delle disperate bestemmie dellEdipus annunciava il proprio ritorno alla fede: una scelta sofferta, sotto alcuni aspetti clamorosa, per altri prevedibile e quasi obbligata, che avrebbe meritato allo scrittore i pubblici abbracci del cardinal Martini.
Da allora, da quella svolta non certo opportunistica, Testori ha continuato a scrivere, anche e soprattutto per il teatro, testi che non rinunciano a temi e atmosfere volutamente scabrosi, in un linguaggio che travalica spesso i limiti del turpiloquio e della bestemmia, con una fede – anche essa disperata, per compiacimento o per amore dellestremo – vissuta come paradossale ancora di salvezza per chi ha varcato anche lultima soglia della trasgressione.
Rispetto agli “eccessi” e all’inventiva verbale di molti testi precedenti o successivi, Conversazione con la morte (che Lamberto Puggelli ha allestito in un “tempio della cultura laica” come il Piccolo Teatro) appare certamente più sobrio e misurato, meno assetato di scandali e paradossi, con la sua retorica ben temperata, laspirazione e una poetica tranquillità, la trasparenza di metafore quotidiane e a tratti bucoliche.
Nel dolore per la morte della madre, vissuta come sofferenza estrema e profondissima, si cancellano ambizione, vanità, orgoglio personali, e con essi la Ragione che pretenderebbe di sostituirsi a un dio ormai assente, oppure dimenticato e ora invocato come baluardo contro le ingiustizie del “progresso”. E un esorcismo contro una morte che trasforma affetti, persone, sentimenti in “cose”: ma come se la grande, eterna nemica – proprio per questo – fosse diventata lunica compagna di vita, una confidente e una complice da blandire in un continuo chiacchiericcio, quasi a cancellare il proprio silenzio, una muta impotenza.
Si avverte, oltre le asprezze ideologiche e polemiche in cui Testori si impunta, un disagio autentico che prende la forma della riflessione morale. E quindi in un accanimento che lo spinge a interrogarsi, in indagini ossessive, lacerate e potenzialmente infinite, nel labirinto della purezza e del peccato. E un meccanismo che a volte riesce a mettere in scena acuti paradossi e momenti di intensa teatralità.
Fortunatamente, a giganteggiare nello spoglio palcoscenico del Piccolo, c’è Tino Carraro, con la sua voce stratificata di tenerezze e di odio, dolce e ruvida insieme. Le linee melodiche delle frasi, quasi cantate, risuonanti si ricordi e di languori, sinfrangono e si rompono in un pietrisco damarezze, più fonde, quasi segrete, di confidenze e reticenze, di pudori e affondi crudeli. E la sommessa antiretorica di una vecchiaia pacificata, che si porta dentro tutta la stanchezza dellesperienza, senza rimpianti e rancori, senza certezze se non un pugno di ricordi, tanto ingenua ed eroica da porti si grandi interrogativi dellesistenza.
Pubblicato originariamente sul “manifesto”, 31 marzo 1989,
Oliviero_Ponte_di_Pino
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