Coordinate storiche e trasformazione del sostegno pubblico

Le Buone Pratiche 2: interventi & relazioni

Pubblicato il 28/10/2005 / di / ateatro n. #BP2005 , 091

Quella che segue è la traccia (meno di una relazione, più di una scaletta), del mio intervento a Mira. Ho lasciato qualche passaggio che nel discorso è saltato.

Mimma Gallina e Renato Nicolini a Mira.

a) PERCHE’ E’ OPPORTUNO RIFLETTERE SUI PRINCIPI
del fare teatro e del finanziamento pubblico

1. Perché non sono affatto scontati:
per chi fa teatro, per il pubblico, per tutti quelli cui vanno rispiegati da capo (politici e amministratori a destra e a sinistra), a ogni cambio di legislatura (nazionale e locale), di vento e di generazione.

2. Perché lo Stato in Italia (ai vari livelli) non ha mai del tutto recepito la funzione pubblica del teatro (storicamente):
le teorizzazioni legate alla nascita del Piccolo Teatro potrebbero essere lette come una parentesi in una distrazione lunga un paio di secoli e il vuoto legislativo e non è casuale.
(Per questo vorrei che questa discussione non si perdesse troppo in dettaglio: i “parametri” etc., sono importanti ma sono a mio parere una vecchia trappola bizantina in cui più o meno tutti cadono).

3. Perché la situazione nazionale e internazionale sta cambiando
ed è necessario elaborare coordinate precise in cui collocare e interpretare nozioni come valore, servizio, diritti ma anche pubblico, identità, educazione etc.
Siamo in un momento particolarmente delicato, in cui si gioca molto del futuro: con il taglio del Fus e della finanziaria in genere, forse raggiungiamo il punto più basso che ci saremmo immaginati nel rapporto fra Stato e Organizzazione della Cultura, ma se questo orientamento passa (e la gravità resta anche con il “ridimensionamento” del taglio), la scelta potrebbe essere irreversibile (del resto la nostra capacità di adattamento sembra quasi senza limite).
Per essere positivi come è nello spirito delle Buone Pratiche, ci piace pensare che stiamo per toccare il fondo, e questo aiuta a risalire. E’necessaria una spinta di reni, siamo costretti a riflettere, a attrezzarci, e la prospettiva di elezioni non troppo lontane contribuisce a risvegliare qualche ottimismo (per quanto si possa essere rimasti scottati – per singole esperienze e come settore – ANCHE dalla sinistra: già Paolo Aniello ha citato la fine della scorsa legislatura e voleva ricordare, credo, i contributi “extra Fus” reperiti in corner non per il teatro ma a favore di iniziative discutibili).
Non dimentichiamo fra l’altro che il problema è globale: riguarda l’organizzazione della cultura a livello mondiale (a questo proposito rimando all’articolo di Eduard Delgado “Per una politica fondata sui valori” pubblicato su “Economia della Cultura” XIV/2/2004, riportato fra i materiali e che mi sembra illuminante).

Vorrei dire il mio parere a proposito di SERVIZIO E VALORE: la “provocazione” che da qualche anno è nell’aria e che abbiamo voluto rilanciare, non porterà credo a uno scontro sui due termini e magari a negare la consistenza del servizio e la pertinenza e attualità di questo termine (anche se il ragionamento di Ronconi è suggestivo), ma ad aggiornarlo e a precisarne il senso e, parallelamente, a declinare il termine di valore. Già in questa prima fase della discussione sono emerse due accezioni: il valore in sé del teatro, da un lato, e il valore dell’opera, o di un progetto, o del lavoro teatrale di un gruppo, di un teatro (con i conseguenti problemi di “misurazione”). Vorrei aggiungere un terzo livello di riflessione, vorrei cioè che non si dimenticasse (anche riflettendo sulle suggestioni di Delgado), una POLITICA DEI VALORI: il rapporto del mezzo, o dell’arte teatrale con i VALORI. Delgado cerca anche di individuarli e li indica a grandi linee in una prospettiva appunto “globale”, strettamente legata ai diritti e, direi, “ecologica” (sostenibilità, memoria, diversità, connettività, creatività, autonomia-sussidiarità, solidarietà). Si potrebbe discutere nel merito dei singoli punti (e qualcosa del genere ricordo anche nelle dichiarazioni di Martone legate alla gestione del teatro di Roma). Ma la sostanza è che il teatro ha senso e trova un suo spazio importante nella società SE/QUANDO rispecchia e interpreta i problemi cruciali del mondo, di un Paese, delle persone (anche se questo ovviamente non basta perchè ci sia teatro). (Di recente sono stata a un festival, quello di Wroclaw (vedi ateatro 90), che si proponeva di indagare se il teatro rispecchi le ansie dell’Europa allargata, e come. L’interesse del festival non stava nel farlo in astratto, ma attraverso una selezione di spettacoli pertinenti, e in alcun i casi di altissimo livello).

b) FINANZIAMENTI

Cosa è successo (in breve)

– calo del Fus: 56% dall’85 a oggi in rapporto al PIL;
– 1990/2000: incremento (più o meno equivalente) dell’impegno degli enti territoriali e locali nel settore dell’attività culturale (Regioni, Province e soprattutto – in valore assoluto – i Comuni);
– 2000/2005: anche in assenza di dati precisi si ipotizza che l’intervento degli enti locali sia stato stazionario o sia leggermente calato in termini reali;

Situazione attuale e prospettive

Da oggi (con i tagli alla finanziaria) è una certezza il CALO DI ENTRAMBI i livelli pubblici di finanziamento (locale e centrale), anche se non siamo in grado di prevederne con esattezza la dimensione
Gli SPONSOR: come possibile livello sostitutivo, si sono rilevati un mito (incidenza minima/ una politica tutta da fare);
Le FONDAZIONI BANCARIE, che sono invece una realtà importante (almeno per il centro nord), non si sono orientate allo spettacolo che in misura ridicola (in particolare al teatro, cui arriva meno dell’1% dei fondi globali). Inoltre le linee generali e i criteri adottati per orientare i finanziamenti non in tutti i casi sono trasparenti.
Le Fondazioni Bancarie, ma anche Comuni e Regioni, hanno dimostrato una singolare propensione per IL MATTONE, investendo in ristrutturazioni e costruzioni di spazi che non avremo i soldi per gestire senza: o hanno fatto a volte con lungimiranza, ma spesso riflettere e senza perseguire soluzioni meno onerose, quasi come se l'”investimento” immobiliare non fosse una spesa e non avesse una precisa finalizzazione.
A questo proposito rimando all’obiettivo dei “piani regolatori” dello spettacolo dal mio libro Il teatro possibile, Cap. 1).
Le fondazioni bancarie sono quindi un ulteriore interlocutore importante con cui misurarsi e da orientare e convincere (non solo Stato per intenderci: bisogna equilibrare e distribuire le energie).

c) LA POLITICA DEL MINISTRO URBANI (Berlusconi 2)

L’apparente non politica del ministro Urbani è stata molto rilevante per il settore. Tra i suoi provvedimenti:

– la revisione dei REGOLAMENTI e in particolare lo stop alla triennalità (uno dei provvedimenti più rilevanti – per il risvolto programmatico – del governo precedente);
– la sedicente riforma dell’ETI (al di fuori da ogni confronto parlamentare o con il mondo del teatro nel suo complesso);
– la centralizzazione delle nomine rilevanti (a partire dai vertici dell’ETI, ma anche Arcus e Biennale: dove per la verità questo criterio era già stato introdotto);
– il clientelismo: basti ricordare l’aumento dei soggetti finanziati (molti dei quali non sono poi stati in grado di svolgere l’attività!);
– la discrezionalità (collegata al punto precedente ma non solo): prevista “per regolamento” e che finalmente almeno smaschera i presunti parametri quantitativi e qualitativi (chi ci crede ancora – molti temo – è peggio che ingenuo);
– la vergogna di commissioni incompetenti come mai prima (e continuamente smentite);
– l’ampio utilizzo di fondi extra-Fus, che quando si vuole ci sono (ma utilizzati con criteri ancora più discrezionali: a onor del vero più a favore delle istituzioni nazionali – ETI, Accademia Silvio d’Amico – che degli amici);
– l’istituzione di Arcus, che forse non è proprio “la creatura più bella di questa legislatura” (come ha sostenuto il suo presidente), ma indubbiamente le è molto coerente: una società del tutto priva di trasparenza e figlia del “principio di privatizzazione”. (Per inciso: questo malgrado la consapevole-accertata assenza di fondamento del decantato concorso pubblico-privato nel sostegno a beni e attività culturali; anche un cretino oggi ha capito che l’investimento nel settore non è “in sé” quasi mai un beneficio – anche se si può gestire meglio il merchandising! – ma è l’indotto a trarre beneficio e che il problema è quindi una politica articolata del territorio che punti/integri/valorizzi il bene culturale);
– l’assurdo braccio di ferro con le Regioni e perfino con le Commissioni parlamentari (ovvero la strenua volontà di mantenere tutte le decisioni – e tutto il potere e tutto il Fus – al centro, anche in presenza della riforma costituzionale (posizione che ha ritardato di tre anni il possibile iter di una nuova legge).

d) LE POLITICHE DI WELFARE

In questo quadro di azione, emerge a mio parere un disprezzo intollerabile per la “dignità” dell’artista, dell’operatore teatrale, e anche della tanto decantata “impresa” (disprezzo che ha raggiunto il vertice in alcune dichiarazioni del direttore generale del Ministero, Nastasi). Il richiamo all’astratta efficacia gestionale e ai valori economici riconducono del resto anche il “pubblico” (ricordate quei cittadini “liberamente riuniti ad ascoltare una parola da accettare o da respingere”?) a una categoria di marketing, “disciplina” utile e molto mal assimilate peraltro (un po’ come in treno, dove da viaggiatori siamo diventati clienti e da protagonisti di un’avventura ci siamo ridotti a polli da spennare).
Questa politica non è a mio parere da sottovalutare, perché, col suo basso profilo, corrisponde a “una concezione del mondo”, che sottrae di fatto ogni valore di principio e di prospettiva a quella che non possiamo quindi più definire “politica di welfare”, essendo ormai sganciata da qualunque ragionamento sui diritti, sull’accesso, sulla qualità della vita, sulla formazione delle persone etc. Mi sembra in sintesi che l’intervento politico sia regredito a una fase PRE-welfare (senza essere arretrata all’epoca fastosa del Principe, magari), o forse è già approdato a un ormai consolidato POST-welfare (un day after in cui si salvi chi può).
Ma su questo punto vedi le riflessioni ben più approfondite di Michele Trimarchi in ateatro 91.

e) EVOLUZIONE LEGISLATIVA

Su questo punto ci aggiorna Patrizia Ghedini (della regione Emilia Romagna e anche a nome del coordinamento tecnico delle Regioni)
(Inciso: anche chi è intervenuto nel progetto legge “fai-da-te” di ateatro, in non pochi casi dimostra di non aver colto fino in fondo che il passaggio di competenze fra Stato e Regioni – nella prospettiva “concorrente” – è un DATO ACQUISITO, da disciplinare: dobbiamo smetterla di pensare al sostegno pubblico allo spettacolo in una prospettiva statale: non è più così, e personalmente penso che non sia affatto un male e che il passaggio avrebbe dovuto verificarsi già negli anni Settanta).
Vorrei comunque esprimere alcune PREOCCUPAZIONI SULLA EVOLUZIONE LEGISLATIVO-POLITICA (anche a partire dai testi che abbiamo inserito nella cartella documenti e che troverete sul sito):
– la necessità di trovare un accordo può portare a mediazioni verso il basso (un po’ troppo verso il basso: è il caso del testo Rositani); le Regioni hanno messo a fuoco alcuni principi e questi devono a mio parere difendere. La legge che hanno elaborato è però anche una LISTA di tutto quello che le stratificazioni ministeriali hanno prodotto negli anni. E questo impedisce di scorgere il nuovo, o semplicemente di adottare nuove prospettive.
– in particolare nel passaggio di competenze penso che si debba evitare di ricalcare il passato prossimo (moltiplicando in brutte copie diffuse i criteri varati dal centro): sta già succedendo, molte leggi regionali (le più recenti) hanno spesso “fotocopiato” alcuni degli orientamenti peggiori dei regolamenti governativi. Inoltre, chi ha deciso che le leggi regionali devono essere nella sostanza uguali? (Questa è ancora una volta una mentalità statalista). Una volta garantiti alcuni diritti di base, a mio parere, viva la differenza.
– temo anche che si appiattiscano i criteri di valutazione su parametri di falsa rilevanza economica-falsa efficacia (va invece azzerata questa perversione – i primi a dirlo sono gli economisti – e bisogna avere il coraggio di ricominciare da capo).
– temo anche che si appiattisca la politica culturale sui “settori culturali”: cioè da un lato si rinnovino le divisioni classiche fra settori e all’interno degli stessi, dall’altro si riduca la politica per lo spettacolo allo spettacolo, o quella per i beni culturali ai beni culturali, dimenticando che deve essere parte di una politica sociale e culturale generale (che possa interagire con la formazione, l’informazione, la comunicazione, il turismo, l’integrazione sociale, l’educazione permanente, le politiche giovanili, le politiche del territorio). Speriamo a questo proposito che, almeno negli indirizzi del centro-sinistra per le prossime elezioni, si possa contare su un “effetto banlieue”. Questa consapevolezza dovrebbe essere anche dei teatranti, che dovrebbero poter far riferimento a diversi settori dell’amministrazione pubblica, non per moltiplicare le fonti di finanziamento (“furbescamente” come penserebbero certo i funzionari dei diversi organismi statali e locali), ma perchè è così, perchè questa molteplicità corrisponde alla realtà in un teatro fondato sui valori.

f) Considerazioni sugli ENTI LOCALI

Anche nella politica degli enti locali (comuni soprattutto) vedo assieme la possibile salvezza, ma anche un potenziale grande rischio. La salvezza, sta nella consapevolezza abbastanza diffusa di costituire il baluardo, la linea di non arretramento rispetto alle garanzie minime di servizio.
Il timore, sta nel possibile scivolamento delle politiche locali da SOLO ISTITUZIONE a SOLO EVENTO. E nella necessità (probabile a tempi brevi-medi, salvo inversioni di tendenza) di modalità molto selettive di intervento che non credo abbiamo – quasi in nessuna area del paese – trovato criteri meditati di riferimento che non siano il salvataggio dell’esistente.
Il racconto della Notte Bianca di Roma di Giovanna Marinelli è molto chiaro circa il valore sociale, le ricadute e i benefici di un grande ‘”evento” e credo che tutti si sia consapevoli della complessità della politica culturale di un grande comune. Ma tutti sappiamo anche che molti medi comuni sperperano (non lo dico per moralismo), in grandi concerti e improvvisati eventi, sappiamo anche quanto le realtà consolidate (legittimamente convenzionate e sostenute), possano schiacciare quelle emergenti. E sappiamo anche quanto sia negli anni scaduta la qualità di gestione delle istituzioni culturali comunali (fino quasi a far sparire la figura della direzione artistico-organizzativa: cioè una “strategia” dell’istituzione). Anche i comuni insomma, devono riflettere su minimi comuni denominatori di intervento e sulla responsabilità che rivestono a livello locale e nazionale in questo loro ruolo di garanti del servizio.

g) Considerazioni sugli INVESTIMENTI per la CULTURA con qualche nota sulla SPESA

Torniamo su questo punto per un momento: la contrazione è davvero inevitabile? e progressivamente andrà sempre peggio? (magari un po’ meno peggio se cambia governo, ma una progressiva minore disponibilità di risorse è inevitabile).
Io non credo che sia così ineluttabile.
Credo cioè che scelte decise a favore dello spettacolo e della cultura siano possibili, a fronte – ovviamente – di altre contrazioni, in altri campi. Ma anche se un nuovo governo (certo non questo) arrivasse a un effettivo investimento, sarebbe necessaria un’analisi del settore nel suo complesso, delle competenze, dell’efficacia degli interventi, delle diverse politiche e fonti di riferimento (non solo Fus: è chiaro che una alternativa, o una serie di alternative al Fus, va individuata).
Ma a maggior ragione nella situazione presente e in un’ottica pessimista (certo più realistica), è/sarebbe doveroso analizzare seriamente le eventuali aree di spreco, i possibili miglioramenti di gestione.
Non entriamo nel merito della questione delle Fondazioni Lirico Sinfoniche – ma sicuramente il problema della loro gestione, funzione, numero esiste – ma nel settore prosa? Sono presenti aree di spreco:
– gli stabili pubblici: penso – e in questo sono sempre stata d’accordo con Ivo Chiesa – che i nostri stabili soffrano di un “sotto-investimento” (e credo che le istituzioni debbano invece esistere e vadano rafforzate: a certe condizioni, ma questo forse è un altro convengo). Gli sprechi – che ci sono – corrispondono paradossalmente proprio alla rincorsa un po’ stupida e molto demodé a “prodotti di lusso” (e non saprei su questa tendenza chi/come potrebbe intervenire, visto che dipende dal “gusto” dei direttori);
– l’ETI: è talmente evidente in questo caso l’improduttività (il rapporto negativo costi/efficacia che si è rivelato irreversibile/irrimediabile), che il suo scioglimento sarebbe logico sotto qualunque amministrazione, e mi sembra inevitabile nella prospettiva del passaggio di competenze (anche le Regioni lo prevedono nel loro progetto di legge: non so se solo ritualmente). In tutti i frangenti più difficili, però, l’ETI si è salvata e sono quasi certa che questa mia considerazione non troverà un riscontro nei fatti e è probabile che si debba discutere – se ci sarà data facilità di discuterne – su una sua, speriamo sostanziale, evoluzione). (Questo non ha niente a che vedere con la buona fede delle persone che all’ETI lavorano – e le cui competenze secondo me potrebbero meglio essere utilizzate altrove – e ringraziamo il direttore e il presidente del messaggio che ci hanno mandato).
– esistono infine singole imprese per cui i contributi pubblici sono eccessivi: a mio parere esistono aree estese di teatro leggero che beneficiano di aiuti eccessivi rispetto agli esiti di mercato; anzi i contributi sono proprio proporzionati a questo successo, e sono convinta che in molti casi si configurino in larga misura come lucro. Forse su questa area del teatro ANCHE questo governo, che l’ha particolarmente incentivata, dovrebbe riflettere (praticamente TUTTI o quasi gli incrementi di un certo rilievo hanno premiato il teatro leggero).
– a livello delle città e delle regioni è poi davvero urgente disegnare piani di sviluppo e piani regolatori, e credo che le forze teatrali dovrebbero spingere in questa direzione.

Il mio intervento più o meno si è interrotto qui – già ho lasciato alcuni passaggi che nel discorso sono saltati.
Avrei voluto in conclusione anche:
– sottolineare i problemi del lavoro nello spettacolo (che nessuno ha toccato);
– ma anche ricordare la fantasia che ha consentito alle compagnie con infinite attività teatrali e extrateatrali di andare avanti e di sviluppare la loro attività (questo era il senso di Buone Pratiche 1)
– e fare un accenno agli osservatori dello spettacolo, nazionali e Regionali.
Su alcuni punti che mi stavano a cuore, sono intervenuti successivamente e più approfonditamente Patrizia Ghedini e Giulio Stumpo (in particolare mi riferisco al “diritto” alla cultura e al teatro come “opportunità” e alla inadeguatezza di parametri economici per “misurare” l’attività teatrale). Sulla necessità di elaborare schemi di riferimento trasversali ai settori ha presentato proposte efficaci Filippo dl Corno (insistendo molto sulla sobrietà della spesa: argomento che condivido ma che può anche essere un boomerang).
Infine – in sede di dibattito – è emersa la proposta tutt’altro che astratta di promuovere un’azione coordinata per vincolare i parlamentari della prossima legislatura a portare l’investimento sulla cultura all’1% del PIL. Mi sembra un’ottima proposta, su cui lavorare in concreto in funzione di Buone Pratiche 2/Sud.

Mimma_Gallina

2005-11-20T00:00:00




Tag: FinanziamentoPubblico (10), FUS aka FNSV (137)


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