Speciale economia & politica del teatro

L'editoriale di ateatro 62

Pubblicato il 16/01/2004 / di / ateatro n. 062

L’’economia e la politica del teatro sono da sempre uno dei temi portanti di ateatro 62. Le condizioni materiali e i rapporti economici vincolano e condizionano da sempre l’attività creativa, e il contesto politico e culturale incide profondamente sulla pratica teatrale, magari costringendo a sforzi inventivi anche su questo fronte.
Per iniziare il quarto anno della webzine (sono già quattro, con venti numeri all’anno!!!), in una fase assai difficile per il sistema teatrale (e non solo), ci è parso opportuno raccogliere una serie di informazioni e riflessioni su questi temi. Buona parte dei materiali contenuti in ateatro 62 è tratto dalla corposa inchiesta curata da Mimma Gallina e pubblicata sul numero di «Hystrio» che arriva in edicola proprio in questi giorni (compratelo!!!).
Altri dossier si sono sedimentati nei forum di ateatro, in particolare:

# il caso Biennale;
# la riforma del Ministero dei Beni Culturali;
# la Tedarco e i suoi rapporti con l’Agis (per quanto se ne riesce a capire);
# la lettera aperta di Fanny & Alexander (ma altre realtà hanno espresso il loro disagio nello stesso forum).

Da questi materiali emerge un disagio che, come era prevedibile, si è progressivamente accresciuto negli ultimi anni. La difficile situazione economica, il disastro dei conti pubblici (e scelte di politica culturale a volte decisamente punitive) fanno sì che le risorse pubbliche destinate al teatro (e non solo) continuino a diminuire: basti pensare da un lato alla riduzione in termini reali del FUS (circa il 50% dal 1985 al 2002, dice la relazione ufficiale del Ministero), dall’altro alla stretta di molti enti locali. Questa tendenza porta i direttori artistici, i programmatori, gli amministratori e i funzionari pubblici a scelte sempre più conservative, sempre meno rischiose – perché si ritiene che siano in accordo con le leggi di un mercato peraltro truccato.
Sul fronte dei rapporti con la politica, il passaggio al maggioritario ha inciso negativamente sui rapporti tra la cultura e una politica sempre più «dirigistica» (e in genere, soprattutto a destra, meno attenta al valore e al significato della cultura e spesso pasticciona, vedi il caso Urbani-Biennale).
Come sempre accade nel teatro italiano, resta spazio solo per i tentativi di salvezza individuale, grazie a rapporti personali con il Palazzo, a qualunque livello.

In questo scenario, la lettera di Fanny & Alexander offre numerosi spunti di riflessione. Intanto alcuni punti fermi, su cui siamo tornati più volte in passato:
# il sistema teatrale italiano è da decenni bloccato e sclerotizzato; non riesce più a garantire un ricambio generazionale e di linguaggi;
# la rete dei Centri di ricerca (ora Stabili di innovazione) ha disatteso la propria missione di sostegno alle realtà produttive e di rete distributiva per privilegiare le autoproduzioni e gli scambi; un po’’ come gli Stabili, ma con una differenza: gli Stabili sono gestiti da consigli di amministrazione di nomina politica, mentre gli Stabili di Innovazione e gli Stabili Privati sono controllati da individui o gruppi di fatto inamovibili (pregi e difetti delle due soluzioni sono sotto gli occhi di tutti);
artisti e spettacoli di indiscutibile valore fanno un numero ridicolmente basso di repliche; la crisi dell’ETI, con la riduzione del sostegno al nuovo teatro, ha ulteriormente aggravato la situazione (a proposito di pettegolezzi, uno dei primi atti del nuovo Direttore Generale dell’ETI dicono sia stato un sostanzioso aumento del proprio stipendio: chissà se è vero).

Detto questo, forse è il caso di porsi alcune domande, proprio a partire dall’appello del gruppo ravennate.
In primo luogo, quali sono i suoi destinatari? Fanny & Alexander scrivono ai «cari colleghi», ovvero – si suppone – agli artisti che operano nel campo del teatro. In apparenza chiedono più piazze per i loro spettacoli, in realtà (si spera…) stanno chiedendo ai «cari colleghi» soprattutto due altre cose.
In primo luogo una diversa consapevolezza da parte di tutti (e dunque in primo luogo da parte di Fanny & Alexander) riguardo alla difficoltà della situazione e all’appartenenza a un fronte in qualche modo comune, con obiettivi condivisibili.
In secondo luogo, inevitabilmente, una tale presa di posizione spinge verso la creazione di una rete, di una alleanza tra queste realtà che possa in qualche modo rivitalizzare il circuito teatrale italiano.
Il destinatario esplicito sono dunque i gruppi e gli artisti citati (Danio Manfredini, Teatrino Clandestino, Valdoca, Motus, Masque, Alfonso Santagata, ma l’elenco potrebbe allungarsi): non a caso sono tutte compagnie di produzione che in genere non dispongono di un teatro. Da anni i giovani gruppi, come testimonia lo stesso Marco Cavalcoli, cercano un proprio coordinamento, ma evidentemente senza risultati apprezzabili. L’’incontro di Castiglioncello nel dicembre del 2002 ha tentato (invano) di richiamare l’attenzione su un problema che accomuna da anni le diverse forme di rappresentanza istituzionale del nuovo teatro, a cominciare dalle convulsioni ormai semiclandestine della Tedarco.
Dopo di che, ci sono i destinatari impliciti dell’appello di Fanny & Alexander. Per primi, gli Stabili di innovazione (e in generale il sistema teatrale italiano, a partire dall’ETI che avrebbe istituzionalmente il compito di favorire il nuovo), un circuito che non è riuscito colpevolmente a garantire una dignitosa circolazione agli spettacoli, ed è preda di una progressiva involuzione. Ancora, ovviamente, chi ha ruoli decisionali all’interno del sistema teatrale italiano: chi dirige teatri, circuiti, rassegne eccetera. E poi la critica…
Si potrebbero peraltro aggiungere alcune postille. Da un lato, come si evince dal tono di alcuni messaggi, prima ancora che una capacità di auto-organizzazione, pare mancare al teatro italiano una reale capacità di ascolto e confronto reciproci. Si privilegia inevitabilmente il proprio lavoro artistico, rispetto sia all’aspetto di politica culturale, sia rispetto al confronto con gli altri, sia rispetto alle condizioni reali del sistema teatrale. Sono numerosi i progetti interessanti e ambiziosi, che però hanno costi che non possono essere realmente sostenuti dalla gran parte dei festival e delle programmazioni, o che rischiano di drenare le già scarse disponibilità.
A questa situazione bisogna reagire cercando in primo luogo cercando di riequilibrare la distribuzione delle risorse pubbliche (meglio: di risorse sempre più scarse) all’interno del sistema teatrale italiano: dunque il FUS, ma anche le fonti di sovvenzioni a livello locale (regioni in testa, poi comuni, festival eccetera). In quest’ottica diventano cruciali la politica e il ruolo del l’ETI e degli Stabili di Innovazione. E’ un compito di controllo che dovrebbe riguardare tutti, perché si tratta molto semplicemente di controllare come vengono spesi e dove finiscono i denari pubblici.
In secondo luogo vanno cercate fonti di finanziamento alternative, come peraltro si è sempre fatto, sia sul versante pubblico sia su quello privato. Per quanto riguarda il settore pubblico, i rischi di un ritorno a una gestione clientelare ed elettoralistica sono molto alti. Anche perché spesso, a sinistra, la cultura rischia di coincidere con l’acquisto di eventi preconfezionati, ad alto costo e senza ricadute rilevanti sul medio e lungo periodo. Sotto questo profilo, la vicenda della ARCUS s.p.a. è esemplare. Sul versante privato, è certamente possibile (e giusto) cercare aiuto e sostegno. Il problema è che questo sostegno può sostenere (o contribuire a sostenere) alcune iniziative, ma per il momento nel nostro paese non può rappresentare una alternativa di sistema. Le sponsorizzazioni alla cultura rappresentano una fetta insignificante del fatturato del settore, e un’area di nicchia (e ad alto rischio) come quella del nuovo teatro non rappresenta certo un partner particolarmente appetibile per chi ragiona solo in termini di contatti e di ritorno di immagine. Fatte le salve le meritevolissime eccezioni.
In realtà l’economia dei gruppi e della compagnie è – per necessità – molto complessa: gli spettacoli rappresentano spesso un costo (un «lusso») rispetto ad altre attività più redditizie (come corsi e seminari).
L’altro corno del dilemma è ovviamente il mercato, ovvero il pubblico teatrale. Di fronte a un meccanismo distributivo ingessato, è molto difficile immaginare di creare circuiti alternativi, ma resta forse l’unica soluzione praticabile. Tuttavia per farlo vanno pensate e incentivate anche forme diverse di rapporti economici tra ospiti e ospitanti (e con gli spettatori), di informazione e promozione, e anche di modalità produttive. Per molti il «teatro povero», le residenze con seminari e prove aperte, sono già una necessità e una virtù, e realisticamente in questa situazione rischiano di essere una piattaforma di sopravvivenza.
Un secondo versante riguarda invece una maggiore consapevolezza di quello che sta accadendo. A volte possono essere noiose questioni tecniche, a volte riflessioni su valori e ideali, a volte inchieste e scandali piccoli e grandi. Ma l’importante è che le informazioni circolino, che le idee vengano discusse, che i valori e le battaglie possano essere condivisi. Troppo spesso nel teatro italiano l’informazione viene vissuta come un bene prezioso, un segreto professionale da spargere con parsimonia nei pettegolezzi privati (per sparlare di questo e quell’altro, certi di essere ripagati con la stessa moneta), da utilizzare per avvantaggiarsi in qualche appalto (di fatto) truccato, da non condividere assolutamente con i «cari colleghi», vissuti come pericolosi rivali nella corsa alle scarse risorse. L’’unica forma consentita di pubblica condivisione delle informazioni è – troppo spesso –- il disperato appello di chi si accorge che sta per affondare e chiede aiuto. Con la speranza che arriverà qualche messaggio di doverosa solidarietà, che qualche assessore magari si commuoverà, e che in ogni caso, per chi ha deciso che il teatro è la sua vita, smettere sarà impossibile, anche in condizioni sempre più proibitive (e intanto gli altri, i «cari colleghi», magari scoprono l’allegria del sopravvissuto…).
Ecco, nei limiti del possibile ateatro sta cercando di mettere in circolo idee e informazioni. Ma è uno sforzo che, senza la collaborazione di tutti, rischia di restare inutile.

Redazione_ateatro

2004-01-16T00:00:00




Tag: CulturaPolitica&economia (2), FUS aka FNSV (135), lavoro (49)


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