Le recensioni di “ateatro”: Cinema Cielo

Ideazione e regia di Danio Manfredini

Pubblicato il 20/07/2003 / di / ateatro n. 055

Cinema Cielo di Danio Manfredini è una Classe morta a luci rosse, un teatro della memoria e della devianza, una danza della morte e della perversione. Ma è sempre attraversato dall’ironia e da un sentimento di umana pietà che accomuna i personaggi, gli attori e gli spettatori, tutti ugualmente mostruosi e umani.
Siamo in un cinema a luci rosse che non esiste più, il Cinema Cielo del titolo, ormai smantellato dopo l’avvento delle videocassette e dei club privé. Stanno proiettando una pellicola porno, tratta dal romanzo di Jean Genet Nostra signora dei fiori: ma noi spettatori, sistemati esattamente lì dove dovrebbe esserci lo schermo, di quel film sentiamo solo le battute, spiazzi di dialogo, e il rumore della pioggia che cade. Di fronte a noi il palcoscenico è occupato dalla sgangherata e polverosa platea del cinema, con le sue file di poltroncine sbilenche, i frequentatissimo cessi sulla destra e sullo sfondo, oltre le tende di velluto, verso la luce della strada, il foyer con le sue stralunate e divertentissime cassiere.

Pian ci accorgiamo che tra quello che dicono gli antieroi di Genet e quello che accade in sala che un rapporto: spesso un’associazione, a volte una complementarietà oppure in ironico contrasto, in un continuo (e drammaturgicamente virtuosistico) gioco di rimandi.
E’ un inferno – o magari un paradiso – irrimediabilmente perduto, che può rivivere solo nella memoria, con la sua feccia improbabile e composita, una tribù ormai estinta con i suoi rituali spermatici. C’è il dolcissimo e stralunato travestito brasiliano, il tizio che si eccita solo se sente l’odore dei calzini, il sordomuto marchettaro che ulula e grugnisce di non essere omosessuale e che lo fa solo per i soldi, il paralitico in cerca di compagnia, il terzetto che s’incula al ritmo di Forever Young, il travestito in pelliccia e bikini che si scatena al ritmo della disco dance, l’immigrato che ormai abita in sala e si guadagna da vivere facendo lavoretti nei cessi, l’esibizionista che ti appoggia il cazzo sull’orecchia, l’uomo che solleva il vestito alla sua donna e la offre agli altri clienti, il Babbo Natale che in questa sconclusionata vigilia si scatena in una danza da giocoliere, il preservativo usato che s’appiccica alla suola della scarpa, lo studente in tuta e tacchi a spillo che si fa inculare a raffica, il vecchio in giarrettiere che sbuca dai cessi, il marito che telefona alla moglie “Sono giù a mettere ordine in cantina, tra mezz’ora salgo” e s’infila nel cesso…

E’ una umanità eccentrica e meticcia, un variegato circo di ossessioni dove il Cristo è un acrobata sui trampoli che allarga le braccia. E’ fatta di manichini, immobili al loro posto oppure trainati, come negli spettacoli di Kantor, da piccoli carrelli. Ed è fatta naturalmente di esseri umani, infoiati dal meccanismo ripetitivo della perversione, della coazione a ripetere, della forma che fissa e pietrifica il desiderio: burattini spesso più ridicoli che scandalosi, deboli e fragili come tutti noi non appena liberi dall’ossessione della normalità. A dare vita a questa straordinaria galleria composta di decine di figure è un quartetto d’attori di straordinaria potenza e disponibilità: Danio Manfredini in primo luogo, e con lui Patrizia Aroldi, Vicenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro. E’ grazie a questo moltiplicarsi di presenze, alla loro danza a volte grottesca e a volte struggente che le ossessioni private, personali di Danio Manfredini, il suo sentimento della diversità e della bellezza, trovano per la prima volta dopo i suoi memorabili assoli una dimensione oggettiva e insieme collettiva.
Cinema Cielo diventa così una lancinante meditazione sulla natura umana, sulla sua fragilità, sulla possibilità di trovare la poesia dentro e oltre la pornografia. E’ una intricata meditazione sul corpo (sulla sessualità) e sullo sguardo: i corpi degli attori e quelli dei manichini con cui a volte s’accoppiano, lo sguardo della platea del Cinema Cielo che s’incrocia con quello degli spettatori sulla superficie di uno schermo inesistente. Ci sono squarci di quotidianità quasi bozzettisica, con le esilaranti controscene delle cassiere, in grado di accettare e di far accettare qualunque pratica sessuale come un banale fatto della vita. C’è la bellezza e il degrado dei corpi che si accoppiano nello squallore del cinema. C’è un’ironia, e una autoironia, di fondo, che sdrammatizzano e riportano ogni comportamento a una dimensione semplicemente umana, e dunque da accettare come tale.
Ma poi – alla fine di questo canto della diversità, dell’amore e della morte – c’è anche, seppure eccessivamente sottolineato nel finale, il sospetto che tutto questo rimandi a qualcosa d’altro, a una realtà più terribile e segreta, che non sappiamo dire, e men che meno definire, ma di cui sentiamo l’oscura potenza non appena ci abbandoniamo a noi stessi.

Cinema Cielo
Ideazione e regia di Danio Manfredini
Rimini, Teatro degli Atti

Per approfondire:un’intervista a Danio Manfredini (1955).

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